1. AVANGUARDIA E TRADIZIONE
«Con Bach abbiamo alzato i palazzi.
E siamo arrivati sulla luna»
Spesso e volentieri, la musica jazz d’avanguardia è meno interessante della sua storia. Può essere un bianco a scriverla, questa storia? E i bianchi sono in grado di capire l’avant-jazz? Erano queste le domande che circolavano alla fine degli anni Sessanta.
La mia opinione su questa musica non nasce dalle parole di Mingus, ma da un lungo periodo passato a sforzarmi di comprendere molto del cosiddetto free jazz, le sue strombazzatissime intenzioni e proteste, i suoi suoni. Tra i problemi che ho dovuto affrontare, come emergerà dalle conversazioni con Mingus, c’era il tentativo di separare l’apparato di protesta dalle questioni squisitamente musicali.
Mingus sosteneva sempre di suonare «musica americana», eppure la sua idea di una musica che rispondesse alle esigenze spirituali e culturali dei neri, un blues etnico rivitalizzato, era un’idea antica, benché non troppo accettata, nella storia del jazz. Anche i jazzisti free la condividevano: Cecil Taylor, per fare un nome, voleva portare la musica alle masse nere. E tuttavia, se l’obiettivo è raggiungere il popolo, risulta difficile immaginare uno strumento peggiore del free jazz d’avanguardia. Mingus, quantomeno, pensava che la soluzione potesse essere una musica che godeva di un’ampia base come il blues.
Inoltre inseriva esplicitamente la politica nella sua musica. Il risultato funzionava, perché la politica era subordinata alla dimensione musicale. L’avant-jazz, naturalmente, era sbocciato negli anni Sessanta nell’ambito di un movimento di protesta più ampio, e rappresentava una risposta all’ambiente politico, all’ascesa del rock’n’roll, alla crescente emarginazione del jazz da parte dell’industria discografica, all’allontanamento del pubblico, all’accademizzazione del jazz e così via.
Tra i paladini più illustri dell’avanguardia c’era Amiri Baraka (LeRoi Jones), che con Il popolo del blues (1963) e poi con Black Music (1967) – un calderone di saggi, recensioni e appunti – spesso si avvicinò a cogliere l’essenza della New Thing e del suo popolo. Certo, c’è molto razzismo alla rovescia in Baraka, però la musica, i musicisti e i loro obiettivi lui li conosceva, e poi era nero. Finalmente un critico jazz nero e colto faceva sentire la sua voce e, per così dire, andava oltre Ralph Ellison.
Il rancore etnico che per un certo periodo permeò gli scritti del vecchio Baraka/Jones rende difficile leggerlo oggi, quantomeno a me. Inoltre è difficile reimmedesimarsi in un periodo in cui l’arte era così profondamente politicizzata, in ogni senso del termine. La fusione tra politica e arte è sempre stata problematica e più di una volta è fallita in pieno, come nel caso della New Thing. L’africanismo di parecchia di quella musica spesso era soltanto di facciata, e sottolineare l’importanza di formazione e tradizione non era elegante: faceva troppo occidentale, troppo bianco, troppo Brubeck.
Non tutti, ovviamente, la vedevano così. Un articolo complessivamente bendisposto intitolato «Music: Crow Jim», uscito nel 1962 sulla rivista Time, si apriva riferendo la minaccia da parte di Mingus di abbandonare per sempre gli Stati Uniti (per trasferirsi a Maiorca) e terminava con le parole di Cecil Taylor sugli effetti deleteri di questo genere di pregiudizio:
Facendo osservare che il jazz moderno deve molto alla tradizione classica europea, il pianista Taylor sottolinea: «Il razzismo alla rovescia è uno stato di cose al quale bisogna porre rimedio; il jazz non può tornare a essere musica fatta dai negri soltanto per i negri, più di quanto i negri stessi possano tornare agli atteggiamenti e alle reazioni emotive prevalenti di un’epoca precedente».
La stessa tesi era stata formulata già nel 1958 da Kenneth Rexroth, un critico jazz molto acuto ma poco noto, in un articolo intitolato «Some Thoughts on Jazz as Music, as Revolt, as Mystique» e pieno di riferimenti a Mingus, che Rexroth conosceva molto bene. Non ho mai trovato un approccio più interessante, originale e informato a questi temi.
Riguardo al jazz come strumento di protesta, scrive Rexroth:
Le radici del jazz [in quanto musica da ballo] risentono del conflitto razziale e sociale, ma il jazz in quanto tale appare anzitutto come elemento dell’industria dello spettacolo, e il proletariato rabbioso non frequenta i nightclub e i cabaret.
Vari esponenti della New Thing disdegnavano il lato spettacolare e commerciale del jazz, ma negli anni Settanta cercare di farsi notare guadagnandosi al contempo da vivere con una qualsiasi forma di jazz era un dilemma sempre più serio e pressante. Questo era il contesto delle conversazioni fra me e Mingus.
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GOODMAN: I personaggi più coinvolti in questo free jazz, tipo Archie Shepp... credi che stiano cercando di fregare i bianchi, o che si siano lasciati fregare da questa cosa?
MINGUS: Non so se sia il caso di fare nomi, ma secondo me è successo che stanno cercando di superare Bird, di dire che questo è un movimento nuovo. Ma il fatto è che non si può prendere un prodotto scadente e poi vantarsi dicendo che è meglio della vaselina. Lo sanno tutti che non è così, tutti quelli che hanno ascoltato seriamente l’altra cosa. «Questa non è vaselina, c’è dentro l’acqua». Faranno anche sul serio, ma la loro serietà a me non arriva ancora.
Un ego ce l’hanno tutti, e chiunque viva dentro un corpo umano pensa di essere migliore degli altri. Se anche uno è considerato un negro nel Sud e l’uomo bianco dice che è meglio lui, se quel tipo riesce a creare qualcosa per conto proprio, allora dice: «Ragazzi, io sono meglio di lui». C’è un tenorista (non farò il nome) che da un pezzo vuole entrare nella mia band, e non sa suonare. Ma sul palco si muove come Sonny Rollins e John Coltrane insieme, e credimi, quando la gente lo vede si mette ad applaudire, e lui non ha suonato un cazzo. So cosa pensa lui: «Guarda, Mingus, ho fatto colpo, hai visto. Perché non mi prendi a suonare con te?»
E io tento di spiegarmi: «Be’, io non cerco di far colpo in questo modo, bello; non è per questo che sono qui. Sono capace anch’io di lanciare una gamba in alto e far piroettare il contrabbasso». Lui non ci crede e allora gli faccio vedere, faccio il dixieland, faccio girare il contrabbasso e la gente applaude. Insomma, quello è spettacolo, ma la nostra dovrebbe essere arte. Cioè, nella classica le uniche concessioni che i neri fanno ai bianchi sono gli inchini, hai presente quegli inchini classici, come una volta? Soprattutto le donne, le cantanti d’opera, quell’inchino assurdo che quasi si inginocchiano? Quella sì che era classe.
Sai, a prendere per il culo la gente – perdona il linguaggio – sono buoni tutti, e quasi tutti gli avanguardisti prendono per il culo la gente. Ma Charlie Parker non prendeva per il culo nessuno. Suonava musica splendida all’interno di quella struttura di accordi. Era un compositore, caspita, e che compositore. Come Bach. Bach rimane ancora la musica più difficile mai scritta, le fughe e tutta quella roba lì. Stravinskij non è male, ma con Bach abbiamo alzato i palazzi. E siamo arrivati sulla luna, con Bach, con una mente capace di creare una musica del genere. È la mente più avanzata. Per costruire i palazzi non ci volevano menti primitive o religiose. Quelli tendono ad affidarsi alla fortuna, al sentimento, all’emozione e alle pagliacciate. (E ci hanno anche portato a vendere le pagliacciate.)
È molto difficile lavorare con delle strutture e suonare in tonalità diverse. Se qualcuno ti dice che le tonalità sono tutte uguali, è un bugiardo. Se sono davvero uguali, tu prova a dargli un pedale di Si naturale, di Fa diesis o di La naturale e guarda come si comporta. Se anche sta suonando un altro strumento come il sassofono contralto (il quale, se suona in Do [minore], legge in La minore), quando suona in La, leggerà in Fa diesis; quando suona in Si, leggerà in Sol diesis. Insomma, tu lo guardi e lui resta lì piantato. I migliori sono quelli come McPherson che suonano il bebop, gente che non sbaglia un cambio.
Io non faccio niente di difficile, suono il blues e basta, e vedere questi che... Con Shafi Hadi abbiamo suonato cinque chorus; nel secondo abbiamo modulato in Fa (in «So Long Eric») e poi siamo passati a Si naturale, e lui è rimasto in Fa sino alla fine. Non si era neanche accorto della modulazione. Alla fine è entrato il trombonista, nella tonalità giusta. Il che ti dimostra che persino i musicisti non ascoltano. Quel tipo è talmente paralizzato che non si è accorto che c’era qualcosa di strano nelle note del basso: è rimasto nella tonalità di Fa. È come uno che imbocca una strada contromano e non si accorge nemmeno delle auto che gli vengono addosso. Una cosa penosa.
E non era solo Shafi Hadi. Anche Eddie Preston ha fatto un assolo ed è rimasto fermo nella stessa tonalità. Dopo tre o quattro chorus finalmente è rientrato in pista. Per quindici-venti minuti io e il pianista abbiamo cambiato tonalità in continuazione, e alla fine quello è entrato nella tonalità in cui il pezzo era scritto, un blues in Fa. Peccato che nel frattempo noi avessimo già modulato a Si naturale e a varie altre tonalità.
Ci sono musicisti d’avanguardia famosi che suonano solo in Do naturale, ed è un vero peccato che Bud Powell suonasse sempre in Fa. Ricordo che una volta ha suonato in Re bemolle e Si bemolle, ma in generale sceglieva sempre la tonalità di Fa. Se suonava nelle band, i pezzi che suonava Bird li suonava anche lui, ma quando decideva lui, suonava sempre in Fa.
GOODMAN: Qualche giorno fa ho intervistato Teo Macero [amico di M...