Future Sex
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Nel corso della vita abbiamo letto tante favole, ma nessuna finiva con «e vissero da soli, felici e contenti». Eppure per un gran numero di persone la vita va proprio così. Dopo la fine di una storia importante, Emily Witt si è ritrovata a gestire una libertà emotiva e sessuale che l'ha disorientata: di fronte all'infinita varietà di esperienza sessuali di colpo a portata di mano grazie a nuovi e insospettabili canali, si è ritrovata priva di un nuovo sistema di regole – sia lessicali che comportamentali – che facessero da guida: era ancora consentito innamorarsi di un partner di letto? E sognare una famiglia? La sicurezza quotidiana era compatibile con la libertà sessuale? Insomma, a vent'anni da Sex & the City e a cinque dal lancio di Tinder, «le nostre relazioni erano cambiate, ma il nostro modo di definirle no». A caccia di un nuovo vocabolario del corpo e degli affetti, la Witt intraprende allora un viaggio che spazia dalle prime agenzie di incontri virtuali al porno femminista, dagli orgasmi durante le sedute di yoga alle politiche sulla fertilità che restano pericolosamente retrograde, e lo fa con uno slancio empatico, con una scrittura intima e radicale degna delle più grandi interpreti della controcultura degli anni Sessanta.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788875218478

1
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ASPETTATIVE

Ero single, eterosessuale e femmina. Nel 2011 avevo trent’anni e credevo ancora che le mie esperienze con il sesso sarebbero giunte a un epilogo, come un trenino delle giostre in battuta d’arresto. Sarei scesa, mi sarei ritrovata al cospetto di un altro essere umano e saremmo rimasti per sempre nella stazione d’arrivo della nostra vita: il futuro.
Non avevo scelto di essere single, ma l’amore è raro e spesso non è ricambiato. Senza l’amore, non vedevo il motivo di instaurare un legame definitivo con un posto piuttosto che con un altro. Era l’amore a definire il modo in cui le persone si disponevano nello spazio. Poiché aveva la capacità di ancorare le persone ai loro legami a lungo termine, quelli attorno a me lo concepivano come un evento escatologico, quasi messianico nella sua totalità. I miei amici credevano con zelo quasi religioso che un giorno sarebbe arrivato anche per me, come se l’amore fosse qualcosa che l’universo ci deve per forza, al quale nessun essere umano può sottrarsi.
Avevo avuto delle storie sentimentali in passato, ma appunto perché sapevo cos’era l’amore, sapevo anche quanto fosse vano cercare di suscitarlo o di fare in modo che durasse. Eppure continuavo ad alimentare l’idea del mio futuro, facendolo coincidere con l’automatico compimento della mia sessualità: come se fosse un destino più che una scelta. Quella visione rimaneva sospesa e luccicante nella mia testa, impervia alle tempeste delle mie esperienze reali, un punto di arrivo cristallino. Ma sapevo che l’amore non arrivava per forza per tutti, e man mano che invecchiavo iniziai a preoccuparmi che per me non sarebbe arrivato.
Ero capace di stare un anno o due insieme a un ragazzo, e vivere un anno o due senza. Tra un uomo e l’altro, a volte andavo a letto con i miei amici. Nel giro di pochi anni, anche molti dei miei amici e delle mie amiche erano andati a letto tra di loro. L’attrazione nasceva e moriva in maniera flessibile; a volte poteva dare luogo a scene di dolore o di temporanea infermità mentale, ma nella maggior parte dei casi tutto funzionava in maniera pacifica. Eravamo anime fluttuanti in un limbo, che si ammucchiavano l’una sull’altra come foglie morte, in attesa delle trombe e delle campane nuziali della fine dei tempi.
Il linguaggio che usavamo per descrivere quei rapporti non era sufficiente per formulare una definizione. La loro caratteristica saliente era che li intrattenevi pur restando single, senza sapere bene quale fosse il modo migliore per definire quel certo grado di legame. «Farsi una scopata» implicava che i nostri incontri fossero privi di convenevoli o di gentilezza. «Amanti» era un’espressione antiquata, e spesso eravamo solo amiche delle persone con cui facevamo sesso, per non dire che eravamo «solo amici e basta». Di solito, per spiegare quello che stavamo facendo, usavamo l’espressione «uscire con qualcuno», che poteva definire le sveltine di una notte come anche le relazioni che andavano avanti per anni. Le persone che uscivano con qualcuno erano single, a meno che non stessero frequentando qualcuno. Anche la parola «single» aveva perso la sua specificità: poteva significare nubile o celibe come sulla carta d’identità, ma le persone non sposate spesso non erano single: erano «in una relazione», una definizione provvisoria per indicare un impegno verso qualcuno per cui non esistevano aggettivi di una sola parola. «Ragazzo», «ragazza» o «compagno» e «compagna» implicavano un rapporto serio e una volontà specifica, e quindi andavano bene solo in alcuni casi. Una volta una persona mi ha parlato di un «non-ex» con cui aveva portato avanti una «non relazione» per un anno.
I nostri rapporti erano cambiati, ma le parole che usavamo per descriverli no.
Continuavamo a parlare come avevamo sempre fatto, come se nulla fosse cambiato, ma i vocaboli che usavamo ci facevano sentire fuori sincrono. Molti volevano avere un rapporto a cui si poteva dare un nome, come se questa combinazione potesse offrire qualcosa di più, invece di limitarsi a garantire qualcosa di familiare. Alcuni di noi hanno provato a inventare dei neologismi. La maggior parte di noi li ha evitati. Eravamo finiti lì per caso, non di nostra volontà. Qualsiasi cosa stessimo facendo, nessuno la definiva una «scelta di vita». Nessuno parlava dell’essere single a New York e del sesso occasionale con i suoi conoscenti in termini di «identità sessuale». Per me era solo una condizione provvisoria, che avrebbe cessato di esistere con il sopraggiungere dell’amore.
L’anno in cui compii trent’anni, una storia finì. Ero molto triste ma la mia tristezza ammorbava tutti, me compresa. Avendo già patito quello scoramento in altre circostanze, pensavo che ne sarei uscita fuori piuttosto in fretta. Uscivo con delle persone conosciute su internet ma faticavo a provare desiderio sessuale per degli sconosciuti. Invece mi imbattevo negli amici: quando andavo alle feste o ero in metropolitana, incontravo dei ragazzi su cui avevo fatto un pensierino in passato. Durante quell’autunno e quell’inverno feci sesso con tre persone, e ne baciai una o due. Pensavo fosse un numero ragionevole e sobrio. Si trattava sempre di persone che conoscevo da diverso tempo.
Con le persone, mi sentivo più felice quando non c’erano mediazioni tra di noi, ma a volte un non-fidanzato poteva avere un riverbero oscuro che si manifestava nel mio telefono. Era un senso di mancanza che non poteva essere colmato, privo di un destinatario specifico. Fissavo le ellissi che si rompevano e si riformavano sui vari salvaschermi. Analizzavo le foto sui social media come se fossi un medico legale. Esprimevo la mia leggerezza con punti esclamativi, risate esplicite ed emoticon. Posticipavo le mie risposte in maniera calcolata. Mi impegnavo a fingere di essere troppo indaffarata per fare caso a un messaggio, simulavo di non averlo visto se non proprio all’ultimo momento. Detestavo l’idea che il telefono mi avesse trasformata nell’ostaggio di certi stereotipi. I miei obiettivi erano la serenità e il buonumore. Andavo a tutte le feste di Natale.
Quella soddisfazione di facciata sopravvisse all’autunno e al Capodanno. A marzo, gli alberi erano ancora scheletrici ma in fase di disgelo quando un uomo mi telefonò per consigliarmi di fare un test per le malattie a trasmissione sessuale. Eravamo andati a letto circa un mese prima, qualche giorno prima di San Valentino. Ero in un bar vicino casa sua. Lo avevo chiamato e lui mi aveva raggiunta. Ci eravamo incamminati per le strade deserte verso il suo appartamento. Non ero rimasta a dormire da lui e non gli parlavo da allora.
Si era accorto di qualcosa di strano e aveva fatto un esame. I risultati del laboratorio non erano ancora arrivati ma il dottore sospettava fosse clamidia. All’epoca in cui eravamo andati a letto insieme lui stava frequentando un’altra donna che viveva sulla West Coast. Era andato a trovarla per il giorno di San Valentino, e ora lei era infuriata. Lo aveva accusato di averla tradita e lui si sentiva uno stronzo: la malattia lo aveva punito per la sua trasgressione morale. Era uno dei motivi per cui aveva letto Sul rispetto di sé di Joan Didion. Io mi ero messa a ridere quando me lo aveva detto – era il suo saggio peggiore – ma lui era serio. Gli ho risposto nell’unica maniera che ritenevo possibile, cioè dicendogli che non era una persona cattiva, che noi due non eravamo persone cattive. Era stata una notte spensierata ed era finita lì. Non meritava che le dedicassimo tutte quelle attenzioni. Una volta riagganciato, ero rimasta sdraiata sul divano a fissare le pareti bianche del mio appartamento. Presto avrei dovuto traslocare.
Pensavo che la faccenda si sarebbe chiusa con quella telefonata, prima di ricevere una lettera piena di recriminazioni da parte di un’amica dell’altra donna. «Mi sorprendi», diceva la lettera. «Sapevi che stava per andare a trovare un’altra donna e questo non ti ha impedito di comportarti così». Era vero. Me ne ero fregata. Quando lui mi aveva detto che «si vedeva con una», mi ero sentita rassicurata sulla natura temporanea del nostro incontro, non l’avevo considerato un modo per mettere alla prova la mia moralità. «Ti suggerisco di riflettere su ciò che hai fatto a mente fredda, da adulta», scriveva la mia corrispondente. Mi consigliava di «piantarla con quelle pantomime in cui ero sempre su di giri» e di «ponderare le conseguenze umane e reali delle azioni che si compiono nella vita».
Il giorno dopo, seduta nella sala d’attesa di un ambulatorio affollato di Brooklyn, vidi un medico spiegare come si mette un preservativo a un pubblico mezzo addormentato e in ostaggio. Aspettavamo che chiamassero il nostro numero. A mente fredda, da adulta, presi in considerazione ciò che avevo fatto. Il bisogno di contatto umano di una persona single non va sottovalutato. In quel momento ero circondata da altri newyorchesi imperfetti che forse non si erano comportati in maniera prudente e avevano violato le regole. Se non altro, a fine mattinata, avrebbero saputo come usare un preservativo.
Quando erano partiti degli sberleffi o dei segnali di concitazione da parte della folla, il medico non aveva perso la sua compostezza. Aveva detto «no» con rispetto quando una ragazza aveva chiesto se il preservativo femminile si poteva usare «dietro». Dopo il suo intervento, mentre continuavamo ad aspettare, sugli schermi montati sul muro apparvero delle pubblicità progresso sulla salute; venivano mandate a rotazione. Risalivano agli anni Novanta, e sceneggiavano la vita disordinata delle persone come me, solo che quella vita era peggiorata di gran lunga dai jeans informi che si portavano allora. Quelle persone inadeguate aggrottavano le sopracciglia mentre ascoltavano le diagnosi dai medici, confessavano relazioni furtive e spiattellavano tutto al telefono, di solito un cordless gigante. Gli uomini rimorchiavano nei bar allestiti per finta accanto a una o due comparse e si mettevano a chiacchierare davanti a dei cocktail; la musica di sottofondo era quella tipica delle feste. Quei video somigliavano ai porno in cui non si arriva mai al sesso. Nelle scene successive i protagonisti riflettevano sugli eventi della notte con uno stile da reality televisivo, imitando le interviste nel confessionale. Dalle nostre sedie nell’ambulatorio, tutte rivolte verso la stessa direzione, mentre eravamo in attesa di prelievi del sangue e tamponi vaginali, fummo testimoni delle conseguenze narrative del loro comportamento. (Uno degli uomini nel locale gay aveva una fidanzata e pure la gonorrea. Nel filmato spiegava alla sua ragazza che faceva sesso anche con gli uomini e che aveva contratto una malattia.) Quei video non volevano dire che le relazioni monogame e durature sono una condizione necessaria della vita adulta, ma incoraggiavano a essere sinceri. Non recriminavano. L’amministrazione di New York aveva una visione tecnocratica della sessualità.
Il governo federale, invece, aveva delle aspettative diverse. In seguito alla telefonata del mio amico, avevo cercato la parola clamidia su Google, finendo sul sito dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie. Secondo il governo, il metodo migliore per evitare la clamidia era astenersi dal «sesso vaginale, anale e orale oppure avere un rapporto monogamo e stabile con un partner che ha già fatto l’esame e non è infetto». Era un suggerimento ai confini della realtà, e quasi privo di soluzioni intermedie, anche se da qualche parte c’era un accenno più concreto all’uso dei preservativi. Di solito li usavo, ma quella volta non lo avevo fatto, e quindi mi toccava prendere gli antibiotici. Quando arrivarono i risultati del laboratorio, qualche giorno dopo la mia visita all’ambulatorio di Brooklyn, venne fuori che non avevo la clamidia. Nessuna delle persone coinvolte ce l’aveva.
Come il governo federale, anche io volevo solo «un rapporto monogamo e stabile con un partner che ha già fatto il test e non è infetto». Lo volevo da tanto tempo, e non era arrivato. Chi poteva dire se un giorno sarebbe successo?
In quel momento ero una persona che cercava di stare al mondo, una persona che aveva relazioni sessuali impossibili da descrivere con il lessico a disposizione e che venivano meno ai suoi ideali morali. Iniziai a pensare che il mio futuro sarebbe stato quello, e mi venne l’ansia.
Un lunedì di aprile del 2012 ero in fila al JFK per prendere un volo diretto a San Francisco. Davanti a me c’era un uomo d’affari brizzolato della West Coast. Aveva la pelle esfoliata e brunita di chi gode di ottima salute, gli occhiali fatti di polimeri di ultima generazione e indossava jeans scuri. Aveva quelle scarpe riciclate di etilene vinil acetato che a quanto pare non puzzano mai. Il suo giubbotto di pile era di buona qualità e aveva un bello spessore, con uno strato esterno flessibile che gli impediva di spelacchiarsi. Era il tipo di uomo che si sarebbe definito un minimalista, che avrebbe ammesso di comprare qualsiasi oggetto in base allo straordinario talento artigianale di chi lo aveva fatto o al suo bellissimo design. Ma la borsa per il computer di quell’uomo brizzolato era dozzinale, piena di fibbie e reticelle, con la scritta GOOGLE sopra. La persona in fila davanti a lui indossava una maglietta con un doodle di Google dedicato a Bert ed Ernie di Sesame Street; al posto delle o c’erano le facce dei personaggi animati. Davanti a lui c’era uno zainetto della Google.
Quel simbolo non sparì mai, non prima che lasciassi San Francisco. Era ricamato sui taschini delle camicie, personalizzato con i vari simboli delle città americane, intarsiato sulle borracce d’acciaio a prova di macchia, sui cardigan di pile, sui cappellini da baseball, ma non lo si trovava sulle navette private che conducevano i dipendenti al campus di Mountain View, dove mangiavano bacche di goji nella sala caffè e camminavano come preti avvolti nelle mantelle della Google, con il soggolo e la mitra dell’azienda, mentre cercavano di orientarsi su Google Maps, facevano delle ricerche sugli sconosciuti tramite il motore di ricerca o chiacchieravano su GChat con gli amici, proprio come facevo io dozzine di volte al giorno, il che faceva apparire la ricorrenza del logo come una presa in giro monopolista.
Quella volta, trascorsi il mio primo giorno in città seduta in un caffè bagnato dal sole a Mission. Dopo aver ordinato un cappuccino, mi misi a sfogliare una copia cartacea del San Francisco Chronicle che giaceva sul bancone in maniera anacronistica. In prima pagina c’era la notizia di un massacro con armi da fuoco in un college cristiano privato nella East Bay, mentre più in basso si parlava di un giro di vite federale sulla marijuana per scopi terapeutici. Di soppiatto, sentii qualcuno fare cenno a un pranzo al Googleplex. Presi degli appunti: «Pilaf di quinoa e mirtilli rossi». E poi sentii le parola coregasm. L’argomento di conversazione successivo fu proprio quello, le donne che avevano degli orgasmi spontanei mentre facevano yoga. Stando al barista, era meraviglioso che la questione fosse diventata di dominio pubblico, dato che molte donne provavano il coregasm ma avevano paura di parlarne. Per fortuna quei tempi bui erano finiti.
Una volta gli abitanti di San Francisco erano noti per il loro rifiuto di usare il deodorante o di depilarsi più del necessario. Spesso, camminando lungo la strada, superati i muratori gay e i negozi di vibratori, mi veniva in mente che quello era il posto in cui Harvey Milk era stato eletto (e assassinato), dove i bagni turchi frequentati dagli omosessuali avevano prosperato (e poi avevano chiuso). Ma la maggior parte delle volte mi accorgevo semplicemente che le persone di San Francisco erano cosparse di unguenti e balsami botanici, levigate dai sali e odoravano di sostanze aromaterapeutiche vendute nei negozi affacciati su Valencia Street. L’aria odorava di cera d’api, lavanda e verbena, quando non puzzava di liquami, e i marciapiedi di Mission scintillavano sotto il sole. Il cibo era squisito. C’era un posto nella Hayes Valley in cui potevi prenotare un gelato all’azoto liquido. Una volta il mio gelato venne magicamente spinto alla vita con un fiotto di vapore e un sibilo pneumatico. Un piccolo miracolo, mentre il mondo attorno a me avanzava a pieno ritmo: mamme con i thermos da viaggio della Google che attendevano in fila con pazienza, parlando di consulenti all’allattamento. In rete, le persone non avevano più paura di confessare i propri coregasm e avevano deviato l’attenzione sulle battaglie contro lo zucchero e la farina. «Cibi crudi, miele biologico, ghee di produzione locale, pane di miglio e di chia per tenere a bada la mia voglia di glutine», aveva annunciato sui social una mia vecchia conoscenza che risaliva ai tempi del college. «Benedetti i cereali antichi».
La sera ero sola, e scendevo per strada a sentire i sermoni in spagnolo che trapelavano dalle chiese affacciate sul marciapiede e il ronzio elettronico dei trenini della BART. La città era un mondo incantato fatto di schermi luccicanti e feticismo analogico, di sexy shop e frutta con il nocciolo. Sugli autobus e agli angoli sentivo i discorsi sconnessi dei paranoici che pensavano ci fosse un legame tra i vecchi complotti e la tecnologia moderna. Dopo un po’ iniziai a vedere anch’io complotti. Passeggiavo lungo i marciapiedi di Mission e notavo la somiglianza del loro scintillio con il mio blush iridescente. «Questo marciapiede somiglia a Super Orgasm», pensavo: Super Orgasm era il nome del blush che mettevo sulle guance. I miei cosmetici erano utili per capire lo stato delle politiche sessuali: PER LUI E PER LEI, diceva l’adesivo sul retro del mio fondotinta privo di parabeni, come se stessimo conducendo tutti esistenze spontanee e avventurose invece di vivere nel castigo e nel conformismo. Andavo a correre al Golden Gate Park, dove enormi uccelli predatori fissavano con l’acquolina i bassotti dal pelo lucido. Moltitudini di ciclisti mi passavano accanto, avvolti nelle tutine di jersey della Google.
Nella tradizione americana, l’idea di amore libero era stata sperimentata nelle comuni e caratterizzata da profeti con gli occhi febbrili e da eretici che poi erano finiti in prigione. Un tempo, amore libero significava il diritto di avere rapporti sessuali senza procreare, di farlo prima del matrimonio o di evitare il matrimonio del tutto. Significava la libertà per donne e gay di esprimere la propria sessualità come preferivano, e la libertà di amare a prescindere da razza, sesso e religione. Nel ventesimo secolo, gli idealisti post-freudiani credevano che l’amore libero avrebbe determinato nuove politiche e persino la fine della guerra, e quando sentivo l’espressione «amore libero» non potevo fare a meno di pensare al 1967, a tutti quei ragazzi che avevano ascoltato acid rock nel parco in cui andavo a correre.
Nella fantascienza, l’amore libero aveva rappresentato il futuro. Il nuovo millennio aveva promesso l’arrivo dell’uomo nello spazio, contraccettivi a prova di sicurezza, cyborg, prostitute, e una sessualità senza limiti. Ma il futuro era arrivato assieme a tante nuove libertà, e l’amore libero in quanto ideale era passato di moda. Eravamo liberi di avere dei coregasm, ma gli hippie erano stati degli ingenui e la fantascienza non era reale. L’esercizio della sessualità al di fuori del matrimonio aveva creato nuovi motivi per ripristinare la propria fiducia nelle forme di controllo tradizionale, motivi come l’HIV, i limiti biologici della fertilità, la fragilità dei sentimenti. Anche se mi stavo abituando alla mia libertà, nei miei progetti c’era ancora un destino da monogama. Pensare che quel destino fosse esatto, dopo gli esperimenti falliti delle gen...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. 1 / Aspettative
  4. 2 / Incontri su internet
  5. 3 / Meditazione orgasmica
  6. 4 / Il porno su internet
  7. 5 / Intimità di massa
  8. 6 / Poliamore
  9. 7 / Burning Man
  10. 8 / Contraccettivi e riproduzione
  11. 9 / Future Sex