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Una storia, due Americhe

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Una storia, due Americhe

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Nato a New York negli anni Settanta, il rap è il genere più popolare dell'epoca contemporanea. La sua influenza oggi si avverte ovunque e ben oltre le classifiche dei singoli più venduti: nella cultura pop e negli stili di vita urban, nella moda, nel linguaggio, nella politica e nell'arte. Scavando nelle pieghe dei dischi più influenti e nelle biografie dei rapper più iconici - dai Public Enemy a Tupac, dagli Outkast a Kanye West, da Eminem a Kendrick Lamar - Rap racconta come una forma d'espressione nata per denunciare la marginalità a cui è condannata parte dell'America Nera sia diventata un fenomeno globale, uno dei segni distintivi del nostro presente.Cesare Alemanni ripercorre quarant'anni di musica e società, racconta gli Stati Uniti tra sogni e disillusioni, rifuggendo da semplificazioni e letture di comodo. Questo libro non offre solo un'accurata analisi musicale ma delinea anche una controstoria dell'America, dagli anni Settanta a oggi, in cui il rap è un filo rosso che tiene naturalmente insieme razzismo e rivolte, Malcolm X e Jay-Z, la trap e Black Lives Matter.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788833891149

1
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I RE DELLE MACERIE
BRONX, 1940-1977

There it is, ladies and gentlemen, the Bronx is burning.4
Frase attribuita a Howard Cosell
Abraham David Beame possedeva due spesse sopracciglia nere leggermente arcuate e una espressione da folletto ben abbinata alla sua statura di un metro e cinquantasette. Era nato a Londra, nel 1906, figlio di due ebrei polacchi. Il padre coltivava simpatie comuniste e ospitava spesso riunioni clandestine nella sua taverna di Varsavia. Un giorno ricevette una soffiata – la polizia era sulle sue tracce – e imbarcò la moglie incinta su un battello diretto oltremanica mentre lui faceva le valigie per New York, dove si sarebbe fatto raggiungere appena trovata una sistemazione. Fu così che Abraham nacque nella capitale inglese per poi approdare negli Stati Uniti che non aveva ancora un anno.
Ne aveva sessantasette quando, da candidato democratico, nel novembre del 1973 vinse le elezioni municipali e diventò il 104° sindaco di New York, il primo ebreo praticante. Quella di Beame pare la classica traiettoria da Sogno Americano: l’umile immigrato un giorno arriva a governare la città che l’ha raccolto in fasce a Ellis Island. I quattro anni da sindaco di Abraham ebbero però ben poco del sogno. Al contrario vengono ancora ricordati come uno dei peggiori incubi della storia recente della Grande Mela.
Nel corso del suo mandato, Beame dovette infatti fronteggiare una grave crisi economica, tanto acuta che nel 1975 la città si ritrovò sull’orlo della bancarotta. Il nuovo sindaco aveva ereditato il dissesto da anni di cattiva amministrazione e, tra le tante misure, provò ad arginarlo concedendo agevolazioni fiscali ad alcuni gruppi immobiliari – inclusa la Trump Organization di Fred Trump e del figlio Donald – e adottando una massiccia politica di licenziamenti nel settore pubblico, davvero poco tempestiva in una città che era già una polveriera sociale.
L’America uscita dagli anni Sessanta era un paese molto diverso da quello che aveva festeggiato l’alba del decennio. L’andamento fallimentare della guerra in Vietnam, le tensioni razziali legate alla lotta per i diritti civili, una serie incredibile di omicidi politici di altissimo profilo (il presidente Kennedy nel 1963, Martin Luther King e Bobby Kennedy nel giro di due mesi del 1968) avevano messo definitivamente fine al plastico idillio dei «favolosi anni Cinquanta» e all’afflato idealista dei Sessanta; in nessun luogo come a New York si respiravano tanto acremente i miasmi di quel clima avvelenato.
Complice una serie di politiche sconsiderate, la metropoli che Beame si ritrovò a governare era una delle più violente del paese. Ai visitatori che nel 1975 atterravano all’aeroporto JFK veniva consegnato un opuscolo con uno spettrale teschio in copertina e la scritta WELCOME TO FEAR CITY: A Survival Guide for Visitors to the City of New YorkBENVENUTI NELLA CITTÀ DELLA PAURA: Guida alla sopravvivenza per visitatori della città di New York»). Tra le altre cose si sconsigliava di prendere la metropolitana dopo le sei di sera, di camminare da soli dopo le otto e di avventurarsi in uno dei cinque borough («distretti») della città, il cui nome era ormai diventato – non solo negli Stati Uniti – sinonimo di criminalità: il Bronx.
Non era sempre stata una necropoli, il Bronx, anzi. Ancora alla metà degli anni Quaranta era un quartiere abitato da una ricca mescola di ceto medio urbano. Seconde e terze generazioni di immigrati polacchi, italiani, irlandesi, tedeschi, francesi; una diffusa presenza ebraica, testimoniata da numerose sinagoghe, oltre a vivaci comunità afro- e ispanoamericane, concentrate soprattutto a ovest. In generale i livelli di occupazione, istruzione e reddito erano in linea con le medie nazionali. Il West Bronx era – è vero – più povero del resto dell’area, ma si trattava pur sempre di uno dei distretti a maggioranza «non bianca» più integrati e prosperi d’America. Questo finché, nel 1946, il cinquantottenne Robert Moses non fu nominato commissario della Pianificazione di New York dall’allora sindaco William O’Dwyer.
Laureato in Scienze Politiche a Yale e specializzato a Oxford, Moses era un convinto sostenitore dell’ingegneria sociale a tavolino e aderiva con fervore alle idee di architetti modernisti come Le Corbusier e Mies van der Rohe. Era inoltre dotato di un istinto politico di prima qualità, grazie a cui seppe farsi gli «amici giusti». Con il loro aiuto, nel corso di oltre cinquant’anni di incarichi pubblici, poté esercitare una delle più profonde influenze di tutto il Novecento sulla pianificazione urbanistica di New York, forse la più profonda. L’azione di Moses si reggeva soprattutto su due convinzioni. La prima era che l’efficienza di una città passasse dall’aumento della densità abitativa, dalla costruzione in verticale di isolati autosufficienti, ciascuno dotato dei servizi essenziali al suo interno, come nell’utopica Ville Radieuse di Le Corbusier. La seconda era che il futuro della viabilità urbana poggiasse sul connubio uomo-automobile e non sull’ampliamento della rete di trasporto pubblico.
Muovendo lungo questi due assi, Moses mise in cantiere un vastissimo ridisegno della pianta di New York, culminato in quello che resta il suo progetto più ambizioso. Una «grande opera» all’altezza del cognome biblico del suo ideatore: la Cross Bronx Expressway (CBE). Costruita tra il 1948 e il 1972, la Expressway è una lunga tangenziale che taglia in due il Bronx e connette il Queens al New Jersey attraverso Upper Manhattan. Tutt’oggi è una delle infrastrutture urbane più complesse mai realizzate nella storia degli Stati Uniti: per terminarla si dovettero infatti modificare i percorsi di alcune linee della metropolitana, scavalcare numerose sopraelevate e smantellare lunghi tratti stradali. Soprattutto si dovettero dislocare oltre sessantamila abitanti del Bronx che vivevano lungo il suo percorso.
Uno degli effetti collaterali della CBE fu il crollo del valore di molti terreni nei suoi paraggi dovuto al disagio causato dai suoi interminabili lavori. La combinazione di questi fattori spinse quanti se lo potevano permettere – in maggioranza esponenti della classe media bianca – ad abbandonare il Bronx in direzione di nuovi sprawl suburbani, tutti villette a schiera, steccati immacolati e giardinetti: il genere di sobborghi magistralmente raccontato da un maestro della letteratura americana contemporanea come John Cheever.
Chi non poteva andarsene – perlopiù afroamericani e ispanici ma anche una nutrita percentuale della working class di origine polacca, italiana e irlandese – fu costretto a spostarsi in altre aree, più periferiche. O, in alternativa, a trovare alloggio nei nuovi project di edilizia sociale – «torri con parco» li chiamava Moses – che il comune stava costruendo per ospitare gli esodati.
In breve tempo la composizione sociale del Bronx cambiò in maniera drastica. Da un quartiere eterogeneo, in cui convivevano diverse culture e fasce di reddito, si trasformò in un quartiere omogeneamente popolato da cittadini rimasti fuori dalla porta del «progresso» di Moses. Migliaia di famiglie afroamericane vennero transumate in contesti che non conoscevano affatto, in cui non avevano legami o abitudini, luoghi di ritrovo, opportunità lavorative. In cui, a complicare ancor più le cose, si trovarono a pestarsi i piedi con le sacche di bianchi poveri che preesistevano in quelle aree e che le accolsero con poca benevolenza.
Organizzati spesso in bande paracriminali fin dall’Ottocento, a partire dalla metà degli anni Cinquanta giovani italoamericani e irlandesi del Bronx si diedero a diffuse pratiche di bullismo nei confronti dei nuovi arrivati. Questi, a loro volta, non ebbero altra scelta che costituirsi in gang per rispondere colpo su colpo. Si erano così gettate le basi per la capillare diffusione di una violenta cultura di strada, il cui folklore fu poi tardivamente (e problematicamente) mitizzato da film come Distretto 13. Le brigate della morte (1976) di John Carpenter e I guerrieri della notte (1979) di Walter Hill.
La situazione più critica di tutte si viveva nell’area del South Bronx. Strappato dal corpo principale del Bronx dalla Expressway, piagato da una disoccupazione giovanile che superava il 60%, nel giro di due decadi il South Bronx si trasformò in un Far West. Su internet si trova una ricca documentazione visiva delle terribili condizioni in cui il quartiere, un tempo noto come Jewish Town, versava a inizio anni Settanta. Sono testimonianze che lasciano stupefatti: immagini da teatro di guerra, visioni di una terra desolata nel cuore della città simbolo dell’opulenza occidentale. Un deserto di macerie in cui errano, e regnano, bande di portoricani, afroamericani e bianchi indigenti i cui membri si riconoscono dal colore dei vestiti e portano nomi come I Teschi Selvaggi, Le Anime di Satana, Inferno Puro, I Duchi d’Irlanda, I Fratelli del Ghetto, I Fantasmi Urlanti, I Gestapo, Gli Assi di Picche. In un confuso crogiolo iconografico, parzialmente inconsapevole, si rifanno a illustri carnefici e nefaste ideologie del passato: c’è chi indossa giubbotti con il ritratto di Gengis Khan o di qualche conquistador disegnato sulla schiena e chi rispolvera toppe con croci di ferro e svastiche naziste. Segni particolarmente incongrui rispetto al colore della pelle di chi li indossa. Ogni gang ha poi i suoi riti d’iniziazione: quello dei Savage Skulls, per esempio, consiste in una roulette russa con un solo colpo nel tamburo da sei di un revolver calibro 22.
Una volta parte di una gang, i nuovi membri, perlopiù minorenni e talvolta neppure adolescenti, si ritrovavano a partecipare a una forma di autogoverno minorile da Signore delle mosche. Ispirati dai racconti dei fratelli maggiori reduci del Vietnam, i giovanissimi gangster utilizzavano un lessico e delle gerarchie paramilitari (divisioni, plotoni ecc.) finalizzate alla difesa del proprio territorio dall’invasione di bande rivali, in uno stato di guerra permanente (ghetto warfare) dalle conseguenze spesso fatali.
Al fianco delle gang, a volte tra le loro stesse fila, una figura ormai familiare nel South Bronx di quel periodo era il piromane. Interi edifici, a volte interi isolati, erano infatti ormai disabitati o occupati abusivamente. L’unico modo di recuperare l’investimento per molti proprietari era dunque di appiccarvi un incendio per passare poi all’incasso dell’assicurazione. Con poche decine di dollari si poteva convincere qualche disperato a fare il lavoro sporco e non passava ora senza che il cielo del Bronx venisse illuminato dalle fiamme che si alzavano dai palazzi, nella totale impotenza dei pompieri. I cui ranghi, già insufficienti, erano stati ancora più spolpati dai tagli al personale di Beame.
Le gang non erano sempre state una forza soltanto distruttiva. Fino al termine degli anni Sessanta, molte di esse erano guidate da membri o ex membri di collettivi politici come le Pantere Nere o da giovani impregnati di socialismo sudamericano, delle dottrine pacifiste di Martin Luther King o di quelle, molto meno ecumeniche, di Malcolm X. A seconda dei casi questi leader intendevano le gang come cellule di attivismo politico o come società di mutuo soccorso in un contesto in cui sia l’ordine sociale sia alcune infrastrutture basilari, in primo luogo l’istruzione e la sanità, stavano venendo meno.
Ai loro esordi, le gang raccoglievano e orientavano le energie dei giovani dei quartieri più disastrati di New York e cercavano di canalizzarle verso funzioni socialmente positive, davano un senso alle esistenze di migliaia di adolescenti senza occupazione e senza speranza di trovarne. Tuttavia i sistematici omicidi politici che decimarono la leadership afroamericana (Martin Luther King, Malcom X, Medgar Wiley Evers, Fred Hampton), il crescente e, in molti casi, premeditato abbandono a se stesse delle situazioni più critiche da parte delle istituzioni, l’arrivo di ingenti quantitativi di eroina dal Triangolo d’Oro spogliarono di qualunque afflato rivoluzionario, di qualunque ethos socialmente costruttivo, la nuova generazione di gangster newyorkesi che si affacciava sugli anni Settanta.
A quel punto, l’unica cosa che contava per le nuove gang, emerse come una mutazione patogena dalle ceneri delle precedenti, era distruggere, distruggersi, fare soldi. Il modello da imitare non erano più le Pantere Nere ma gli Hells Angels. Le parole d’ordine non erano più «I have a dream» ma una sorta di «Live fast, die young» spogliato di qualunque romanticismo. Una filosofia che attirava sempre più giovanissimi desiderosi di fare ancora più terra bruciata del nulla che gli era stato lasciato in dote. Al loro picco, tra il 1973 e il 1977, nel Bronx si contavano oltre cento bande, per un totale di undicimila membri, al settanta per cento portoricani. Nello stesso arco temporale si calcola che nel solo South Bronx vennero applicati trentamila incendi, una media di venti al giorno.
La situazione era giunta a un tale punto di non ritorno che ormai quel suffisso – South – aveva smesso di suonare come una semplice precisazione di ordine cartografico ed evocava un immaginario da «favela», da «Sud del mondo». E, di fatto, le cordigliere di edifici sventrati dai roghi, le discariche a cielo aperto, le processioni di tossici inebetiti dall’eroina, le ore scandite dai colpi di pistola, rendevano il South Bronx degli anni Settanta più simile a una shanti town di Nairobi che a un quartiere distante appena pochi chilometri dal World Trade Center, dove si erano appena inaugurate le Torri gemelle, all’epoca gli edifici più alti del pianeta, il simbolo del capitalismo finanziario globale a trazione americana.
Il 12 ottobre 1977 allo Yankee Stadium del Bronx si giocava la gara 2 delle World Series della Mlb, le finali del campionato di baseball. Si affrontavano le rappresentative delle due metropoli americane per antonomasia: i Los Angeles Dodgers e i New York Yankees. Questi ultimi venivano dal più lungo digiuno di titoli della loro storia: ben quindici anni senza vittorie. Erano una squadra piena di talento – a cominciare dal neo-acquisto Reggie Jackson, uno dei giocatori più forti della sua epoca – ma anche un insieme di caratteri difficili da gestire, e la loro stagione era stata tutta una serie di alti e bassi. In qualche modo però erano rabbiosamente arrivati fino a giocarsi il titolo. Per gran parte di New York, quelle finali erano più di un semplice evento sportivo: rappresentavano una sorta di acuto dopo anni di bassi.
Nella memoria dei newyorkesi era infatti ancora fresco il ricordo del rischio di bancarotta, delle umilianti questue al governo federale, dello stigma che da ogni angolo dell’Unione era calato sulla Grande Mela. Ancora più fresche, freschissime, erano le cicatrici lasciate, solo pochi mesi prima, dalla notte del 13 luglio, quando una catena di cortocircuiti aveva immerso nel buio quasi l’intera città dalle nove di sera fino all’alba. Approfittando della paralisi, gli abitanti dei quartieri più poveri – dal South Bronx a Crown Heights, da Harlem a Bedford-Stuyvesant – si erano riversati per le strade al grido di «retribution, redistribution». In poche ore si erano registrate migliaia di scorrerie, furti,5 incendi dolosi, scontri armati tra saccheggiatori, negozianti e forze dell’ordine culminati in oltre tremila arresti e altrettanti feriti: un livido promemoria di quanto spaccata ed esausta fosse ormai la metropoli che languiva sull’Hudson.
Almeno per quella notte del 12 ottobre, almeno per il tempo di quella partita, i newyorkesi – allo stadio, nei bar, di fronte alla tv – speravano di potersi lasciare tutto alle spalle. Tuttavia, quando intorno alla fine del primo inning una ripresa aerea mostrò due puntini illuminati nella notte del Bronx, gli spettatori capirono che non sarebbe andata così. La realtà comatosa di New York non si lasciava nascondere sotto il tappeto di una festa sportiva. Lo zoom tolse ogni dubbio: un palazzo di almeno venti piani andava a fuoco nel South Bronx, a poca distanza da dove gli Yankees stavano peraltro perdendo la gara. Il commentatore di quella partita era Howard Cosell. Nato a Winston-Salem in North Carolina ma cresciuto a Brooklyn, Cosell era un newyorkese doc. Era l’uomo che col suo stile ritmato e sardonico aveva cambiato il modo di raccontare lo sport in televisione: un personaggio tanto iconico e familiare da comparire, nella parte di se stesso, nel Dittatore dello stato libero di Bananas di Woody Allen.
Di fronte alle riprese del rogo, Cosell non perse nemmeno un po’ della sua impassibilità...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Introduzione
  4. 1 / I re delle macerie. Bronx, 1940-1977
  5. 2 / Hip-hop Boulevard. Bronx, 1967-1977
  6. 3 / Qualcosa dal nulla. Bronx, 1972-1979
  7. 4 / Uptown e Downtown. New York, 1979-1983
  8. 5 / Crack e repressione. Stati Uniti, 1971-2018
  9. 6 / La nuova scuola. New York, 1982-1986
  10. 7 / MTV, moda e Def Jam. New York, 1983-1988
  11. 8 / Nemico pubblico. New York, 1987-1990
  12. 9 / Di flow e di dissing. New York, 1987-1989
  13. 10 / Guerra. Los Angeles, 1980-1994
  14. 11 / ...E pace. Stati Uniti, 1987-1992
  15. 12 / The Realness. New York, 1993-1995
  16. 13 / 2Pac & B.I.G. Stati Uniti, 1991-1997
  17. 14 / Players, haters e backpackers. Stati Uniti, 1997-2010
  18. 15 / La rabbia bianca di Eminem. Detroit, 1995-2005
  19. 16 / Sporco Sud. Dixieland, 1989-2010
  20. 17 / Yeezy. Pianeta Terra, 2001-2010
  21. 18 / Post rap. Stati Uniti, 2008-2019
  22. Ringraziamenti
  23. Bibliografia