IL SOSTEGNO ALL’IMPRENDITORIALITÀ CULTURALE
di Paola Dubini
Premessa
Il termine imprenditorialità culturale ha avuto una evoluzione relativamente lenta. In ambito accademico è stato coniato da DiMaggio (1982) per descrivere gli animatori e i finanziatori della scena musicale di Boston del 1800 e mettere in evidenza la relazione fra attività di produzione artistica e sistema di finanziamento. È evidente, in questa prima accezione, l’enfasi sulla dimensione pionieristica, imprenditoriale appunto, del lavoro culturale e della necessità di sviluppare un ecosistema in cui il sistema produttivo e quello finanziario concorrono al sostegno e alla diffusione di attività artistiche e culturali.
Per un certo numero di anni il termine è stato poi utilizzato prevalentemente da studiosi di cultural studies e sociologi, mantenendo tuttavia un carattere di relativa ambiguità definitoria (Hirsch e Levin, 1999). Indubbiamente l’utilizzo del termine culturale ha contribuito a rendere i confini dell’oggetto di indagine sfumati e variabili e a metterne in evidenza la collocazione nell’intersezione fra sfera sociale, politica, artistica ed economica. Peraltro le prime definizioni in chiave socioeconomica limitano fortemente il senso e la portata del fenomeno, riconducendo perlopiù l’ambito di attività alla produzione di beni culturali: «prodotti immateriali diretti a un pubblico di consumatori, per i quali soddisfano bisogni prevalentemente estetici o espressivi piuttosto che spiccatamente utilitaristici» (Hirsch, 1972, pp. 641-642).
Negli ultimi anni, invece, il termine è improvvisamente diventato di moda ed è uscito dalla sfera dei dibattiti strettamente accademici. Cosa particolarmente interessante ai fini di questo contributo è l’impulso dato alla notorietà e alla visibilità del fenomeno da parte di una serie di operatori privati, che hanno ritenuto importante sostenere progetti di imprenditorialità culturale insieme ai tradizionali investitori istituzionali, pubblici o fondazioni bancarie.
Inevitabile che, nello slancio di popolarità, l’imprenditorialità culturale si sia arricchita di nuovi significati e al termine si siano affiancate diverse retoriche. Obiettivo di questo contributo è partire da un’analisi dei diversi contesti in cui il termine è utilizzato, con l’obiettivo di definire che cos’è l’imprenditorialità culturale «per differenza» rispetto ad altri ambiti contigui, quali sono le sue specificità e quali le sfide che le si pongono in termini di sostenibilità rispetto alle diverse forme di finanziamento disponibili. In altre parole, offrire alcuni spunti di riflessione sull’ecosistema legato all’imprenditorialità culturale, per verificarne la capacità di crescita.
Imprenditorialità culturale: Heffalump revisited
Una ricerca su Google di alcuni termini riconducibili a vario titolo al tema in oggetto dimostra che effettivamente c’è attenzione all’imprenditorialità culturale, ma che il termine «compete» con altri di significato affine che paiono avere elementi in comune: «imprenditorialità culturale» restituisce 742.000 risultati, «innovazione sociale» 18 milioni, «innovazione culturale» 16,7 milioni, «smart cities» 50 milioni, «capitale sociale» 11 milioni... Qual è dunque il terreno di indagine dell’imprenditorialità culturale?
Come ben sanno gli appassionati, l’heffalump (in italiano «efelante») è un tipo di elefante di fantasia descritto da A.A. Milne in alcune delle storie di Winnie the Pooh. Uno dei primi teorici dell’imprenditorialità, Peter Kilby, nel 1971 ha scritto un saggio intitolato «Hunting the Heffalump», sviluppando una delle prime teorie sull’offerta di imprenditorialità. Riconoscendo la difficoltà di definire quali elementi caratterizzino l’imprenditore e con l’obiettivo di individuare che cosa condizioni l’offerta di imprenditorialità, l’autore ha proceduto «per esclusione», arrivando a individuare nell’imprenditore «semplicemente» colui che prende decisioni in condizioni di incertezza e che emerge in presenza di discontinuità tecnologica e di fattori facilitanti legati alle strutture sociali. A differenza di diversi autori a lui contemporanei, che studiavano le caratteristiche di personalità e comportamentali tipiche degli imprenditori, Kilby aveva ricondotto la quantità di offerta imprenditoriale alla presenza di una serie di condizioni di contesto di disequilibrio.
L’approccio di Kilby sembra essere molto utile per definire i confini dell’imprenditorialità culturale. Coniato per definire l’intersezione tra filiere di produzione artistica e filantropia finanziaria, il termine non ha necessariamente riguardato startup in ambito culturale, ma piuttosto una mentalità, un modo di agire – abbastanza non convenzionale – in istituzioni altrimenti spesso burocratiche e dipendenti per lo più, in via diretta o indiretta, da finanziamenti pubblici. Un approccio imprenditoriale applicato a contesti fuori mercato e finalizzato alla produzione di beni e servizi inseriti in un contesto di mercato.
Una parte delle definizioni recenti ha invece ricondotto l’imprenditorialità culturale alla capacità di costruire mercati attorno alle istituzioni culturali, di attirare ampi flussi di visitatori per mezzo di iniziative di carattere strettamente culturale, di diversificare le fonti di reddito grazie a una maggiore offerta di attività (come nel caso dell’organizzazione di concerti e cicli di proiezioni in un museo), allo sviluppo di attività commerciali e al coinvolgimento di sponsor privati. Oggi lo sviluppo degli studi sulle startup innovative, e in particolare digitali, l’emergere di forme ibride di imprenditorialità sociale spesso legate a iniziative di corporate philantropy o di corporate social responsibility, la diffusione di modelli di governo che contemperano istanze sociali, distribuzione diffusa di rischi e ricompense, vincolo di patrimoni a obiettivi specifici, e la crescente attenzione allo sviluppo socioeconomico dei territori – costruito a partire dall’identità locale e dalla valorizzazione di risorse e patrimonio unici –, hanno portato a definire l’heffalump dell’imprenditorialità culturale all’intersezione dei seguenti ambiti:
L’utilizzo massiccio, da parte dell’Unione Europea, dell’espressione Europa creativa per lanciare i bandi Horizon 2020, ha portato ad allargare ulteriormente e rendere ancora più ambigui i confini dell’imprenditorialità culturale, fino a comprendere anche iniziative che guardano ai territori in termini di urban coolness (cucina, design, comunicazione, grafica ecc.). Per quanto questi progetti siano caratterizzati da una elevata componente imprenditoriale e siano spesso fortemente rappresentativi dell’identità di uno specifico territorio e della cultura di una comunità, questo articolo si concentra sulla dimensione strettamente culturale e sull’interazione tra forme organizzative diverse che hanno a che fare con lo sviluppo di nuovi modi per sperimentare, produrre, conservare e diffondere cultura e con una rilevante dimensione pubblica.
Attenendoci alla definizione di Kilby, lo spazio per l’offerta imprenditoriale culturale appare quindi definito da alcune discontinuità tecnologiche (la diffusione di piattaforme digitali per la gestione dei contenuti, i social media), e dalla possibilità di costruire modelli di relazione sociale in rete e nella realtà, su base territoriale o per ambiti di interesse (a diversa intensità di carattere sociale o culturale). L’azione imprenditoriale riguarda sia nuove imprese sia iniziative di carattere imprenditoriale all’interno di organizzazioni nuove o preesistenti. La combinazione di queste variabili configura ambiti di azione imprenditoriale variamente definiti e tutti con spazi di ambiguità. Ad esempio, parlando di smart city, l’enfasi viene posta su strategie di pianificazione urbana che si basano su tecnologie digitali e coinvolgimento attivo della cittadinanza per innovare e rendere più efficienti i servizi al cittadino, alle imprese e alle istituzioni in un dato territorio. Quando la dimensione tecnologica è meno rilevante, e le finalità di carattere sociale sono più legate alla costruzione di capitale sociale che non all’efficienza nell’utilizzo delle risorse, cambiano i termini utilizzati e l’enfasi viene posta sulla dimensione sociale e partecipata degli interventi di taglio imprenditoriale.
È interessante notare come in questa ambiguità definitoria trovino posto iniziative a carattere imprenditoriale in una grande varietà di forme giuridiche: startup, imprese, onlus, comitati, società di persone, associazioni, consorzi, enti pubblici territoriali, istituzioni culturali, imprese sociali, b corp, associazioni temporanee di impresa, cooperative... in una geometria istituzionale in continuo mutamento.
Per individuare i caratteri comuni dei progetti di imprenditorialità culturale all’interno di un quadro così articolato, occorre una base empirica di riferimento di dimensioni adeguate, che permetta, se non un campionamento statistico, almeno una sufficiente varietà. La crescente diffusione di call for ideas e di bandi a sostegno esplicito di progetti di innovazione culturale, sociale e di imprenditorialità culturale da parte di fondazioni private, enti pubblici, imprese e associazioni culturali ha permesso di portare alla luce in parte il fermento imprenditoriale di cui vogliamo occuparci. La formula del bando a concorso ha avuto l’indubbio pregio di mobilitare energie e attenzione, e di mettere in luce la dimensione e la vitalità dei progetti imprenditoriali: è prassi ormai che ciascun bando si traduca in centinaia di idee presentate, a dimostrazione del fatto che l’heffalump esiste, è meritevole di attenzione. E chiede di essere sostenuto.
Ciascun bando ha propri...