Cosa salverà l'Europa
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Dopo il Manifesto degli economisti sgomenti, un nuovo saggio, altrettanto conciso e rigoroso, ci aiuta a chiarirci le idee sul futuro dei paesi dell'euro. Le parole d'ordine della politica economica europea sono la riduzione del deficit, l'abbattimento del debito pubblico, la cosiddetta austerity: gli ultimi trattati comunitari prevedono sanzioni per i paesi che non si uniformeranno a un severo programma di «risanamento». Ma gli autori del libro dimostrano che portare avanti riforme di questo tipo penalizza i lavoratori, non alimenta una ripresa economica sostenibile, danneggia alcuni paesi dell'Unione a favore di altri, senza colpire in nessun modo gli eccessi del capitalismo finanziario che sono i primi responsabili della crisi in cui ci troviamo. Con un'argomentazione lucida e chiara, comprensibile ai non addetti ai lavori, questo libro sfata i luoghi comuni riproposti acriticamente dai media e fornisce preziosi strumenti di analisi e dibattito su un argomento ogni giorno più centrale nell'agenda politica del nostro paese.A cura di Benjamin Coriat, Thomas Coutrot, Dany Lang e Henri Sterdyniak. Edizione italiana a cura di Sbilanciamoci!

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788875214968
APPENDICI

APPENDICE 1.
IL MISTERO DEL DEFICIT STRUTTURALE

Il «saldo strutturale» è, senza alcun dubbio, uno dei concetti più esoterici che sia mai stato inserito all’interno di un trattato internazionale. Si tratta del deficit pubblico che sarebbe realizzato nel caso in cui il Pil di un paese si stabilizzasse al suo livello potenziale, cioè al livello corrispondente alla normale congiuntura economica.
Tabella 1. Il «deficit strutturale» della Francia varia notevolmente in funzione delle modalità di calcolo adottate
Tabella che mostra come il deficit della Francia cambi in base alla modalità di calcolo adottata.
Questo metodo presuppone che sia possibile definire una crescita potenziale, cioè una evoluzione tendenziale della produzione, che non dipenda che dai fattori dell’offerta (evoluzione tendenziale della produttività, stock di capitale, popolazione potenzialmente attiva, tasso di disoccupazione di equilibrio). In realtà, il metodo adottato dalla Commissione europea, quello che il trattato obbliga a utilizzare, fa sì che le sue stime della produzione potenziale siano sempre vicine a quelle della produzione effettivamente realizzata, in particolar modo in periodo di recessione. Pertanto, lo stock di capitale utilizzato per calcolare la produzione potenziale sarà lo stock effettivo, indebolito per la caduta dell’attività produttiva; la popolazione attiva disponibile sarà la popolazione osservata, al netto dei pensionamenti (in periodo di disoccupazione, i giovani prolungano i loro studi e i più anziani rinunciano a cercare un’occupazione); il progresso tecnico tendenziale sarà valutato con una limatura del tasso osservato, modificato tenendo conto della recessione; il tasso di disoccupazione di equilibrio sarà sempre vicino al tasso osservato, sempre secondo il metodo della Commissione.
Come dimostra la tabella 1, che riguarda la Francia (ma la stessa cosa vale per l’insieme della zona euro), il tasso di crescita potenziale stimato dalla Commissione accompagna l’evoluzione del tasso osservato. Pertanto, con la crisi, la crescita potenziale sarebbe passata dal 2% all’1%. Inoltre, secondo la Commissione, lo scarto fra la produzione potenziale e la produzione reale (lo «scarto di produzione») non era che del -2,3% nel 2011. Se, al contrario, supponiamo che la crisi non abbia effetti sulla crescita potenziale della produzione, tale scarto aumenta sino al -7,6%: la «perdita di produzione» suscettibile di essere recuperata da una buona politica economica è tre volte maggiore.
Le conseguenze sulla stima del deficit strutturale sono notevoli, tanto più che la Commissione, a dispetto del buon senso, include nel deficit strutturale la spesa legata ai piani di rilancio dell’economia, e quindi puramente congiunturali. Così, per l’anno 2009, la stima della Commissione è del -6%; la nostra del -2%. Per la Francia, nel 2012, la Commissione ha previsto uno scarto di produzione del -3% contro il -8,3% secondo l’ipotesi di stabilità della crescita potenziale. Il deficit strutturale secondo la Commissione è dunque del -2,9%, richiedendo dunque un aggiustamento dei conti pubblici considerevole, di 2,4 punti di Pil. Secondo le nostre stime, il deficit strutturale non è che del -0,3%, dunque al di sotto della soglia fatidica dello 0,5%: non c’è bisogno di austerità (ricordiamo che un deficit dell’ordine del 2,4% del Pil è sufficiente a stabilizzare il debito pubblico o ad assicurare che il deficit non finanzi che gli investimenti).
Altro errore molto grave: la Commissione ha rivisto fortemente le proprie stime passate in funzione dell’evoluzione del ciclo economico. Così, nella primavera del 2008, ha ritenuto che lo scarto fra produzione reale e produzione potenziale della zona euro nel 2006 fosse del -0,2%: oggi essa valuta questo scarto a +1,4%. In base a ciò, secondo l’attuale valutazione, la zona euro si sarebbe riscaldata nel 2006, con un Pil maggiore dell’1,4%, dunque inflazionista. Per la Francia, la stima è passata dallo stesso -0,2% a +2,3%. Ugualmente strano che, nel 2008, il tasso di crescita potenziale stimato nella zona euro fosse dell’1,9% per il 2009; ed esso sia caduto allo 0,9% di oggi (sempre per lo stesso 2009!).
Nel 2007, la Francia ha avuto un tasso di disoccupazione dell’8,4% e non vi è stata alcuna tensione inflazionista. La Commissione ha valutato che la Francia ha sforato solo dello 0,3% la propria capacità di produzione. Questo è già più che contestabile, dal momento che sembrava ritenere che il tasso di disoccupazione dell’8% fosse incomprimibile. Ma che dire allora due anni più tardi, quando la Commissione, rivedendo i propri calcoli, ha ritenuto che la Francia fosse di fatto del 2,8% al di sopra del livello potenziale di produzione, dunque in piena accelerazione inflazionista! Secondo le farneticazioni della Commissione, quell’anno il tasso di disoccupazione di equilibrio (che impedisce l’accelerazione dell’inflazione) sarebbe stato del 12,4%.
La stima è estremamente fragile per gli ultimi anni, l’anno
in corso e gli anni a venire. Ora, questi sono quelli che dovrebbero essere utilizzati per attuare la politica fiscale. La Commissione può condannare un paese sulla base di una determinata stima e, due anni più tardi, una volta rivista la stima, ritenere la condanna ingiustificata (o il contrario).
La conclusione è semplice: tutte queste incertezze rimettono in discussione il concetto di crescita potenziale e ridicolizzano l’idea stessa di inserire il concetto di deficit strutturale all’interno di un trattato o della Costituzione. Le valutazioni della crescita potenziale, secondo la Commissione, rischiano di autorealizzarsi se, quando la crescita è maggiore dell’1%, vengono attuate politiche restrittive per paura dell’inflazione!

APPENDICE 2.
DAL PATTO DI STABILITÀ AL TRATTATO
PER LA STABILITÀ, IL COORDINAMENTO
E LA GOVERNANCE: UN RIASSUNTO STORICO

Il Sistema monetario europeo, che ha funzionato dal 1979 al 2009, è stato caratterizzato dal predominio della Germania. La Bundesbank ha fissato la propria politica monetaria in funzione della situazione della Germania, e gli altri paesi sono stati obbligati a seguirla. All’indomani della caduta del Muro di Berlino, François Mitterrand ottenne dai dirigenti tedeschi l’attuazione di una moneta unica, l’euro. Ma la Germania non avrebbe accettato che questa moneta fosse creata se non nel rispetto dei principi dell’ordoliberismo, cioè la concorrenza come regola suprema e la neutralizzazione del potere pubblico sulle decisioni economiche. I neoliberisti hanno così approfittato del peso della Germania per imporre un Trattato di Maastricht conforme alle loro richieste.
I tre pilastri del progetto ordoliberista di costruzione europea sono: una Banca centrale indipendente, con l’unico obiettivo della stabilità dei prezzi; delle politiche fiscali automatiche, vincolate da stringenti regole di equilibrio fiscale; riforme strutturali volte a liberalizzare i mercati dei beni, a deregolamentare i mercati finanziari e ad alleggerire il più possibile il diritto del lavoro.

1° pilastro: l’indipendenza della Bce

Secondo il Trattato di Maastricht, la Banca centrale europea è indipendente dai governi. Il suo «obiettivo principale è di mantenere la stabilità dei prezzi. Nella misura in cui questo obiettivo non è rimesso in discussione, essa apporta il proprio sostegno alle politiche economiche generali dell’Unione. Essa agisce conformemente al principio di un’economia di mercato aperta, dove la concorrenza è libera». L’indipendenza le permette di non doversi occupare della crescita o dell’occupazione e concentrarsi nella lotta contro l’inflazione. Di fatto, secondo la versione neoliberista del suo ruolo, la Banca centrale dovrebbe convincere i lavoratori che non esiterà a provocare disoccupazione se essi otterranno aumenti salariali eccessivi, rassegnandoli di fatto alla stagnazione salariale.
Il trattato precisa che «la Bce e le banche centrali nazionali non hanno il diritto di finanziare direttamente gli stati». «La Bce definisce e adotta la politica monetaria dell’Unione, conduce le operazioni di cambio, detiene e gestisce le riserve valutarie, garantisce il buon funzionamento dei sistemi di pagamento». Essa non ha solamente la responsabilità di adottare la politica monetaria dell’Unione, ma anche quella di definirla. Come titolare della politica monetaria, la Bce avrebbe potuto avere istruzioni precise in materia d’inflazione, nella scelta fra inflazione e produzione, istruzioni rivedibili attraverso una concertazione fra Consiglio, Commissione o Parlamento. Ma questa scelta non è stata fatta.
L’obiettivo della stabilità dei prezzi è dunque definito dalla stessa Bce. È la stabilità dei prezzi, misurata dall’indice dei prezzi al consumo armonizzato (Ipca) per la zona euro, la cui progressione su un anno deve essere inferiore al 2%. È un obiettivo di medio termine. La Bce riconosce che non può controllare la volatilità dei prezzi nel brevissimo periodo. Tuttavia, non indica chiaramente che essa non guarda nient’altro che l’indicatore dell’inflazione sottostante (senza tener conto delle modifiche di prezzo delle materie prime).
L’euro fluttua liberamente. Il trattato precisa che «il Consiglio, su raccomandazione della Commissione, può formulare orientamenti generali di politica di cambio rispetto a monete non comunitarie. Questi orientamenti devono rispettare l’indipendenza della Bce e non minacciare la stabilità dei prezzi». Di fatto, il Consiglio non ha mai dato istruzioni alla Bce in materia di politica di cambio.
La Bce è gestita da un Consiglio di Governatori che comprende un presidente, un vicepresidente, quattro membri «la cui autorità ed esperienza professionale nel campo monetario e bancario sono riconosciute», nominati dal Consiglio a seguito della consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio dei Governatori delle Banche centrali nazionali.
Nella misura in cui il ruolo della Bce non è di gestire il settore monetario e bancario, ma di effettuare una gestione macroeconomica, una scelta fra inflazione e occupazione, si può rimpiangere che non vi siano né sindacalisti né uomini politici. Ciò dà alla Bce una prospettiva cieca.
Questa organizzazione pone numerosi problemi, che sono progressivamente comparsi a partire dal 1999:
• Non permette una strategia coordinata fra politica monetaria e fiscale.
• La Bce non è responsabile della supervisione del sistema bancario o finanziario, che avviene nel rispetto delle norme nazionali. Così, ossessionata dall’inflazione, la Bce non è preoccupata dei rischi derivanti dalla deregolamentazione finanziaria e delle bolle finanziarie.
• Una politica monetaria comune in termini di tassi d’interesse e di tasso di cambio non può convenire a paesi il cui tasso di interesse e la cui inflazione sono estremamente differenti.
• Nessun meccanismo di aggiustamento dei saldi esterni è previsto. Per esempio, sino al 2008 i paesi del centro hanno potuto accumulare eccedenze, mentre i paesi periferici solo deficit.
• Il trattato precisa chiaramente che l’Ue non è responsabile dei debiti pubblici degli stati membri e che non esiste alcuna solidarietà finanziaria fra essi. Tenendo conto del divieto per la Bce di finanziare gli stati, la capacità di questi nel finanziarsi diventa problematica. I mercati finanziari si sono accorti di ciò all’inizio del 2009.

2° pilastro: il Patto di stabilità e crescita

L’altra ossessione dei firmatari del Trattato di Maastricht è stata quella di controllare le politiche di bilancio. La tesi sostenuta è stata che un paese che avesse praticato politiche troppo espansive avrebbe causato un aumento dell’inflazione (cui sarebbe seguito un incremento dei tassi d’interesse) e un aumento del disavanzo esterno e, dunque, una modifica del valore dell’euro. Tuttavia, il collegamento fra deficit pubblico e il carattere «troppo espansivo» della politica economica non è evidente: un paese in condizione di depressione economica necessita di un certo disavanzo per sostenere le proprie attività; non interferisce sui propri partner, ma al contrario può evitare che la depressione si propaghi verso di loro.
Un paese può conoscere una forte inflazione e un forte deficit esterno anche senza deficit pubblico come, per esempio, nel caso di una bolla immobiliare.
Diversamente, nessuna sanzione è prevista per quei paesi che praticano una politica troppo restrittiva, provocando una riduzione delle attività e un aumento del deficit esterno dei propri partner.
Nel giugno del 1997, i paesi hanno adottato il Patto di stabilità e crescita (Psc), il quale comporta tre importanti impegni:
• Divieto di disavanzi pubblici superiori al 3% del Pil; questo limite si applica al saldo corrente (non corretto per le fluttuazioni cicliche). Questo limite è l’unico soggetto a sanzioni in caso di mancato rispetto: la Procedura per deficit eccessivi (Pde) obbligava il paese in «difetto» a intraprendere una politica di restrizione fiscale e a rendere conto delle sue decisioni in materia di spesa alla Commissione e al Consiglio e infine, eventualmente, a pagare un’ammenda.
• Divieto di un debito pubblico superiore al 60% del Pil. Superato questo limite, i paesi in «difetto» dovevano avviare delle politiche correttive.
• Ciascun paese doveva presentare, alla fine dell’anno, un Programma di stabilità (il bilancio approvato per l’anno n+1 e una proiezione per gli anni da n+2 a n+4), con l’obiettivo di raggiungere una posizione fiscale «strutturale» in modo da chiudere in equilibrio nel medio termine. Se il saldo strutturale risulta in disavanzo, esso deve essere ridotto di almeno lo 0,5% del Pil all’anno. Una volta raggiunto l’equilibrio, i paesi devono impegnarsi a mantenerlo. Era prevista la possibilità di lasciar fluttuare i saldi in funzione della congiuntura (cosiddetti stabilizzatori automatici), ma non potevano adottare misure discrezionali per sostenere l’attività economica.
Queste regole non hanno alcuna giustificazione economica: le cifre del 3% e del 60% sono totalmente arbitrarie così come l’obiettivo del pareggio di bilancio nel medio periodo. Non è possibile che un paese fissi la propria politica fiscale per i quattro anni a venire senza tener conto dell’evoluzione congiunturale.
Il Psc non è un processo di coordinamento delle politiche fiscali nazionali, poiché impone regole arbitrarie senza tener conto della situazione congiunturale della zona e di ciascuno degli stati membri.
A partire dalla crisi economica del 2001, il Psc ha così creato delle costanti tensioni in Europa. I paesi membri necessitavano di un certo deficit per sostenere le proprie attività, mentre la Commissione ne imponeva il divieto. Nel 2005, cinque dei dodici paesi della zona avevano un deficit superiore al 3% del Pil: la Grecia (entrata modificando i dati, non è mai riuscita a portare il deficit al di sotto del 3%), la Germania e l’Italia (cinque anni sopra il 3%, dal 2001 al 2005), il Portogallo e la Francia (quattro anni al di sopra del 3%).
Queste difficoltà hanno portato a continue riforme del patto. Nel luglio 2011, i paesi hanno accettato di darsi un obiettivo di equilibrio del saldo strutturale a medio termine; una volta raggiunto, si dovrebbero lasciar giocare gli stabilizzatori automatici senza praticare alcuna politica discrezionale. Così, la politica fiscale sarebbe diventata automatica, i governi...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Introduzione. Perché un nuovo trattato?
  3. PRIMA PARTE
  4. SECONDA PARTE
  5. TERZA PARTE
  6. QUARTA PARTE
  7. Conclusioni
  8. APPENDICI
  9. Postfazione. La cieca obbedienza d’Italia di Guglielmo Ragozzino