Zeman. Un marziano a Roma
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Zdenek Zeman è uno degli allenatori di calcio più geniali e discussi degli ultimi vent'anni, celebre per il suo gioco offensivo e spettacolare, per la sua capacità di scopritore di talenti, per la statura etica che lo ha portato, a fine anni Novanta, a essere ostracizzato dalla serie A per aver denunciato il doping tra i campioni delle grosse società. Dopo una lunga assenza, Zeman è ora riapparso sui campi italiani, più agguerrito che mai: dopo due esaltanti stagioni nei campionati minori, nel giugno 2012 la Roma, l'ultima grande squadra che aveva allenato, è tornata a scommettere su di lui, il mister che per primo aveva notato ed esaltato le straordinarie doti di Francesco Totti. Giuseppe Sansonna, il giornalista italiano più vicino a Zeman (a cui ha già dedicato un libro e due documentari), segue la nascita della sua nuova avventura nel ritiro pre-campionato della Roma: un ritratto in presa diretta con interviste esclusive all'allenatore e ai giocatori. Fra l'entusiasmo di decine di migliaia di tifosi (testimoniato dall'impennata record del numero di abbonamenti romanisti) «Zemanlandia» è pronta a ripartire, e nessun libro sa raccontarla dall'interno più di questo.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788875214937
Argomento
Literature
Categoria
Classics

ZEMAN E ROMA

«Cosa andate a fare a Roma? Qui a Palermo c’è tutto». Diceva così il giovane Zdenek Zeman agli amici siciliani che partivano per la capitale, in cerca di fortuna. Suonava un po’ come la blanda invocazione degli amici a Moraldo, alter ego di Fellini, mentre abbandona Rimini in treno nei Vitelloni. «Poi invece Roma mi ha sedotto», prosegue Zeman, «piena di gente viva, sveglia, che ci piacciono le battute».
I romani hanno cominciato ad amarlo prestissimo. I romanisti in particolare, nonostante venisse dall’odiata Lazio, caso unico nella storia cittadina.
La Hall of Fame dei condottieri giallorossi è piena di «uomini del Nord», distaccati e seducenti: gli unici che abbiano vinto, alla guida della Roma. Il pioniere fu l’ungherese Alfréd Schaffer. In un’Italia piagata dalla guerra, regalò alla Roma il primo scudetto della sua storia, in combutta con il goleador Amadei. Era il 1942. Poi venne il turno del Barone svedese, Nils Liedholm, a cavallo tra Settanta e Ottanta. Anche lui parlava strano, proprio come Zeman, di cui fu il principale promotore, consigliandolo al patron giallorosso Franco Sensi. Un linguaggio che marca uno stile, non un’incapacità di apprendimento. Un modo di rapportarsi che sancisce una distanza invalicabile, una renitenza assoluta a lasciarsi fagocitare. Una virtù che, in cuor loro, i romani adorano. Figli del cinismo atavico di Gioacchino Belli, diffidano di chi si slaccia la patta, cedendo alla tentazione di uniformarsi al contesto. Guardano con sospetto l’Ur-Romano Carletto Mazzone, detto «er magara». Lo preferirebbero come oste di fiducia, più che come allenatore. Quel sosia virulento del petroliniano Mario Scaccia, capace di correre contro la curva bergamasca al grido de «li mortacci vostra» gli sembra uno zio greve, da gita ai Castelli. Non il gelido conduca˘tor che reclamano per mettersi un po’ in riga.
Non li convince nemmeno il sommesso Claudio Ranieri, con la sua indolenza pensosa e quel fiero proclamarsi figlio del macellaio di Testaccio, con bottega a due passi dal mattatoio. Lo hanno sempre chiamato con bonario sarcasmo «er minestraro», uno buono ad arrangiare la squadra con gli ingredienti che trova in casa. Conquistando la decenza, quasi mai l’eccellenza. «Scordatevi il bel gioco», il suo proclama d’insediamento a Trigoria.
«Ho dedicato più attenzione io alla difesa, nelle mie prime due settimane alla Roma, che Zeman in tutta la sua vita», fu la sua captatio benevolentiae.
«Io ricordo otto gol rifilati a sua Fiorentina, quando allenavo Lazio. Otto sono tanti», la replica zemaniana.
Ranieri non ha scaldato i cuori nemmeno quando, con il suo uggioso pragmatismo, parassitario della preparazione atletica del predecessore Spalletti, stava rischiando di addentare il più inaspettato degli scudetti. Ai romanisti piace Zeman perché ne percepiscono lo smodato e incomprensibile amore per il lavoro. Osservano ammirati questo alieno che cura ogni dettaglio, che sistema con le mani ossute i birilli in campo, che ansima sul collo dei giocatori con la sua biciclettina, che tiene sotto controllo bioritmi e prestazioni fisiche. Divoratore di mille dvd, catalogatore di ogni dettaglio, anche comportamentale, di miriadi di giocatori, su scala planetaria. Come un bookmaker estremo e paradossale, nauseato dalle scommesse. Questa mole smisurata d’informazioni, accumulata nel tempo, gli serve solo per scovare, nelle pieghe dell’universo calcistico, allievi malleabili, teste e piedi utili alla causa. Con qualche passaggio a vuoto.
«Nun scordamose dell’ingaggio de César Gómez», ricorda Marcello, storico ultrà della Curva Sud, da San Basilio, impiegato da una vita al Ministero della Pubblica Istruzione, a Riscone con moglie e tre figli. Tutti rigorosamente con la maglia della Roma. Era il 1997. Il boemo, appena arrivato a Trigoria, vaglia con il presidente l’acquisto di un difensore. «Voglio centrale di Tenerife. Non ricordo nome. Ha marcato Casiraghi in Coppa Uefa. Non gli ha fatto mai vedere palla». Il boemo tirava in ballo Tenerife-Lazio 5 a 3, match di Coppa Uefa, per i detrattori zemaniani la summa della sua autolesionistica intransigenza tattica. La Lazio aveva vinto 1 a 0 all’Olimpico. Riuscì a perdere la qualificazione agli ottavi di finale, rinunciando ad arroccarsi in difesa sul 3 a 3, scoprendosi agli affondi spagnoli e regalando a modesti avversari una qualificazione storica quanto inattesa.
Di quella sera luttuosa Zeman ricordava questo difensore smisurato, arcigno, implacabile. «Finisce per z, mister, non ricordo altro», gli disse al telefono un Pierluigi Casiraghi ancora traumatizzato. Questa, almeno, è la versione passata alla storia. I direttori sportivi della Roma, Bronzetti e Perinetti, partono per le Canarie decisi all’acquisto. «Vogliamo il difensore con il nome spagnolo che finisce per z». Quelli del Tenerife fiutano un insperato affare colossale e gli rifilano rapidamente César Gómez, intascando sei miliardi. Ma Zeman, in realtà, si era invaghito di Pablo Paz, coriaceo centrale, in odor di Nazionale argentina.
Quando Gómez arriva a Trigoria, Zeman lo squadra con disappunto. Comincia a intuire il dramma. Per chiarirsi le idee lo sottopone comunque alla solita sfiancante preparazione estiva. Gómez, poco tagliato per lo sport in generale e per il calcio in particolare, perde molti chili. Ma risulta sempre impresentabile per la serie A. Zeman, messo alle strette dalle emergenze, lo schiera in un tragico derby, perso 3 a 1 con la Lazio. Nedved e Casiraghi gli fanno vedere i sorci verdi. Roberto Mancini lo salta in scioltezza, come fosse una sagoma di gomma, segnando un gol da antologia. Gómez termina quel giorno la sua attività agonistica.
«Er giocatore che ci ha avuto più ggente alla partita d’addio!», commenta sempre Marcello, con la ferita ancora aperta.
Da lì in poi Gómez si è goduto il suo contratto quadriennale da un miliardo e mezzo a stagione. Frequentando saltuariamente Trigoria e la tribuna dell’Olimpico. «Per non rimané co’ ’e mani in mano, si è aperto ’na bella concessionaria de Mercedes all’Eur», sogghigna Marcello. Ma nei suoi occhi leggi che in fondo ha perdonato la leggerezza boema. Un errore che non lo scalfisce, lo rende più umano. Più romano, forse.
Del resto sono diciott’anni che Zeman vive nella capitale. Arrivò a Roma nel 1994, ingaggiato dalla Lazio di Cragnotti. Prese casa a Collina Fleming, feudo biancoceleste, a due passi da Tor di Quinto, roccaforte storica della Lazio di Maestrelli, Chinaglia e Re Cecconi. Dalla vetrata del suo attico osservava le feste, nel cortile condominiale, dei laziali inebriati dalle vittorie. Ogni tanto si manifestava con un cenno, come un papa discreto. Da sempre incontra i giornalisti al bar di piazza Monteleone di Spoleto, di fronte all’Hotel Fleming. «Ci vediamo a mio ufficio», è la frase in codice. Si allontana pochissimo dal quartiere, scampando volentieri al traffico tentacolare.
Quando Cragnotti lo liquidò, accettò disinvolto l’offerta della Roma. Passaggio d’inedita incruenza, nella storia cittadina. Addirittura trionfale, con una miriade di fotografi e tifosi giallorossi a salutarne l’arrivo. «Non sono Claudia Schiffer». Eppure non era passato poi tanto tempo da quando l’ingaggio nelle file giallorosse dell’ex laziale Manfredonia aveva scatenato una sommossa popolare, capace di creare spaccature insanabili nella curva giallorossa. L’ex biancoceleste trascinava con sé torbide implicazioni con il calcioscommesse. Zeman, invece, era già ammantato dall’aura di duro e puro. Da qui la serena accettazione degli eventi, dopo i temporanei malumori di vicini di casa e negozianti, tutti rigorosamente laziali. Sulle prime, appena firmato il contratto con Sensi, lattaio ed edicolante progettavano di rifiutargli i propri servigi, meditando l’embargo. Ma poi il lutto fu elaborato e i due fornitori passarono rapidamente a più miti consigli.
«È come un angelo asessuato, pieno di carisma», dice oggi Roberto Ferola, da Monteverde, suo storico preparatore atletico, «amato dai laziali e dai romanisti, spesso rimpianto dagli uni e dagli altri, in tutti questi anni».
In realtà la vera spaccatura creata da Zeman non è tra romanisti e laziali, ma fra zemaniani e antizemaniani. Chi lo ritiene un genio incompreso, chi un sopravvalutato oltranzista dell’attacco permanente, trascuratore accanito della fase difensiva. «Falso. Ho sempre cercato di chiudere avversario», si difende, «a modo mio. Ottanta metri più avanti di altri». Tra le imputazioni più comuni, l’uso scriteriato del fuorigioco: «Vedevo guardalinee poco allenati. Mi sembrava modo giusto per tenerli in forma», si defila con una battuta. Maniacale e un po’ tetragono, come un vero artista. Ricercatore metodico dell’essenza ultima del gioco: l’emozione di chi guarda. «Se si gioca solo per se stessi, per il risultato, senza tenere conto di pubblico, meglio giocare a porte chiuse. Poi si dà risultato al pubblico dopo, magari con comunicato stampa».
C’è anche chi lo ama acriticamente, identificandosi in un suo presunto odio viscerale verso la Juventus. E chi lo odia a morte, perché lo considera un fallito invidioso, frustrato per un mancato ingaggio alla corte degli Agnelli. «Io tifavo Juventus, per i primi trent’anni della mia vita. Mi piace ancora. Mi dispiace solo che alcuni suoi dirigenti, ogni tanto, ci fanno fare brutta figura». Ennesimo paradosso, legato alla figura del boemo: il teorico ostinato dell’importanza del collettivo, contrapposta al solipsismo individuale, diventa oggetto di culto personalistico e trasversale, capace di oscurare i colori sociali vestiti di volta in volta. C’è una vasta legione di calciofili, in Italia, che si appassiona solo alle squadre che lo vedono in panchina.
Quando passò alla Roma per la prima volta, er Catena, truce e storico tifoso laziale, si presentò in curva vestito da prete, con un cartello: Non c’...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Mister Zeman
  3. No, non è un Valtur
  4. Zeman e Totti
  5. Merchandising
  6. Zeman e Roma
  7. La più bella d’Italia
  8. Zeman e i seguaci
  9. America oggi