Minimum classics
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Sandro Onofri muore nel 1999, a 44 anni. Nel suo computer la moglie ritrova un diario, incompiuto: è l'ultimo racconto della scuola pubblica del Novecento, e ha il sapore di un involontario testamento. A distanza di un secolo da Cuore di De Amicis, e alle soglie di un nuovo millennio e di una rivoluzione tecnologica, Onofri torna a chiedersi, con il suo stile asciutto e antiretorico, quale sia il modo più onesto per insegnare. È un uomo pieno di dubbi e di passione, ma ama il lavoro che ha scelto: «Esiste un mestiere più bello del mio?» Quello che gli interessa è l'autenticità, non la brillantezza. Non rimpiange niente, solleva domande e non si fa illusioni. Sa che «gli studi umanistici non umanizzano» e che, dove insegna, i libri non esistono: su settanta alunni, soltanto uno ha letto Pinocchio. Ma più di tutto detesta i condizionamenti delle famiglie e il vittimismo dei colleghi, l'omologazione dei loro alibi, l'incuria. La sua è la voce isolata di chi ha scelto di stare dalla parte degli studenti. Si sente affratellato ai ragazzi che lo respingono: ne riconosce il malessere, che è stato anche il suo. Vorrebbe salvaguardarne l'innocenza, proteggerne l'estro, che «non si dovrebbe mai scassinare», trovare con loro una lingua comune, tra incanto e noia. Perché per essere uguali bisogna possedere le parole, anche quelle scritte: è questo che tenta di dire ai suoi alunni, pur nel timore di trasmettergli la sua stessa «incapacità di adattamento alla realtà, una diserzione dal tempo, una sconfitta». Registro di classe è la sua ultima lezione, la più umana.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788833890319

/
Registro di classe

21 settembre. Fuori dalla finestra un paio di aerei decollati dalla vicina base di Pratica di Mare fanno evoluzioni e sforbiciate sopra il giallo dei palazzoni popolari, passano sopra il serbatoio dell’acqua proprio davanti alla finestra della classe e tornano verso Torvaianica, verso il mare che sta laggiù, dietro un tratto di campagna ciancicata dalle ruspe, da una giostrina ambulante (solo autoscontro, o «macchine a ’ntuzzo», sedioline volanti, o «carcinculo») e, infine, dal mercato settimanale che ogni sabato pianta le sue bancarelle davanti al cancello della scuola per vendere abiti di acrilico e mozzarelle di bufala.
Poi la lavagna, dove qualcuno ha scritto Welcome e qualcun altro Che palle! E la mappa dell’Europa, in cui compaiono ancora la Jugoslavia e l’Urss. Chissà quando ci saranno i soldi per poterle cambiare. Un computer in ogni classe! L’informatica nelle scuole! E abbiamo ancora l’Urss appiccicata al muro... E poi i cartelloni con gli imperatori di Roma: Giulio Cesare, Ottaviano..., lasciati dallo scorso anno. Le ragazzine hanno il seno un po’ più pronunciato, i ragazzini qualche pedicello in più sulle guance. Ma il resto è così come l’avevo lasciato: le zeppe, le Tod’s, gli Swatch, gli Invicta, e le Pilot, e le agende Smemoranda, e le facce di Ligabue, di Nek, che digrignano i denti dalle foderine dei quaderni.
Ricominciamo. La scuola parte per un nuovo, lungo viaggio, ma si comporta come certi tipi fissati per l’automobile, i quali prima di mettere in moto amano attardarsi in cento faccende preliminari. Nel mese di luglio ne abbiamo visti parecchi, davanti ai portoni: quando uscivamo per andare a comprare il giornale sembravano sul punto di partire, e lo sembravano anche quando rientravamo: pulivano i vetri con la carta di giornale e lo spirito, spolveravano le maniglie con il piumino, e seguivano meticolosamente le indicazioni dei libretti di manutenzione che altri, invece, lasciano marcire nei portaoggetti degli sportelli laterali, preferendo mettere in moto e partire.
Pure la scuola, in questi primi giorni del nuovo anno scolastico, si attarda in tanti, troppi preparativi prima di cominciare a divorare la strada. La prima settimana, e forse anche di più, è generalmente impiegata in meccanismi di «accoglienza» miranti a conoscere soprattutto i nuovi alunni, e a verificare lo stato di preparazione degli studenti più anziani, dopo le lunghe vacanze estive (troppo lunghe, forse?), attraverso i cosiddetti «test di ingresso» e questionari a risposta fissa. Ma prima ancora, prima che i ragazzi animassero con le loro voci i corridoi troppo vuoti dei nostri asettici istituti, i docenti hanno passato un paio di settimane a riunirsi allo scopo di mettere a punto dei programmi omogenei per materia, degli obiettivi didattici comuni.
Tutte preoccupazioni che trovano la loro necessità nella coscienza che il mondo scolastico ha di sé, appesantita da un coagulo di paure ormai antico, che si cerca di affrontare con metodologie la cui validità si assume troppo precipitosamente, con troppo conformistico entusiasmo. Piani didattici annuali, programmazioni comuni, test di ingresso, prove uguali per tutti sono il risultato di un inseguimento affannoso della modernità, che si tenta di acchiappare come viene viene, accettando il valore di miti la cui validità dentro la scuola è invece tutta da dimostrare: quello dell’oggettività, quello dell’omogeneità, quello della standardizzazione. Tutti criteri che, se possono andare bene in una logica di marketing e di produzione, adottati in un rapporto pedagogico non portano ad altro che allo schiacciamento delle differenze e delle individualità, sia degli alunni sia dei docenti. I quali, comunque, stanno lì, in mezzo ai ragazzi, e se sono bravi, se hanno qualcosa da dire, se hanno vissuto abbastanza e abbastanza intensamente, avranno ognuno un libro grande e diverso da insegnare ai propri studenti. E se invece non lo sono, se si trovano lì per caso, perché tanto un lavoro vale l’altro, perché mezza giornata libera è assicurata e i contributi vanno avanti lo stesso, allora non c’è schedina standard né test che possano compiere il miracolo dell’insegnamento. Una scuola davvero rinnovata dovrebbe, credo, preoccuparsi prima di tutto di assicurare la libertà necessaria all’espressione delle differenze, sia dei docenti sia degli alunni, e dunque agevolare l’originalità dei percorsi didattici e l’atipicità dei ritmi e dei sistemi di apprendimento.
In fondo la scuola di adesso, che pedina omogeneità e standard, e il viaggiatore previdente, hanno in comune la gran paura per l’imprevisto, per quel tanto di misterioso che nessuno è in grado di anticipare o di individuare. Ma l’imprevisto è il sale di ogni viaggio: lo complica, ma proprio per questo lo rende irripetibile.
25 settembre. Su settanta alunni, tutti intorno ai sedici anni, uno solo aveva letto Pinocchio. A molti di noi sembrerà impossibile: come si può crescere senza avere letto quel libro incredibile? Talmente «dentro» di noi da risultare perfino difficile, così all’improvviso, senza avere preparato niente, spiegarne l’importanza ai ragazzi? Ci provo e mi vengono in mente solo poche immagini fortissime, quella del Grillo parlante spiaccicato contro il muro dalla smania di spensieratezza del burattino, oppure quella di Pinocchio stesso ridotto ormai un pupazzo. Era l’ultimo disegno del libro letto mille volte, forse lì ho avvertito per la prima volta il senso della morte, in quel «grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrociate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto». Vicino a lui, me lo ricordo ancora, tra la seggiola e un mobile su cui era poggiato un vaso di fiori, c’era l’insignificante ragazzino vero, la cui comparsa faceva finire la storia più bella che avessi mai letto.
Eppure è così. Gli studenti credono di conoscere bene la storia del burattino di Collodi, avendo visto il film di Walt Disney (che però, stranamente, schematizza troppo la vicenda), e perciò non l’hanno mai letto. È normale, non bisogna sorprendersi: quanti della nostra generazione, per esempio, non hanno mai letto David Copperfield, il capolavoro dickensiano che la televisione mandò in onda a puntate tanti anni fa? Non bisogna scandalizzarsi, dunque. E poi i ragazzini crescono così, coi genitori sempre indaffarati, le babysitter che vanno e vengono, e una cassetta a caso infilata dentro il videoregistratore. La lettura della favola prima di andare a letto è abitudine persa, i bambini vedono i genitori solo la sera e hanno voglia di giocarci, si va a dormire tutti insieme molto tardi, stanchi morti e innervositi. I libri non esistono più, o quasi. Compreso Pinocchio.
La sorpresa semmai sta nel constatare che gli stimoli per la lettura sono sempre gli stessi, e che i bei libri provocano la medesima lettura selvaggia. È bastato leggere tre capitoli in classe, quasi per caso in attesa che arrivassero i libri di testo, comprando Pinocchio all’edicola o alla prima libreria che capitava, senza l’ossessione di riassunti scritti, per far scattare la passione verso questa storia eterna. I ragazzi hanno continuato spontaneamente da soli, a casa. Una lettura vorace, finita nel giro di un paio di giorni. Si sono ripresentati in classe entusiasti per avere scoperto che quella raccontata nel libro è una storia molto più bella «di quella vera» del film di Disney, dispiaciuti per la sorte del Grillo parlante (che comunque, mi rassicurano, è «resuscitato» dalla fata turchina), ma meravigliati per la presenza degli altri personaggi prima sconosciuti, commossi per la morte di Lucignolo. Me l’hanno raccontato tutto, rammentandomi anche certi particolari che io non ricordavo più. Fino a quello che loro considerano un lieto fine, e che a me continua a provocare una gran malinconia.
29 settembre. Ho dato un tema in classe, molto libero. Questo è quanto ha scritto Michelle, un’alunna che ride sempre:
Cari mamma e papà, è da quasi un anno che la mia vita si sta rivoluzionando, e dato che non ho mai potuto parlarvene, né saputo spiegare certi miei atteggiamenti, oggi colgo l’occasione per scrivervi tutto quello che non vi ho mai detto, ma che avrei sempre voluto dirvi. Come ben sapete, poco dopo essere entrata nei miei 16 anni, ho cominciato a conoscere quello che io chiamo L’AMORE. Sì, lo so che già siete a conoscenza del mio rapporto con Salvatore, ma non so perché da allora, forse un po’ x colpa mia, abbiamo perso il dialogo. Sapete sono cambiata molto, ma non solo nel parlare, nel vestire, nel comportarmi, con l’avanzare di questa mia strana adolescenza mi sento un po’ maturata e diversa, con altri obiettivi, direi quasi che sono un’altra Michelle.
Con Salvatore, ed è di lui che voglio parlarvi, mi trovo bene, è il primo con il quale non ho sentito il disagio di avere, oltre a lui, la presenza delle mie amiche. È x questo motivo, oltre all’attrazione che ho provato dopo un po’ che l’ho frequentato, che questo ragazzo è per me così importante. Vi lamentate di me e di questo mio carattere troppo ribelle e anarchico, ma mi sento tanto diversa che quasi mi sembra di aver raggiunto l’INDIPENDENZA, in verità sono spaventata anch’io da questo mio improvviso cambiamento! Ho una confusione incredibile dentro di me (questo spiega anche il mio andamento scolastico dell’anno scorso) e, come sapete, per lui ho litigato anche con una mia amica e, comunque, con chiunque lo critichi. Con lui, ed è ora giunto il momento che ve lo dica, sto maturando, crescendo e scoprendo cose sentimenti che finora mi erano estranei. Mi ha fatto vivere momenti, istanti, attimi, a mio parere irripetibili e per questo indimenticabili e, giunta a questo punto, posso dirvi che ormai è come se dipendessi da lui! Tutte quelle volte che, rientrando a casa, mi chiudevo in bagno a piangere e tutte quelle pazzie che, a vostra insaputa, ho fatto per lui, sono la conferma che quest’amore mi sta offuscando la vita e annebbiando la vista. Avrete sicuramente notato che è molto che non vado più in discoteca e che non faccio più niente per me. Lui è ormai al centro dei miei pensieri, è per me troppo importante, senza di lui non avrei più voglia di vivere, di sorridere, di stare tra la gente, poiché è lui che mi ha dato tanta sicurezza e stima.
Questo è il risultato di un anno passato con una persona a cui tieni. Penso sia tutto, anche se poi non è niente, forse parole inutili, frutto di un disperato bisogno di sfogo, di farvi sapere. Ma spero siano servite. Accettate le mie scuse, scuse per un pezzo di vita che vi è stato strappato, ma un pezzo di vita che è volato anche a me, è sfuggito dalle mani a entrambi. Michelle.
12 ottobre. Ho chiesto a Cristian cosa ne pensasse della pillola contro la timidezza, e s’è fatto tutto rosso. L’ho chiesto a Debora, e lei ha abbassato gli occhi e ha sussurrato ’a professo’, che ne so? Di fronte ai rossori e ai silenzi dell’adolescenza, l’educatore prova sempre un certo ritegno, e anche una forma di rispetto. Sa (magari perché se lo ricorda, c’è cresciuto anche lui) che in quel mondo di timori bisogna saperci entrare, che serve cautela, e che la parola d’ordine non è sempre valida. E d’altra parte ha, per mestiere e vocazione, la presunzione di aiutare l’adolescente a muovercisi dentro se non proprio con agio almeno con quell’armamentario, bussole e mappe, necessario per non perdersi e non essere inghiottiti. Ma è anche consapevole che quel mondo riservato, molto concentrato, non è meno ricco di quello in cui crescono i giovani che, per educazione o per indole, appaiono più spavaldi e sicuri. È un mondo semplicemente diverso, con altri ritmi, altri linguaggi, altri colori, una specie di cattedrale spaventosa e magnifica, dalle cui navate penzolano serpenti, ma con le nicchie piene di tesori.
La modernità sta però ponendo ulteriori dilemmi all’educatore. L’ultimo ritrovato scientifico, questa pillola contro la timidezza che appunto è in arrivo dall’Inghilterra, è l’ennesima conferma di quanto si complichi questo ruolo. Sinceramente, non saprei più dire con sicurezza se è bene insegnare ai giovani a procedere senza fretta verso la conoscenza di sé e della propria indole, a percorrere con calma, lentamente, la propria formazione, senza assumere acriticamente i modelli che arrivano dalla società, dall’ambiente in cui crescono. Non sarà, mi chiedo all’improvviso, che continuando a privilegiare il metodo omeopatico della conoscenza e della riflessione in un mondo che va avanti a bombarde chimiche, io contribuisco a rendere i miei allievi dei disadattati? Noi qui dentro a leggere e parlare, e fuori si corre, invece, si pianifica, di domani si vuole certezza e la si vuole subito, si prevede il clima, si assumono vaccini contro certe perdite di tempo quale all’improvviso è considerata perfino l’influenza (quella malattia dei vecchi tempi, che ci costringeva a restarcene in casa per una settimana!), si standardizzano umori e stati d’animo, e adesso si attacca a colpi di bazooka (perché tale è da considerare l’anfetamina contro la timidezza) quella fase della vita così fuori luogo quale è l’adolescenza, incongruente, piena di brufoli e di contraddizioni, di masturbazioni, di timori e fantasie esaltanti, quasi sempre illusorie. Sono qui a parlare con le mie alunne delle loro prime delusioni amorose, e a poche centinaia di chilometri una loro coetanea è stata eletta Miss Italia e già si muove tra denari e telecamere! Mi sforzo di accompagnarli in questo rito di passaggio che è la scuola, di presentarli alla vita con i muscoli forti e la mente sveglia e curiosa, ma mi chiedo anche se la stessa curiosità non si rivelerà un handicap, in una cultura che privilegia sempre più le specializzazioni e le competenze maniache, il contrario esatto della curiosità. Mi chiedo cioè se non sto insegnando loro la mia incapacità di adattamento alla realtà, una diserzione dal tempo, una sconfitta.
9 novembre. C’è assemblea di classe. Da dentro le aule arrivano risate e qualche urlo. Due ragazze escono dalla III A e vanno in bagno, ridendo tra loro. Nella tasca dei blue-jeans si vede il bozzo rettangolare delle sigarette. Due alunni leggono invece il Corriere dello Sport che il bidello ha lasciato sul tavolo. La maggior parte dei colleghi sta in sala professori. Io mi metto da una parte e sorseggio il succo di cicoria che si può prendere a cinquecento lire dalla macchinetta del caffè sul corridoio.
A un certo punto, verso la fine dell’ora, mi vengono incontro due allievi di seconda, Marco e Domenico. Ridono, ma sono un po’ imbarazzati: «Professo’, è vero che lei non se la prende a male se abbiamo detto pure qualche cosa contro di lei?»
In teoria non dovrei prendermela, però in pratica... Ma perché, cosa c’è che non va? Siamo stati a lavorare in armonia fino a un’ora fa, e adesso mi venite a dire che ci sono problemi? Mi risponde Diego, capelli a tappetino pieni di gelatina on the top, e poi il deserto da un’orecchia all’altra: No, dice, professo’, sa di che si sono lamentati? Che lei fa troppa politica, e poi si vede troppo che è uno di sinistra. Lei, dicono sempre loro, professo’, lei dovrebbe dire pure qualche cosa di destra.
Io cado dalle nuvole. Io fare politica in classe? E quando mai? Ma vi siete impazziti? Ma se siete pure venuti a chiedermi per chi si deve votare, e vi ho risposto che sono cose personali, che dovete leggere e informarvi e farvi un’idea da soli? Adesso mi sto un po’ arrabbiando. I ragazzi sono ragazzi, e va bene, però pure le cazzate sono cazzate.
Ma che non è vero che lei è di sinistra?, insiste con un’aria furbastra l’altro, Roberto. E vabbe’, ma mica è un delitto, rispondo. E poi non mi avete ancora spiegato cosa avrei fatto, io, di sinistra? A questo punto, i due si guardano e scoppiano. E vabbe’, ’a professo’, tutti quei brani che ci ha fatto leggere sul razzismo, Malcolm X, Martin Luther King, e Làscacas (che sarebbe Las Casas) e poi quell’altro, lì, Primo Levi... eh! Allora, per fare le cose fatte bene, ci doveva fare leggere pure qualche razzista! E cioè?, chiedo. E che ne so, per esempio ci dovrebbe far vedere Skinheads. Ma questo, mi informo, chi lo dice? Tu o loro? No, sempre loro.
Allora mi tocca spiegare che essere antirazzisti non è di destra né di sinistra. È semplicemente da persone intelligenti. Aggiungo che non sempre c’è l’obbligo di dare spazio a due punti di vista opposti. Se affrontiamo il fenomeno dello stupro, per esempio, non è che mi potete accusare di essere comunista perché non invito a scuola uno stupratore. Ve lo immaginate? Benvenuto a scuola, signo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Profilo bio-bibliografico
  4. Bibliografia
  5. Registro di classe
  6. Appendice
  7. / Il destino dei prof: ubbidire
  8. / Non si corre la Mille Miglia in Topolino
  9. / Storia di un condannato
  10. Il nome di uno scrittore: Sandro Onofri come una patria di Vanessa Roghi