Sei stato felice, Giovanni
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Sei stato felice, Giovanni

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Leggere l'esordio di un classico è come assistere a un fenomeno naturale. In fondo, scrisse Calvino per tutti, il primo libro è il solo che conta, e forse bisognerebbe scrivere quello e basta. Sei stato felice, Giovanni è il grande strappo che Arpino diede alla sua vita. Aveva ventitré anni e alloggiava in una pensioncina di Genova, lurida e malfamata. Ci mise venti giorni. Venti giorni per inventare una voce. E un paesaggio. Per dire addio agli amici, alla giovinezza, agli amori impossibili, alle tante allegrie e disperazioni di ogni età precaria. Per gettarsi alle spalle gli Hemingway e gli Steinbeck, Vittorini e Pavese, il cinema francese e il lungo intervallo della guerra. Il primo libro di Arpino è un libro di congedi. Una storia da ultima sbronza, in attesa dell'età adulta e del porco avvenire. L'avventura di chi portava la solitudine come un berretto e si sentiva un proiettile disperso, un reduce, anche se non ricordava più da cosa. Il suo protagonista sa che deve muoversi, cercare un lavoro. Ma intanto si ubriaca, litiga, si innamora, contrae debiti e sfortune. È pigro, crudele e prodigo. Non può che abitare un porto, averne l'odore, appartenere a un'umanità di marinai, di prostitute, di vagabondi. Un porto che si chiama Genova, con quell'aria svelta e sottile di mare, ma che potrebbe essere Buenos Aires o essere qualsiasi altro posto. Perché Sei stato felice, Giovanni è un libro che parla con parole vere, prepotenti e insostituibili.Minimum fax è orgogliosa che sia proprio Giovanni Arpino il primo scrittore italiano a entrare nella collana dei classics

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788875219499
Argomento
Literature
Categoria
Classics

1
/

Erano lì, all’angolo. Olga me l’aveva detto. «Ci sono tutti e tre. Fa’ attenzione. Sono senza giacca ma fa’ attenzione».
Era importante che non avessero la giacca, nelle tasche dei calzoni si porta raramente il coltello, mai quando lo credi necessario.
Già due volte erano venuti a cercarmi, da quella sera. Olga era riuscita a tenermeli lontani, aveva pianto e pregato, la padrona dell’albergo non s’era accorta di nulla.
Sdraiato sul letto li avevo sentiti scendere le scale bestemmiando sottovoce.
Ogni tanto si facevano vedere sotto la finestra. La finestra aveva un muro e un fumaiolo di fronte; quando pioveva forte la grondaia dell’altra casa mi ributtava l’acqua sui vetri. La grondaia era piena di terriccio, scatole vuote di fiammiferi e un po’ di verde era cresciuto tra le scatole. Avrei potuto salire sui tetti opposti senza pericolo, anche di notte.
Torcendo la testa potevo vederli passeggiare nei due metri della salita di San Siro, a mezzogiorno e verso sera, su e giù, ostinati. Due giorni prima erano venuti appoggiandosi ai bastoni, me li avevano indicati con la mano. Feci cenno di sì, che sapevo, poi non li avevo più visti.
Olga aveva paura. Paura di essere licenziata, paura per sé, paura della gente che le avrebbe chiesto, dopo, com’era successo e perché, paura per me, anche.
Quel mattino finirono col pescarla sotto il portone. Si erano accorti che era Olga a portarmi il vino il pane le sigarette in camera. Con un paio di schiaffi le levarono la voglia.
«Digli che esca, quel vigliacco. Fa picchiare te che non c’entri. Ha paura, lui. Digli che esca. Più presto esce meno ne coglie».
Io avevo paura, certo, molta paura; dovevo aspettare che passasse. Aspettavo il momento in cui i muri, il lavandino con la crepa, il letto disfatto, il fumare su e giù per la camera, l’asciugamani sporco mi dessero la nausea, cacciassero la paura a forza di nausea. Venuto quel momento sarei uscito, ero certo che sarebbe venuto e allora aspettavo, mi sarei lasciato bastonare senza più troppa paura.
Dovevo prenderle. E tutto per una birra che Luigi il catanese aveva offerto e poi rifiutato di pagare. E aveva offeso Giovanna, l’aveva riempita di parolacce che a Giovanna non avrebbero fatto né caldo né freddo, ma non lì, davanti a tutti, nel caffè, con gli uomini ai tavoli che ridevano, persino Aldo il barista rideva, finché Giovanna innaffiò il catanese con la bottiglia del seltz. Non rise più nessuno quando Luigi fece per prendere la ragazza e io mi alzai. Beppe e Mauro erano gli amici di Luigi ma non si alzarono; mica erano scemi, con tutta quella gente attorno pronta a gridare: Aldo avrebbe telefonato subito alla polizia.
Stavo fermo con Giovanna dietro che respirava forte. Mi era simpatica la ragazza, l’avevo conosciuta appena arrivato a Genova, mi aveva anticipato le sigarette per una settimana e rammendato la camicia, una sera. Ma non era per questo che mi ero alzato. In verità non lo sapevo bene nemmeno io. Mi ero alzato e ora nessuno rideva più, vedevo Beppe e Mauro impassibili con le sigarette ferme nell’aria; Luigi guardò me.
«Ehi», fece Aldo da dietro il banco, «non fate i fessi».
Ma io ero in piedi, tutti aspettavano e dovevo fare qualcosa. Così mi avvicinai a Luigi e gli dissi di smetterla. Sapevo che aspettava una mia parola ancora per colpirmi di sorpresa, così lo colpii subito io. Gli tirai un pugno debole alla bocca e sentii sotto le nocche il duro dei denti e quella sensazione calda molle veloce di aver colpito mi attraversò il braccio dalle dita alla spalla. Lo colpii ancora al naso e al petto, non reagiva, e così presi gusto a vederlo con le mani sulla faccia, barcollava un poco coprendosi e lo colpii due volte forte e secco sotto l’orecchio. Aldo tremava, lo vidi un attimo dietro il banco con il sifone del seltz in mano, la bocca aperta che si muoveva. Vidi anche gli altri alzarsi, Giovanna che era corsa fuori e guardava pallida dalla strada nella luce bianca dell’insegna. Prima che Mauro e Beppe fossero vicini spinsi Luigi nel vicolo e lo battei due tre volte contro il muro. Faccia a faccia gli vidi gli occhi chiusi, teneva le mani molli lungo il corpo. Il cappello gli cadde e ricordo che seguii con l’occhio il cappello finché non vidi una mano che lo raccattava.
Dopo mi era venuta la paura. Sapevo che non potevano lasciar correre, troppi amici ci avevano visti e ormai Aldo ne aveva fatto una delle sue storie per i radi clienti del mattino.
Mi chiusi in albergo deciso ad aspettare la fine della paura. Una sera soltanto tentai di uscire.
Volevo andare all’osteria di Antonio a bere vino e giocare a carte con gli amici. Olga avrebbe voluto giocare lei a carte con me, ma si capisce che non è la stessa cosa. Avevo sete e pensando agli amici la sete cresceva.
Uscii e li vidi tutti e tre contro il muro che fumavano. Non si mossero quando mi voltai e infilai le scale come una lepre.
Mi chiusi in camera furioso e pieno di paura. Dalla finestra aperta venivano gli odori e le voci delle cene, il faro sciabolava lento il cielo con una striscia di luce che prendeva peso poco a poco. Dalla casa di fronte salivano i rumori dei coltelli sui piatti e voci alte di bambini a tavola. Avevo sete e voglia di parlare di ridere ed esser contento, mi sentivo furioso e con la paura su tutta la pelle come un sudore.
Avrei potuto avvertire gli amici a mezzo d’Olga ma sentivo che non era onesto. Neppure loro tre erano onesti, appunto perché mi facevano la posta in tre, ma io sì, lo ero ancora, e la paura non era abbastanza grande da impedirmi di esserlo.
Per tutto questo aspettavo. Aspettai finché il mattino Olga mi disse che non avrebbe più portato le sigarette e il vino. Mi raccontò degli schiaffi.
«Non volevo dirtelo, ma...»
«E tu?»
«Io niente», disse, e sorrise, ma vedevo che aveva paura e non voleva più rischiare.
Le dissi che sarei uscito la sera, forse.
«Ma non hai paura?», mi guardava in faccia.
«Sì, ma non più tanta».
Fu sera. Prima di lasciare il servizio si fece alla porta e mi disse dei tre che erano lì, senza giacca, e aspettavano come sempre. Sorrideva, sorrisi anch’io, senza sforzo, la paura se ne era andata quasi del tutto. Non era bella, Olga, ma aveva un bel sorriso e una pelle bianca e liscia. Voleva dirmi che non sarebbe successo niente di serio, forse, che domani sarebbe venuta mezz’ora prima all’albergo per vedere come mi avevano conciato.
«Vuoi che ti aspetti in qualche posto?»
Era una buona voce calma.
«No. Piuttosto prestami cento lire. Grazie. Va’, via, adesso».
Mi seccava vederla lì calma, in piedi.
Strizzò l’occhio e se ne andò. Mi alzai dal letto e studiandomi nel vetro pallido della finestra nella sera mi sbarbai.
Dovevo far venir notte, nell’aria salivano i rumori dell’osteria lì abbasso e lo sferragliare dei tram lontani; mi tolsi la camicia, ne indossai un’altra più stracciata e sporca, non indossai la giacca. Potevo uscire adesso. Uscii.
Alla birreria diedi un’occhiata oltre il banco dei gelati, non c’era nessuno dei miei amici, bene, entrai. Con due dita feci vedere ad Aldo il biglietto da cento lire e quello mi portò una bottiglia di Barbera.
«E allora?», disse.
«Siamo qui».
«E Luigi?»
«Me ne infischio di Luigi», dissi.
«Così si fa».
«Un’intera famiglia avvelenata da una bottiglia di Barbera», dissi guardando il vetro spesso e verde. Aldo rise e se ne tornò dietro il banco.
Mi rimanevano cinque sigarette, fumando bevvi lentamente. Non era un buon Barbera, si capisce, ma lo gustai molto, dal giorno prima non bevevo e mi sentii contento.
Il caffè era quasi vuoto, solo due vecchi in un angolo che fumavano in silenzio, le carte da gioco sparse sul tavolo. Aldo lucidava la macchina del caffè lanciando occhiate nel vicolo.
D’un tratto pensai a mia madre, poi ai miei amici che erano all’osteria e giocavano parlando forte. O forse erano andati al cinema. Chiesi ad Aldo quale film fosse in programma.
«Giulietta e Romeo», disse.
No, non erano al cinema, erano all’osteria.
Uno dei vecchi uscì salutato da Aldo, l’altro continuò a fissare le carte. Guardavo le bottiglie allineate dietro il banco con le etichette colorate e mi sentii allegro. Era bene essere usciti da quella baracca, vedevo la gente passare nel vicolo, entrare e uscire di colpo nella luce cruda dell’insegna. L’aria era fresca e buona, saliva dal mare. A tratti veniva dentro l’odore di pesce e di muffa, di panni e muri fradici, ma subito il vapore della macchina espresso lo assorbiva allontanandolo dai tavoli. Era davvero una magnifica sera tranquilla, mi sentivo molto calmo e allegro, mi insultai un poco per il tempo perduto a rodermi in camera.
Tanto tempo perduto e adesso questa sera proprio uguale a quella che avevo immaginato, solo col vino un po’ meno buono.
«Ehi, Bello, è quasi l’una». Era la voce di Aldo.
Uscii. Veniva su da via del Campo il suono dei dischi dei caffè e le luci rosse delle insegne. Poca gente, qualcuno seduto sui gradini che si godeva il fresco. Facessero presto, pensai.
Aveva appena spiovuto e l’odore dei panni umidi era fresco e piacevole, unito a quello del mare che saliva dai vicoli nel vento. L’acqua batteva pesante, goccia dietro goccia, dalle grondaie sulla pietra. Era stato un temporale di mezz’ora, con tuoni alti sui tetti e nuvole in corsa dal mare.
Una voce chiamò Maria dall’alto e io infilai la strada oltre l’arco.
Alzando la testa potevo vedere le nuvole grandi che andavano verso nord nella breve striscia di cielo tra i tetti e sotto i panni stesi, immobili nell’ombra. A una finestra ridevano donne.
Erano là che mi venivano incontro.
Mi voltai e scesi nuovamente in via del Campo. Nella piazzetta erano gruppi di donne che fumavano aspettando e la bottega del barbiere aperta sotto le luci rosse del caffè.
Mi prese un po’ di paura. Pensai che se avessi infilato un qualunque vicolo a destra in due salti mi sarei trovato in via Gramsci, al sicuro. Mi feci forza e la gamba cessò di tremare. Voltai a sinistra sotto l’Archivolto dei Fregoso, camminai venti metr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Tra spavaldo e fatalista. Profilo bio-bibliografico
  4. Bibliografia
  5. Sei stato felice, Giovanni
  6. A gomiti larghi sul bancone di Giovanni Mura