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La città invertita

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La città invertita

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Remoria è la città che sarebbe sorta se al posto di Romolo, nella leggenda di fondazione fratricida, a vincere fosse stato Remo. È il negativo occulto di Roma, il rimosso che aleggia perenne e che preme per tornare in superficie. Remoria non dovrebbe esistere eppure è in continua espansione: erode i confini, ribalta le gerarchie e dissolve la logica della fu Città Eterna. Perché la logica non può rendere conto di quell'immensa parte di Roma che sta fuori dal centro: la razionalità non può spiegare il Grande Racconto Anulare, la «borgatasfera» che si addensa delirante per chilometri su entrambi i lati dell'anello autostradale, le tribù di giovani mutanti che nascono in mezzo a quel niente e cambiano tutto. Raccontare Roma oggi pare un'impresa disperata, non c'è narrazione che possa contenerla. Valerio Mattioli rovescia dunque la prospettiva: parte dal fantasma, dal doppio indicibile delle sue periferie per plasmare una mitologia parallela, che inizia nella Ostia di Amore tossico, passa per la nascita delle bande metropolitane, attraversa la stagione dei rave party, e atterra in un presente dominato da rovine piovute dal futuro, discariche e campi rom. Mescolando storia delle sottoculture, psicogeografia e romanzo di formazione, e annaffiando il tutto di scienza alchemica e fantahorror lovecraftiano, Remoria è una lunga lettera d'amore che dalla Centocelle del coatto sintetico Ranxerox viene indirizzata a tutte le periferie del pianeta, nel tentativo di far riemergere la città che potrebbe essere e che (ancora) non è.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788833891170
Categoria
Sociology

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NEW SODOMA

I

Spaziokamino venne sgomberato nel febbraio del 2001. Per quasi dieci anni era stato uno dei tre o quattro posti che più di tutti avevano dato senso a quel continente ignoto che nell’immaginario romulano restava «la periferia», ma era pur sempre uno spazio illegale, abusivamente occupato da un manipolo di esagitati che sventolavano striscioni con sopra il logo di una pasticca. Non fu il primo centro sociale a essere sgomberato, né tantomeno restò l’ultimo. Ma in quegli inizi di 2001, il suo epilogo era davvero un preludio al tracollo prossimo venturo.
Anche se era Roma la realtà che di gran lunga ne contava in maggior numero, dall’inizio degli anni Novanta i centri sociali avevano riempito le città di tutta Italia, e attorno a loro si era coagulato un movimento cresciuto fino a diventare un legittimo protagonista della politica nazionale. I suoi rappresentanti o portavoce – almeno quelli considerati presentabili – venivano intervistati in tv, e anche se eri un adolescente del tutto disinteressato a qualsiasi messaggio politico o radicale, era comunque probabile che prima o poi in un centro sociale ci saresti passato: da spazi clandestini ultimo retaggio della vetusta sinistra extraparlamentare, erano diventati una sorta di trasversale calamita generazionale. Solo che i loro giorni erano contati: più che con gli sgomberi, la fine arrivò con la brutale, omicida repressione che accompagnò le manifestazioni del luglio 2001 contro il G8 di Genova. L’accanimento poliziesco nei confronti del «movimento dei centri sociali» fu tale da produrre una frattura che non si sarebbe mai più ricomposta. Lo sgombero di Spaziokamino era stata soltanto la piccola, ultraperiferica anticipazione di un lutto generalizzato che nessuno pareva in grado di elaborare.
Il risultato fu un senso di smobilitazione diffusa che, nei primi anni Duemila, relegò le occupazioni degli anni Novanta in un cono d’ombra di cui era persino difficile definire i contorni. Era a tutti gli effetti un riflusso, solo che era un riflusso strano: non aveva quasi nulla del passo tragico che aveva trasformato gli anni Ottanta in un cimitero di eroina, carcerazione di massa e periferie trasformate in quartieri fantasma. Piuttosto, assomigliava a una lenta, malinconica discesa nei meandri di un’impotenza rassegnata e col passare del tempo sempre più logora: gli slogan che pochi anni prima avevano elettrificato la scoperta del negativo urbano parevano di colpo vetusti, consunti; il simbolo del cerchio solcato da una saetta divenne quasi da un giorno all’altro il romantico equivalente di un reperto storico proveniente da un passato prossimo che ancora non aveva conosciuto i social network e l’11 settembre.
La borgatasfera, dopo il picco di intensità degli anni Novanta, si ritrovò affaticata, incapace di linguaggi nuovi. Tutto sembrava restare al suo posto: il Forte Prenestino era sempre lì, le macchine sul GRA giravano ancora in tondo, e qualcuno si intestardiva addirittura a organizzare feste techno e rave illegali. E però la sensazione era di svuotamento, e in natura il vuoto perfetto non esiste. È una legge della termodinamica, che l’energia in qualche modo si conservi: trasferita da un dispositivo all’altro, cambia semplicemente forma e all’occorrenza funzione. Da sempre lo spazio antitopico della borgatasfera era stato un campo all’interno del quale si scatenavano forze e tensioni disequilibranti. Adesso era arrivato il momento dell’equilibrio – e per di più imposto dall’alto. Il centro annusava l’aria e imponeva i suoi linguaggi. Dietro il surreale vessillo di un Pasolini eletto da Romulia a santo patrono di una mai esistita periferia al sapor di miele e buoni sentimenti, intuivi in lontananza il fantasma della gentrificazione. E a fermarla non c’erano più né zombie, né streghe, né cyborg.

II

Imboccato il quadrante orientale dopo aver vanamente testato aree già troppo sature di identità posticcia, agli inizi dei Duemila la gentrificazione piombò come una bestia affamata di rendite su via Casilina – e lì, posò il suo sguardo sul Pigneto.
Tra i quartieri della borgatasfera casilina, era al contempo il più centrale e il più misterioso. Per chi veniva dalla cerchia interna, la sua presenza stava a rappresentare le colonne d’Ercole oltrepassate le quali il viandante avrebbe incontrato il budello in calcestruzzo del Mandrione, di Torpignattara, del Quadraro. E poi ancora oltre di Centocelle, del Quarticciolo, di Torre Maura. E oltrepassato il GRA di Tor Vergata, di Torre Angela, di Tor Bella Monaca. Tutti nomi arcani, tutti nomi resi familiari dall’aura mitologica che la borgatasfera casilina si era costruita attorno in interi decenni di comportamenti devianti. Ma con le sue baracche che ancora odoravano di anni Cinquanta e su cui incombevano le serpentine corsie soprelevate della Tangenziale Est, il Pigneto restava un enigma sospeso tra due mondi, una terra di nessuno inviolabile, un’Area X dove convergevano flussi insondabili. Nessuno ci andava mai, se non per darsi a pratiche oscure da espletare al riparo dal resto del mondo. Negli anni Ottanta era stato il quartiere rifugio per Porpora Marcasciano e la comunità trans. Negli anni Novanta vi sorgeva il Degrado, il locale per scambisti nelle cui dark room Torazine organizzava le sue feste di lancio. Ancora prima, era stato il luogo dove Pier Paolo Pasolini aveva girato Accattone, l’atto di fondazione – agli occhi del centro – della periferia romana moderna. Ed ecco: fu in questa chiave che l’icona da lungo tempo appassita del cantore delle borgate venne rispolverata, per diventare il volto-immagine del grottesco programma che annunciava i nuovi piani del centro per la periferia.
Seducente creatura partorita da un rito di magia bianca squisitamente romulano, la gentrificazione era una Gorgone in cui convivevano speculazione immobiliare, rivolgimento demografico e forme parassitarie di messa a prodotto dei territori, il tutto attraverso operazioni di marketing opportunamente rebrandizzate «riqualificazione urbana». Scagliato su quella prima propaggine di borgatasfera casilina, l’incantesimo sortì effetti degni di una metamorfosi ovidiana: in pochi anni, il «quartiere di Pasolini» venne invaso da incolpevoli (e borghesissimi) appartenenti all’allora nascente «classe creativa», attratti dagli affitti bassi e dall’inconfondibile atmosfera pasoliniana delle sue strade. Gli artisti, i creativi, i pubblicitari, rimpiazzarono con le loro abitudini le indicibili pratiche che fino a poco tempo prima avevano occultato la zona allo sguardo di Romulia, che da autoritario si era fatto sospettosamente tollerante, benevolo, ammaliante.
La gentrificazione aveva il tocco appiccicoso di chi parla la tua stessa lingua ma sembra averla imparata su un dizionario: musica elettronica «di qualità», sensibilità underground, fascinazione sottoculturale, locali di tendenza arredati con materiali di risulta come nel più miserabile dei centri sociali – ma tutto spogliato di ogni forma di rischio, di conflitto, di intensità. Il suo effetto era narcotizzante, di una narcosi che nemmeno prevedeva il confronto terrifico con l’ignoto. Passavi una serata a bere birra in uno dei mille locali che cominciavano a popolare il quartiere, e senza fare altro alimentavi il motore di una macchina che solo troppo tardi ti saresti accorto di non essere in grado di governare. Gli affitti si alzavano, le rendite si impennavano, la testarda improduttività del margine diventava essa stessa motivo di profitto.
Questa era la lingua che il centro coniò per infiltrarsi tra gli interstizi rimasti vuoti della borgatasfera alle prese con quel riflusso così nuovo e così infido. L’alfabeto e la cadenza erano quelli di Remoria; ma la grammatica, la sintassi, erano quelle di Romulia che insidiosa sperimentava nuove tattiche per la quadratura del cerchio. Incitata dal volto di un Pasolini neutralizzato del suo soffio satanico, la gentrificazione del Pigneto si era rivelata per quello che nessuno immaginava potesse essere: non la presa di Salò, ma l’edificazione di un gigantesco parco a tema il cui principale oggetto di esperienza, il cui sommo motivo di divertimento, era la borgata stessa.

III

Dov’era l’orda di negromanti che per decenni avevano opposto le loro nere liturgie ai tentativi di recupero del centro? Dov’era quell’etica del margine che schizofrenicamente aveva tenuto assieme proletariato giovanile e coatti, punk e militanti dei centri sociali, raver e turboproletari? Nella semicentrale Testaccio già sfiorata dai turisti a caccia di monumenti, il Cichitone si inventò una serata chiamata Phag Off che a cadenza più o meno mensile si teneva nei minuscoli locali del Metaverso. Era una festa queer frequentata da un pubblico trasversale che metteva assieme comunità frocia, reduci dei centri sociali e raver pentiti. Si respirava una bella aria, al Phag Off: la sessualità che per anni era stata tenuta a bada dall’abuso di ecstasy e altri intrugli chimici esplodeva in un’orgia godereccia di corpi che si spogliavano, sudavano e si strusciavano, all’insegna di una depravazione festante, gioiosa, allegramente disinibita. Tizi che facevano fist fucking in mezzo al pubblico danzante sotto gli occhi sbigottiti di qualche studentessa fuorisede, scopate nei bagni, pomiciate col primo che passa, strisce di MDMA in polvere sniffate clandestinamente dietro il bancone del bar. Almeno fino al 2005, fu probabilmente la festa più chiacchierata di tutta Roma. Era tutto così... liberatorio. Eppure era tutto così rassicurante. Chiuso in un club con tanto di licenza a due passi dal centro, veniva meno il brivido a cui la prassi del limite ti aveva abituato. L’esplosione erotica che raggiante deflagrava lì dentro acquisiva i contorni ambigui della performance.
Swaitz da parte sua era passato direttamente a girare film porno. Era diventato un regista della scuderia di Silvio Bandinelli, il produttore a cui si dovevano assurde pellicole tipo Cuba e Mamma: il primo un omaggio hardcore a Che Guevara, il secondo un film che mescolava cazzi, culi, eiaculazioni e omaggi alla lotta partigiana. Sesso e antifascismo: suonava bene.
Nell’industria del porno, Swaitz adottò lo stesso atteggiamento che già lo aveva spinto a proporre di organizzare un rave dentro un centro sociale; nelle sue parole, «portai il mio mondo: la borgata, i coatti, i pischelli, le droghe. Feci un po’ il neorealista della situazione». Il suo più grande successo da regista arrivò nel 2007: si intitolava Mucchio selvaggio ed era la storia di una guerra per il controllo dello spaccio di cocaina in città, naturalmente condita di cumshot, amplessi acrobatici e penetrazioni anali. La trama era improbabile: tra una scena di sesso e l’altra, a sfidarsi erano non due bande di malavitosi sanguinari, ma una gang di rapper e una di raver. Alcune scene erano persino state girate al Forte Prenestino, i cui occupanti pensarono a qualche classico film depravato-underground di quelli che tanto sarebbero piaciuti a Torazine. Quando videro il risultato – un porno a tutti gli effetti senza alcuna velleità controculturale, zeppo di scene che immediatamente facevano scattare l’allarme «sfruttamento dei corpi» – lo ripudiarono all’istante. Almeno Phag Off propagandava una sessualità esibita ma carica di potenziale desiderante; Mucchio selvaggio, invece, politicamente era impresentabile. Dopotutto, bastavano gli attori maschili scelti per interpretare la banda di rapper: si chiamavano Gel, Metal Carter, Noyz Narcos, e nella vita reale erano rapper sul serio, e anche molto conosciuti. Solo che, ecco, il loro rap non aveva niente a che vedere con la «poesia della strada» intonata dall’Onda Rossa Posse più di quindici anni prima. A essere sinceri, a loro del binomio rap & politica non fregava un assoluto cazzo. Loro erano il TruceKlan.

IV

Per qualche anno, il TruceKlan fu la grande sensazione in città. Se in borgata il suo culto non assunse mai quell’aura messianica che aveva ammantato Freddy K e Lory D, bisogna riconoscere che ci andò comunque vicino, e a dirla tutta inaugurò una stagione nuova – un’estetica nuova.
Il legame tra TruceKlan e cultura chimica anni Novanta era abbastanza diretto, ed è probabilmente per questo che a esserne attratto fu anche un tipo come Swaitz; ma nel TruceKlan, il devasto tossico che aveva segnato l’orizzonte della stagione illegal rave diventava un ghigno nichilista che gaio sguazzava in una cloaca umorale dalle surreali tinte horror. Era come una versione a fumetti di Torazine: morte, squartamenti, sessualità esplicita e riferimenti gore riempivano le strofe di brani che portavano titoli come «Roma violenta», «Ammazzami» e – immancabile – «666» e che parevano presi dalla sceneggiatura di qualche emulo in overdose di Ruggero Deodato e dell’infame stagione dei cannibal movie nostrani. La loro base era una birreria su Ponte Casilino a due passi dalla rampante gentrificazione del Pigneto, ma erano mondi che parevano appartenere a galassie distanti anni luce: perché nel TruceKlan e nel suo tripudio di violenza circense e sesso hardcore, affiorava pesante il soffio della sofferenza psichica, del disagio interiore, del più crudo e diretto disturbo mentale. Nel riflusso degli anni 2000, il rap di Gel, Metal Carter e Noyz Narcos introdusse un elemento di paranoia che era la perfetta esplicitazione del down generalizzato seguito al rush estasioso degli anni Novanta.
Era questa fragilità malata, questa familiarità col lato oscuro, questo abbandono alle peggiori perversioni che popolano gli incubi a occhi aperti del risveglio chimico, a rendere il TruceKlan credibile anche quando pareva impegnato in una semicomica operazione di parodia dello stereotipo di strada. Per Swaitz, i ragazzi del Klan erano «trash, drogati e orgogliosi di esserlo, dei disagiati veri. Fu la cosa più estrema, fresca e ribelle in cui mi trovai coinvolto una volta finita la stagione rave». I brani di Gel, Metal Carter e Noyz Narcos erano cupi squarci che riattualizzavano in forme inaspettate l’essenza dark che già fu di Muta e Antisystem, e attorno a loro si muoveva tutto un sottomondo che del marciume e della dissolutezza faceva una missione di vita: storie di ville oltre il GRA dove organizzare orge che andavano avanti per settimane, droghe di tutti i tipi, maratone a base di benzodiazepine e alcol, psicofarmaci ed eroina, istinti suicidi e edonismo senza scopo... Altro che posse: fu con loro che il rap venne finalmente legittimato come linguaggio di riferimento nelle periferie romane.
Solo che il TruceKlan non era un prodotto della periferia. Alcuni di loro li conoscevo sin da adolescente: venivano perlopiù dalla piccola e media borghesia dei quartieri interni, e per quanto fossero evidentemente attratti dall’atmosfera vizio & pericolo da sempre associata alla borgatasfera, era difficile spiegargli che no, quell’atmosfera non era la stessa che potevi ritrovare nei giri di spaccio al parco della Caffarella, il grande, bucolico polmone verde a due passi dal centro dove ancora in età liceale Gel e soci andavano a farsi le canne. Non era tanto che la figura del liceale del centro sembrava combaciare poco con quella del borgataro illetterato: era proprio che in borgata i parchi non c’erano. Ancora a inizi Duemila, gli unici due surrogati di verde che insistevano su via Casilina erano occupati da sfasciacarrozze e campi rom. Poi certo: anche lì sarebbe arrivata la riqualificazione.
Obiettare sulla street credibility del TruceKlan viene facile, ma la realtà è che della street credibility al TruceKlan fregava meno di zero. Come già Torazine prima di loro, quello che interessava a Gel, Metal Carter, Noyz Narcos e agli altri affiliati del clan era la merda in quanto merda. In loro non c’era niente di artefatto: col TruceKlan il Male diventava una presenza tangibile, reale, vissuta sulla propria pelle in un impeto di sincero fanatismo suicidario. In termini di prassi del limite, non avevano nulla da imparare. Ma la frequentazione così insistita del margine, conduce prima o poi al confronto col margine nella sua forma più nuda – e a quello il TruceKlan non era preparato. Essere credibili, in quel dominio dell’improbabile che è la borgatasfera, non è a rigor di logica necessario. Ma quando l’improbabilità cede alla vendetta del centro, feroce riaffiora la bestia del Reale.

V

La nemesi del TruceKlan, il cupo monito che, se vuoi parlare la lingua della borgata, con la borgata prima o poi ti tocca fare i conti, arrivò con gli O.D.E.I. Erano anche loro un collettivo rap o per meglio dire una crew, se vogliamo restare ai manuali di terminologia hip hop. Ma per sondare il limite non avevano avuto bisogno né di ville fuori il GRA né di maratone chimiche alla gaudente ricerca del devasto. Facevano base a Tor Bella Monaca, il grande quartiere di edilizia popolare che della borgatasfera casilina stabiliva il nucleo esterno, e che nell’immaginario borghese scatenava una tale forma di apprensione che solo evocarne il nome conduceva diritto a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. / Ouroboros
  4. / Vas indebitum
  5. / Elettricità
  6. / Accelerazione
  7. / Possessione
  8. / Autogeddon
  9. / New Sodoma
  10. Fonti