Non è un mestiere per scrittori. Vivere e fare libri in America
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Non è un mestiere per scrittori. Vivere e fare libri in America

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Non è un mestiere per scrittori. Vivere e fare libri in America

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L'America contemporanea è un luogo leggendario per i lettori di tutto il mondo. Giulio D'Antona ha deciso di esplorarla, per raccontare come funziona il più importante mercato editoriale del pianeta, un'industria culturale che ancora influenza in maniera profonda il nostro immaginario. Per farlo è andato a intervistare scrittori celebri e laconici ed esordienti disillusi ma logorroici, agenti ricchissimi e editor scoraggiati dalla crisi, librai che raccontano di epoche d'oro e geniali redattori di riviste universitarie... Da Teju Cole a Jennifer Egan, da Lorin Stein a Jonathan Lethem, dall'università dove insegnava Wallace al bar dove scrive Nathan Englander, D'Antona ci porta sulle strade d'America con lunghi tour a piedi, trasvolate dall'East alla West Coast, i mitici pullman Greyhound, per accompagnarci negli attici di Manhattan e nelle tavole calde del Midwest, compiendo con noi quel pellegrinaggio che ogni fedele di questa Mecca pop della letteratura dovrebbe fare almeno una volta nella vita.Con un'introduzione di Nickolas Butler

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788875217426
Categoria
Travel
NON È UN MESTIERE PER SCRITTORI

1. NOSTRA SIGNORA DEI MACBOOK

«Il mio mestiere consiste nello scrivere articoli che riguardano gli altri».
Oriana Fallaci,
I sette peccati di Hollywood
Con ordine. Le cose belle si fanno con ordine, e io ho già riordinato questo incipit almeno tre volte. Continua a non sembrarmi affatto ordinato, continua anzi a sembrarmi caotico e confuso, nonostante si fondi su una lista dettagliata di capitoli e argomenti – le liste sono la cosa che al mondo mi mette più tranquillità – e benché sia probabilmente il massimo dell’ordine cui saprei tendere.
New York è una città ordinata: perdersi per Manhattan è impossibile. Basta contare le strade per sapere quanto a nord ci si trova e per avere un’idea della distanza percorsa e di quella ancora da percorrere. E se si perde il conto ci sono i palazzi: la Freedom Tower piantata in mezzo al nuovo World Trade Center nel sud dell’isola, che è bene tenersi sempre alle spalle a meno che non si debba prendere un traghetto o un treno per il New Jersey; il Chrysler Building, che quando si arriva a vederlo è perché ci si trova nel bel mezzo della confusione di Midtown, tra le insegne luminose, i taxi e i turisti indecisi se sentirsi sperduti o sentirsi a casa; l’Empire State, che serve più che altro a stabilire la porzione di città da evitare per non venire risucchiati nel vortice colorato di Times Square. E poi il parco, quel buco di verde insensato, squadrato e prepotente che la spezza in uno strappo dai contorni netti, tracciati, americani quanto i confini del Missouri o del Kansas, del Texas dove non tocca il Messico. Lo si può percorrere lungo tutto il perimetro, e solo facendolo si ha la percezione reale dello spazio trascorso. Upper West Side da una parte, Harlem sopra e Upper East Side dall’altra parte. I due quartieri ai lati del parco sono l’uno lo specchio dell’altro, il secondo peggio del primo. Se si potesse prendere la città e piegarla lungo la sua metà si incastrerebbero alla perfezione, come una cerniera.
Basta contare le vie, eppure ogni volta che si va su e giù per Manhattan si ha la sensazione di essersi appena persi qualcosa. L’ordine delle cose belle.
Brooklyn è un’altra storia. Perdersi per Brooklyn è decisamente più facile. Innanzitutto perché ha molti più quartieri, o così sembra. Non ho mai realmente contato i quartieri di Brooklyn, ma mentre quelli di Manhattan stanno in un pugno e sono ben posizionati sulla cartina, in quelli di Brooklyn ci si trova senza rendersene conto. A un certo punto iniziano e, se ci si guarda attorno per cercarne il confine, niente da fare: non c’è. È da qualche parte tra le brownstone10 tutte uguali e ha silenziosamente determinato il passaggio da Gowanus, con le case popolari e le fabbriche dismesse, a Cobble Hill, dove i nuovi ricchi si nutrono prevalentemente di soia e smoothies alla frutta coltivata sui tetti. Da Bed-Stuy a Crown Heights, dall’imponenza regale, decadente e orgogliosa degli ingressi irti che conducono a porte di legno scrostate dal gelo e dal sole battente, all’umiltà vergognosa delle cancellate arrugginite. Ragazzini su biciclette troppo grandi e l’aria da adulti e adulti con lo sguardo smarrito del primo giorno di scuola. Neri abituati al quartiere e bianchi fuori luogo come lo sono le avanguardie. A New York l’industria immobiliare decide per chi non sa scegliere da che parte stare e le case crollano con la stessa facilità con cui vengono rimpiazzate.
A Dumbo gli scorci del Manhattan Bridge ricordano qualsiasi film di gangster, a Williamsburg non è rimasto nemmeno un portoricano e a Brighton Beach il tempo si è fermato da qualche parte negli anni Cinquanta e non è più ripartito, incastrato tra i piloni della sopraelevata che sferraglia in continuazione interrompendo le conversazioni e le concentrazioni senza nessuna pietà.
Brooklyn è una cosa bella, ma disordinata. Serve a togliersi dalle orecchie il rumore di una giornata a Manhattan, ma finisce per rovinarsi sempre con qualche sirena che fischia tra Fulton Street e Atlantic Avenue, che si schiantano quasi parallelamente contro l’aeroporto Kennedy, spezzandola in due. Come se non ci fosse già abbastanza confusione.
Per esorcizzare il caos, appena arrivato incomincio a camminare. Conto le strade, come sono abituato a fare per non perdermi, mi do un obiettivo e ne individuo una che vada dritta dove voglio arrivare. Di solito vado a vedere Manhattan dal Brooklyn Bridge Park, che si apre tra quelli che un tempo sono stati magazzini di smistamento e adesso ospitano tra gli alloggi più costosi ed esclusivi di New York; è Dumbo, dove le strade sono pavimentate di porfido tagliato da residui di rotaie non più utilizzate e illuminate verso sera dai colori caldi delle vetrine di bar troppo costosi, ristoranti vegani e un paio di gift shop. Voglio essere sicuro che l’isola sia come la ricordavo: potente e docile, gonfia come un groviglio di aghi piantati in un puntaspilli, brillante e casuale nel suo stare ferma in mezzo a due fiumi abbastanza arroganti da continuare a sbatterle addosso.
Nove milioni di abitanti sui trecentoventi milioni del paese e una miriade di scrittori, tutti rivolti dalla stessa parte. Ho provato a contarli, a farmi un’idea precisa di quanti potessero essere, ma non c’è verso.11 Ogni volta che arrivo a un numero soddisfacente – sempre nell’ordine di migliaia, persino decine di migliaia – una nuova consapevolezza rovina i miei piani. Quindi, dovrò accontentarmi del termine generico «miriade» e di tutto il brulicare confuso che suggerisce.
È impossibile osservare una strada di New York – una qualsiasi, non particolarmente notevole e nemmeno particolarmente larga – e non vedere sempre, a qualsiasi ora del giorno o della notte, passare qualcuno. Un’auto, una coppia che torna a casa dopo una cena, un ubriaco, un senzatetto che impreca da solo in una lingua indistinguibile, operai che all’alba tornano al cantiere gonfi della fatica della sera prima e armati di thermos per il caffè, uomini e donne in carriera, studenti, nanny, immigrati regolari e clandestini, hipster, turisti, poliziotti e, tra loro, sempre almeno uno scrittore. È come guardare nei binari della metropolitana pensando: «Chissà se vedrò un topo?»12 Ovviamente un ratto vi correrà sotto i piedi qualche secondo dopo.
Ci sono, non si tratta di imbattersi in loro, ma di farci caso.
La miriade scrive nei bar. Scrivono da Starbucks, come certi film gli hanno insegnato a fare, nei parchi, disseminati qui e là, nelle scuole e nelle università. E nelle biblioteche, naturalmente: lungo la navata della sala centrale della Public Library della Fifth Avenue il ticchettio dei tasti è esasperante e ipnotico allo stesso tempo. I componenti della miriade hanno bisogno di sentirsi vicini mentre scrivono: quelli pubblicati si ricordano degli anni della gavetta e non sanno mai se considerarli finiti, hanno l’ansia delle consegne e non riescono più a trovare la frenesia dei primi tempi. Quelli che aspettano l’occasione giusta, invece, non hanno idea di cosa accadrà. Scrivono romanzi, racconti, articoli per giornali, riviste e fanzine, trattamenti, copioni, adattamenti per e di Broadway. Solo una minima percentuale del loro materiale è veramente richiesta, il resto andrà a perdersi o si trasformerà finché non sarà reso irriconoscibile. Alcuni di loro scrivono per allenarsi, altri come compito a casa. Tutti la sera si addormentano pensando all’idea che li sveglierà il mattino dopo.
Pochi giorni dopo essere arrivato a New York e aver preso possesso della mia stanza di Bed-Stuy, in una vecchia casa su quattro piani, di legno scricchiolante – la stessa casa in cui negli anni Cinquanta visse Joe Black, il primo pitcher afroamericano della MLB, in forza agli allora Brooklyn Dodgers, la stessa in cui ebbe il suo primo figlio13 – ho deciso che mi sarei lasciato andare all’ozio per un paio di settimane.
Così è stato. Non ho fatto molto di più che guardarmi attorno: di tanto in tanto scrivevo qualche articolo, ma soltanto quelli dettati dal senso del dovere. Per il resto cercavo di evitare le storie, per non dovermi mettere al computer più di quanto dovessi starci obbligatoriamente. New York è talmente densa di spunti da rendere impossibile arrivare a sera senza aver trovato niente da raccontare, da approfondire, da indagare. Nei primi tempi dopo il mio ritorno ho cercato di vivere avvolto da una sorta di patina impermeabile che mi permettesse di entrare nel vivo della ricerca il più lentamente possibile, di isolare il lavoro e relegare la scrittura al minimo richiesto dalle mie collaborazioni italiane. La maggior parte delle mie ore le ho passate misurando a piedi quanto ci si può impiegare ad attraversare un ponte, oppure battendo i mercatini dell’antiquariato in cerca di niente e senza un soldo in tasca per precauzione. Avevo sempre con me un blocco per gli appunti, ma nelle pagine dedicate ai quei giorni non si trova molto di più che qualche indirizzo di qualche ristorante che ho provato o che avrei voluto provare, i titoli di solamente un paio di libri e lo schizzo malfermo di una ragazza impegnata a tracciare un subway sketch su un taccuino simile al mio. Mi piaceva l’idea di disegnare la disegnatrice, pur non avendo alcun talento per farlo.
È stato alla fine di uno di questi giorni, non buttati ma investiti diversamente, che ho conosciuto Tomm, con due emme, da Tacoma, Washington, uno con l’aria di chi non sa cosa stia per succedere e con la certezza di non poterlo controllare. Era in cima alle scale che dall’ingresso di casa danno sulla strada, aggrappato alla porta come se sotto di lui si aprisse un precipizio, quando in realtà c’era soltanto il resto del quartiere. Che si apriva sul resto di Brooklyn e sul resto della città e in effetti, messa così, può sembrare di avere di fronte la totalità dell’universo, ma si può anche prenderla come un’opportunità. Io uscivo, lui lo avevo sentito muoversi in una delle stanze al piano superiore, affittate a gente di passaggio, turisti sprovveduti e cittadini americani in attesa di una sistemazione definitiva in città. Non faceva ancora abbastanza caldo da uscire vestiti leggeri e le foglie sugli alberi non avevano ancora finito di aprirsi. Decatur Street era ancora spoglia, una via tranquilla punteggiata di pioppi e di brownstone bifamiliari, rossa e marrone scuro, nascosta alla vista dalla più caotica Fulton, brulicante di vita dentro e fuori i negozi di paccottiglia, i parrucchieri afro e qualche avanguardia hipster incarnata in un piccolo bar dall’insegna minimalista e la porta color pastello. Tomm aveva addosso una giacchetta primaverile, del tutto insufficiente ad affrontare l’aria fredda di fine aprile, e lo sguardo pietrificato, indeciso se lanciarsi o se ritornare dentro. Un ventenne alto e biondo, dallo sguardo dolce modellato sul vento del Nord della costa Ovest, abituato ai grandi spazi e alle idee romantiche, frastornato dalla vicinanza degli edifici, dalle vie di fuga strette e dalle strade chilometriche di cui è impossibile vedere la fine. Come lo ero stato io, anni prima. Ho capito quasi immediatamente che alla miriade se ne era appena aggiunto uno.
Se c’è una cosa che non saprò mai – mi sono giocato la mia occasione – è cosa si prova a vedere New York per la prima volta con un manoscritto nel cassetto. Come ci si sente a passare giornate intere chiuso in un stanza domandandosi cosa stia succedendo fuori e cosa succederà quando il lavoro di settimane, mesi o anni deciderà di prendere l’iniziativa e uscire allo scoperto. Sono arrivato abbastanza vecchio da non dovermi preoccupare dello slancio creativo: qualcosa da prendere quando viene e che ha smesso di sommergermi come all’alba dei vent’anni. Ma Tomm è un’altra cosa. Ha il suo futuro in un file di qualche mega che probabilmente scivola via spedito nel programma di scrittura. Dopo che abbiamo cominciato a conoscerci e che abbiamo appurato che i nostri orari sono più o meno gli stessi, cominciamo a condividere pranzi e cene, lung...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Colophon
  3. Frontespizio
  4. Un’introduzione | di Nickolas Butler
  5. Non è un mestiere per scrittori
  6. Ringraziamenti