I GIORNI FELICI DI ROVO
Dei mesi che ho passato insieme ai bambini e al Raptor, i giorni di Rovo sono stati i più sereni. Una specie di vacanza. Sarà stata la morte di Dragan, che si era posata su di noi come una coperta e aveva addolcito tutti, anche Leonid, anche Ana. Perfino Filip sembrava frequentabile e Alex era meno acido. Certo si era addolcito il Raptor. Sarà stato il mare, la risacca che cambiava ritmo e si sentiva in tutte le strade, nei vialetti e nei giardini di Rovo, che è una lingua di case cresciuta lungo la spiaggia. Sarà stato il colore grigio del mare e del cielo, la pioggia, l’umidità salata che corrodeva le cose e le rendeva simili: le mura delle villette, il ghiaino, le strade. Ma in quei giorni sono stato felice, come se quel dolore che ci aveva unito avesse reso Alex e Tania, Leonid e Catardzina, Filip e Ana, tutto quello che volevo.
Il pullman ci aveva lasciato fuori dal paese. Era piovuto, attraversavamo strade di villette e palazzine bagnate. Non c’era nessuno in giro, neanche polacchi. I negozi erano quasi tutti chiusi, solo un internet point teneva la serranda mezza abbassata. Ogni tre passi si alzava un pino a ombrello. C’era un fruttivendolo, quello era aperto, grande, ed era anche un minimarket. Quasi senza accorgermene, nel vetro, ho cercato la mia testa di nano biondo: il mio nuovo aspetto, non so perché, mi faceva sentire più sicuro. Poi finalmente si apriva la piazza. La piazza di Rovo è quadrata, niente più che un parcheggio, ma quel pomeriggio c’erano solo due macchine, una Lancia Thema marrone metallizzato e una Opel Astra. Un cartellone pubblicitario la divideva da un giardinetto. Sotto il cartellone spuntava la base gialla di un’altalena. Al centro della piazza si era raccolta la pioggia e aveva formato una grande pozzanghera. È una zona di aironi e di gabbiani, sono sicuro che in quella pozza, quando non c’eravamo noi esseri umani, ci venissero gli uccelli, perfino i fenicotteri. L’ho detto a Alex.
«I fenicotteri non lo so», ha risposto, «ma certo ci vengono gli aironi».
«E i cormorani».
C’era un solo bar. Non pioveva più ma sgocciolava dalle grondaie, dai tavoli, dalle sedie e anche dai pini. Il Raptor era là, seduto su una sedia che grondava, davanti a un tavolino con sopra una tazzina da caffè che forse era sua, forse ci aveva appena bevuto. Per terra, accanto ai suoi piedi, un grosso sacco di plastica giallo fermava l’acqua per qualche frazione di secondo e poi la lasciava scivolare giù. Non fumava la pipa, si vedeva che era teso, stava sul ciglio della sedia, pronto ad alzarsi, a schizzare. Non era vestito di ciniglia viola. Aveva addosso un impermeabile color ghiaccio che gli stava grande, i capelli appiccicati alla faccia. Appena ci ha visto è balzato verso di noi facendo cadere in terra il tavolo e la sedia. L’ha fatto apposta, si vedeva. Tavolo e sedia erano di metallo e cadendo hanno prodotto un clangore. Allora, ho pensato, ha capito quando gli ho detto che Dragan è morto. Il gestore del bar si è affacciato, era un uomo di mezz’età, con pochi capelli, il cardigan marrone. Non ha detto niente, forse perché il Raptor aveva gli occhi fuori dalle orbite e un’aria da pazzo che faceva paura. Il Raptor è venuto verso di noi, è entrato con le scarpe da ginnastica in mezzo alla pozza. Gli siamo andati incontro. Lui ha afferrato Catardzina e Leonid per le spalle, ha avvicinato le loro teste alla sua e ha cominciato a battere i piedi dentro l’acqua. Ci siamo abbracciati tutti in quel modo battendo con i piedi e schizzando.
Senza dire nulla, dopo non so quanti minuti, abbiamo smesso. Il Raptor è tornato a prendere il grosso sacco giallo e ha chiesto al gestore del bar dov’era via dell’Orsa. Quello, continuando a guardarci con stupore, come incantato, ci ha indicato la strada, giù, in direzione della spiaggia. Ho pensato: ora si sveglia, capisce tutto e chiama il 113. Invece no. È restato lì.
Nel giardinetto dietro il cartellone giocavano due bambini dalla pelle bruna. La bambina doveva avere sette, otto anni: raccoglieva aghi di pino e li sistemava sulla panchina verde uno vicino all’altro. Il bambino più piccolo, forse era suo fratello, muoveva su e giù un camioncino rosso. Due panchine più in là c’era una donna, forse la madre, che leggeva. Mentre passavamo in fila indiana, ci ha seguito con lo sguardo finché non siamo spariti alla sua vista. Abbiamo percorso tutta via dell’Orsa, finiva con il 17, il 22 non c’era. Dopo il 17 c’era una siepe di bosso. Dietro la siepe c’era il mare, una spiaggia grigia di conchiglie e sassi. Leonid ha guardato Alex con disprezzo come se avesse mentito. Per un momento ho pensato a Dragan: anche quando era sprezzante non si vedeva tanto il disprezzo, ma l’allegria. Leonid invece o era solo arrabbiato o era solo serio, per questo sembrava affidabile. Tranne quando giocavamo alla scuola dei ladri e quella volta che cantava a comando e faceva finta di essere allegro con i ragazzi dell’ex manicomio. Ma Alex non mentiva. Il ragazzo con i capelli a spazzola, noi – Ana, io, Filip, Catardzina – ce lo ricordavamo benissimo e abbiamo sorriso, perché quel tipo non ci aveva invitato ad andare a casa sua come sembrava, ma ci aveva preso in giro, oppure voleva farsi bello di fronte agli altri, mentre né lui né la sua famiglia avevano una casa, né a Rovo né da nessun’altra parte, magari era anche lui uno senza casa e per questo dormiva nel vecchio manicomio.
L’appartamento dove era più facile entrare era al secondo piano di una palazzina. Somigliava a casa di mia nonna, bianca e con la vernice lucida fino a metà del piano terra. La vite americana saliva in cima. Al primo piano c’erano le inferriate. Filip si è arrampicato sulle grondaie. Salendo, senza volere si appoggiava sui tralci della vite e li strappava. Quando ha scavalcato la ringhiera e ha posato i piedi sul balcone, Leonid gli ha lanciato la sbarra di ferro, quella di Dragan, che avevamo ancora. Non avevamo pensato a buttarla anche se pesava. È caduta sulle mattonelle del balcone, Filip l’ha presa: con la sbarra è riuscito a spaccare un listello della serranda, poi un altro fino a farsi spazio. Non immaginavo che fosse così forte. Ha infranto il vetro. Dopo un po’ che aspettavamo davanti al portoncino di alluminio, ci ha aperto e ci ha invitato ad andare dentro, con una specie di inchino, come fosse lui il padrone. Siamo saliti di corsa per le scale. C’era un odore di umido così forte che mi ha dato un brivido, ho respirato a fondo. Era una casa al mare come tante dov’ero stato in affitto, fredda perché era chiusa dall’estate. Si entrava in una grande cucina con la caldaia alla parete, due divani letto e la televisione ultrapiatta appesa al muro. Dalla serranda spaccata entrava una luce blu perché si stava facendo sera, Catardzina ha aperto la portafinestra e ha fatto un passo sul balcone. Ho provato a premere l’interruttore, ma la lampadina non si è accesa. Alex e Filip si sono buttati sul divano. Io mi dovevo cambiare, avevo i pantaloni sporchi di piscio e puzzavo, ma anche gli altri erano bagnati di pioggia e avevano le scarpe gonfie d’acqua. Leonid è sparito per le stanze.
Dai pensili della cucina, il Raptor ha tirato giù otto tazze, ha preso un barattolo di tè, l’ha aperto, ci ha avvicinato il naso. Di colpo, si sono accesi i neon della cucina e un’altra luce, oltre il corridoio, in fondo alla casa. Il Raptor ha appoggiato il barattolo e ha fatto partire la caldaia. Ha aperto il rubinetto, ha lasciato scorrere. L’acqua prima era rossa e poi, a poco a poco, è diventata chiara. In un altro mobiletto, bianco, c’era un bollitore. Il Raptor l’ha sciacquato per bene, dentro e fuori, e l’ha riempito. Si è chinato sulla cucina a gas. Ha scosso la bombola, ha avvicinato l’orecchio, ha aperto la valvola. Poi si è risollevato e ha girato la manopola di uno dei fornelli. Il gas usciva fischiando, il Raptor ha avvicinato lo Zippo al gas che ha fatto swamp. Non potevo staccare gli occhi dalla fiammella. Il Raptor ci ha messo sopra il bollitore. Ha spostato la sedia, si è seduto al tavolo con la cerata.
«Prima che chiuda», ha detto, «c’è da fare la spesa».
Ho pensato che era bello avere una casa. Filip stava fermo sul divano, come se lo sforzo di aprire l’appartamento gli avesse risucchiato tutta l’energia, o forse si era accorto solo in quel momento che era scomparso il Game Boy. Alex si teneva una mano sulla tasca della tuta di ciniglia, forse il mio Game Boy era lì. Tania e Catardzina esploravano le stanze. Facevano sbattere le ante degli armadi. Tiravano su le serrande, aprivano le finestre. Le abbiamo sentite gridare contente. Abbiamo sentito strusciare. Sono apparse sulla porta del corridoio spingendo e trascinando una cassapanca di vimini. Ce l’hanno aperta davanti: dentro c’erano sacchetti pieni di vestiti. Abbiamo strappato via la plastica. Ma erano quasi tutti vestiti troppo piccoli, per bambini di due, tre, cinque anni.
Io e Catardzina dovevamo andare a fare la spesa. Il Raptor ha chiesto a ciascuno di noi ragazzi cosa volesse per cena. Io avevo l’incarico di stendere la lista: Tania desiderava il pollo arrosto, Leonid la pizza, Alex voleva le piade, perché diceva che qui le fanno bene, Filip ha chiesto i sofficini al formaggio, io la pasta al forno e Catardzina le patate arrosto. Il Raptor per sé voleva una noce di parmigiano e un uovo fresco. E una torta. Non ha chiesto indietro le banconote con la molletta, ha tirato fuori il sacco verde e l’ha allungato a Catardzina.
Fare la spesa era più duro che rubare.
Tra di noi c’era chi chiedeva la carità facendo scene pazze e si divertiva perfino, come Ana o Filip. Alcuni avevano una bella faccia tosta e prostituirsi non gli faceva né caldo né freddo. Forse così era Dragan. Io e Alex pensavamo che, se sei bravo, rubare è il modo migliore per procurarti i soldi. Ma né io né lui eravamo così bravi. Però fare la spesa pagando, con le nostre facce e i vestiti che avevamo addosso, non piaceva a nessuno di noi. Quando io e Catardzina siamo entrati nel minimarket, i commessi, due uomini con la pelle bruna, forse indiani, ci hanno fatto segno che no, il loro negozio non era adatto a noi. Ci hanno mostrato la strada. Ho pensato che vendevano solo cose scadute o con i vermi. Avevo voglia di tornare a casa, non a casa da mia madre, volevo tornare nella casa di via dell’Orsa. Catardzina ha tirato fuori i soldi:
«Comprare», ha detto.
«Presto. Presto. Poi via», ha fatto il più giovane, che aveva la pelle unta senza l’ombra della barba. Non so perché ci volevano cacciare, non c’erano altri clienti. Forse pensavano che il nostro puzzo sarebbe rimasto a lungo nel negozio. Catardzina mi ha spinto, ha fatto un gesto con il mento come per dire: e dai, Manuel, parla, e io ho cominciato a elencare. Mentre ordinavo mi è venuta nostalgia di quel negozio che avevo visto con Ana sulla strada per Padova, dove vendevano delicatezze: qui non c’era niente. Abbiamo trovato solo i sofficini al formaggio per Filip, il parmigiano in busta per il Raptor, patate fritte surgelate, pizza surgelata, qualche uovo ma non credo veramente fresco, niente pasta al forno, niente piade. Invece del pollo al forno abbiamo preso pollo alla diavola surgelato. Il commesso giovane aveva infilato la testa nel congelatore, tirava fuori pacchi di surgelati rimestando nel ghiaccio. Io gli dicevo: «Avete le buste con le piadine da scaldare? Il prosciutto in busta e le sottilette?» Non volevo tornare senza piada, non volevo deludere Alex. Mentre il più vecchio strascicando i piedi andava a prenderli al banco, sbuffando, io ho sfilato dall’espositore vicino alla cassa una bustina di ciliegie candite e me la sono infilata in tasca. L’ho presa, anche se i canditi non mi sono mai piaciuti, perché non era per me. Catardzina voleva comprare il preparato per la torta margherita, ma l’ho convinta che era meglio una torta già pronta al bar e l’ho tirata via. Quando siamo usciti, i due indiani si sono messi davanti alla porta, tutti e due con grandi sorrisi, pronti ad accogliere nuovi clienti. Ma le strade erano vuote. In piazza la Opel Astra non c’era più, era restata solo ...