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Tra spavaldo e fatalista
profilo bio-bibliografico
La città di nascita è Pola. Ma è solo un dato biografico accidentale. Suo padre, Tomaso, è un capitano di fanteria che si trova di stanza lì. Sua madre, Maddalena Berzia, è figlia di un pasticciere di Bra e a Bra i due si erano conosciuti e sposati. È il 27 gennaio del 1927, un giovedì, l’Istria è una provincia italiana. Giovanni Arpino viene alla luce dall’altro lato dell’Adriatico, ma non ne conserverà nessuna memoria. A Pola non resta più di qualche mese. Chiamato, alla fine della guerra, a scegliere la cittadinanza jugoslava, la rifiuterà sentendosi un «piemontese a tutti gli effetti».
Ma la sua infanzia è piena di spostamenti. La famiglia segue gli incarichi del padre, che impone a lui e ai suoi due fratelli un’educazione rigida e severa, secondo la disciplina militare. Giovanni cresce «tra bauli e vagoni e caserme». I treni gli diventano familiari, e torneranno come un motivo ricorrente in molti suoi romanzi. Novi Ligure, poi Saluzzo, elementari e ginnasio a Piacenza. Arpino è un lucignolo troppo alto e grosso che si sente ridicolo vestito da balilla e per tutta la vita continuerà a provare verso ogni divisa o gerarchia un senso di grottesco e di fastidio («Tenevo il cappotto perché mi vergognavo ad andare in giro a gambe nude»).
Nel 1940, alla morte del nonno materno, il piemontese solido vicino alla terra e patriarca leggendario di cui Giovanni porta il nome, che da giovane si era imbarcato per Buenos Aires e poi aveva fatto fortuna con il caffè di via Cavour («seguivo mio nonno come un destino assegnatomi»), sua madre ritorna a Bra per occuparsi dell’eredità familiare, stabilendosi nella villa in collina di famiglia, sopra il santuario della Madonna dei Fiori. Una villa grandissima: giardini, cortile, portico, e «un mezzo bosco, una vigna, una piantagione di prugne e di peschi». A Bra, dove già trascorreva le vacanze estive, Arpino si iscrive al liceo classico, mentre suo padre, dopo la tragica delusione dell’8 settembre, abbandona la vita militare e si ritira in una sorta di risentito esilio.
Sono gli anni della sua formazione. Giovanni si lega a un farmacista comunista, Cordero, lettore di classici e membro del CNL, e a un poeta e pittore stravagante e irregolare, Velso Mucci, collaboratore del Selvaggio e con un passato parigino e sorprendenti frequentazioni artistiche (Cardarelli, Ungaretti, Éluard, Tzara, Hikmet). Velso è il primo modello di una figura che tornerà spesso nella narrativa di Arpino, «bracconiere di personaggi»: quella del nottambulo, che passa il suo tempo nei bar e nelle osterie, a giocare a carte fino all’ora di chiusura e a parlare di letteratura e filosofia. Sarà anche il primo a cui sottoporrà i suoi scritti.
Inizia un periodo di grande fervore. La guerra è appena finita, la Repubblica è ancora una rivincita morale per gli ex partigiani delle Langhe, le serate braidesi sono inesauribili, come inesauribili sono le voci e i ricordi degli amici. In questa temperatura, la vocazione letteraria si manifesta con sempre più forza. Nel 1945, spinto dal padre, che lo vorrebbe notaio, Giovanni si iscrive a Giurisprudenza a Torino e per un anno fa il pendolare, ma l’anno successivo si è già trasferito nei corridoi di Palazzo Campana, sede della facoltà di Lettere. Il primo libro è una plaquette di versi di sapore classico e quasi religioso, pubblicata nel 1946 a proprie spese e con il doppio nome di Giovanni Salvatore presso la piccola casa editrice Esperia, con il titolo Dov’è la luce? Arpino ha soli diciannove anni.
Nel maggio del 1950 si concede una giovanile fuga a Genova. Prende alloggio in una pensioncina di via Prè, una topaia sporca e umida, con «un lavandino di fronte al letto da galera, una finestruccia sghemba che dava su un vicolo, una tenutaria in bigodini e vestaglia, arcigna come la notte dei lupi mannari». E qui, in venti giorni, su un’asse da lavare, mangiando due uova fritte in latteria, scrive il suo primo romanzo, Sei stato felice, Giovanni. È gonfio di letture e di suggestioni, l’Hemingway di Morte nel pomeriggio, Steinbeck, i russi, gli spagnoli picareschi della biblioteca del padre, Pavese, Vittorini e Moravia, ma la sua voce esce già definita, personalissima e indipendente. Il romanzo è una favola in bianco e nero che anticipa di poco i vitelloni di Fellini: vi cadono dentro l’eco della guerra appena passata, la vita maleodorante del porto, i contrabbandieri e le prostitute, i trucchi per sopravvivere, la città vecchia, le sigarette e l’alcol, un vago sentimento da reduci, la volontà di rimandare il proprio destino, gli amori irresponsabili della giovinezza e un misto di felicità e disperazione avventurosa e randagia che rende ogni giornata piena di un’esuberanza che non potrà più tornare.
Arpino corregge i fogli che ha riempito, li ricopia a macchina e li spedisce all’Einaudi. Intanto l’amore lo sorprende anche fuori dalle pagine. Lei si chiama Catterina Brero. È la figlia dei proprietari del caffè Garibaldi, ha quattro anni meno di lui e frequenta ancora il liceo classico. Giovanni prosegue l’università (trovandosi in ritardo, in una sola sessione sostiene diciassette esami, e la laurea arriva nel 1951: argomento della tesi, la poesia del russo Sergej Aleksandrovicˇ Esenin) e comincia a scriverle delle lettere, spavalde e fataliste come la sua indole. La chiama Rina, Rina bella, Rinin, Rinot... Le racconta del servizio militare che lo porta a Lecce e poi a Napoli, ma che lui soffre come un peso intollerabile, disattendendo di nuovo le aspirazioni del padre.
Ed è proprio all’inizio della leva che Italo Calvino gli comunica la decisione dell’Einaudi di pubblicare il suo primo romanzo. Calvino, in realtà, non è convinto del tutto, ma Sei stato felice, Giovanni per Vittorini è da stampare «senza esitazioni». Il libro viene così accolto nella collana dei Gettoni, con pochissimi ritocchi. In seguito, Arpino definirà così la natura del suo debutto: «Il mio gettone d’esordio è picaresco, anarchico, corsaro. Il suo sigillo è l’avventura, che s’innerva ovunque, in casa e fuori, sui terreni conosciuti a memoria e no, tutti permeabili alla sorpresa, al colpo di dadi».
Il 25 aprile del 1953 sposa Rina: resteranno insieme tutta la vita, e a lei Arpino tornerà sempre. Prendono casa alla periferia di Torino, nella borgata Leumann, un quartiere operaio. L’Einaudi gli offre una consulenza come lettore di manoscritti: Arpino la rifiuta, ma accetta di occuparsi delle vendite rateali della casa editrice in cambio di una paga modesta ma fissa. Inizia a viaggiare per l’Italia. Al tempo stesso, cominciano le prime collaborazioni giornalistiche: dapprima con Il Mondo di Pannunzio, poi, dal 1959 al 1961, con paese Sera.
Nel 1954 esce la sua seconda raccolta di versi: Barbaresco, nella collana Quaderni di Poesia diretta da Vittorio Sereni per le Edizioni della Meridiana. Barbaresco è il nome di un paese delle Langhe, ma anche di un vino, e l’ispirazione di questi versi, centrati sul mondo contadino e sulla guerra partigiana, è senz’altro pavesiana. Nel 1955 nasce Tomaso, suo figlio, e Arpino si cimenta con filastrocche, fiabe e ballate. Lavora da anni anche a dei racconti di provincia, il cui scenario è Bra, che sarebbero dovuti uscire nella Medusa di Mondadori col titolo Incanto e verità (non se ne farà nulla, e vedranno la luce soltanto postumi, nel 1989, nel volume Regina di cuoi). La terza raccolta di poesie, Il prezzo dell’oro, viene ospitata dalla collana Lo Specchio di Mondadori nel 1957 e ha un tono più personale, legato alle proprie memorie familiari e alla città di Torino.
Del 1958 è invece il suo secondo romanzo: Gli anni del giudizio. Arpino conosce Augusto Monti, il vecchio professore di liceo del Massimo d’Azeglio di Torino che aveva allevato una generazione (Pavese, Leone Ginzburg, Massimo Mila) e in due pomeriggi gli legge a voce alta il manoscritto, perché il professore ormai è quasi cieco. Monti ne dà subito un giudizio molto lusinghiero e a volume pubblicato ne scriverà una recensione sull’Unità. Dopo un contatto con Mondadori, il libro esce ancora con Einaudi, tra i Coralli. È il suo romanzo più politico. Ambientato tra Bra e Torino, racconta la grande disillusione della generazione della Resistenza attraverso lo smarrimento di un operaio comunista. La tensione disperata verso un nuovo mondo si scontra ora con la vita di tutti i giorni. La lingua si fa più attenta, la realtà più prepotente e immodificabile. Il perimetro degli ideali e delle utopie si restringe a una sfera domestica.
L’anno dopo, il 1959, è la volta di La suora giovane. Il romanzo è finalista allo Strega, entusiasma Montale e rende Arpino finalmente conosciuto al grande pubblico. Nella «luce congelata» di una Torino nebbiosa e invernale, che si sovrappone come una calcomania alla vicenda e al carattere dei personaggi con le sue vie che sembrano di vetro, un impiegato senza più illusioni, Antonio Mathis, all’uscita del lavoro incontra tutte le sere una novizia, Serena, alla fermata del tram 21. Lei è «immobile, minuta, nera», candida e insieme smaliziata; lui ingolfato nella monotonia delle sue giornate, «inerte e conformista», ripetitivo anche nel sesso senza amore che intrattiene con la fidanzata. La loro relazione, surreale e pudica, ha in sé, per entrambi, una possibilità scandalosa e tutto il libro è pervaso da questa dinamica ambiguità. Serena fa traballare l’ordine borghese e incolore della vita di Mathis, ma anche per lei il prendere i voti non è che una fuga disperata dalla campagna dove è nata e a cui è destinata. Il libro termina con un viaggio a Mondovì, descritto con una straordinaria maestria, in cui Mathis va a incontrare i genitori contadini della giovane suora. Il finale è lasciato al lettore.
Sempre nel 1959 esce Rafè e Micropiede, un libro per ragazzi su un bambino e una tartaruga elettronica che vanno in cerca del «posto dove si sta meglio», e nel 1960 Le mille e una Italia, un’altra storia di viaggio scritta per l’infanzia: un figlio parte dalla Sicilia per andare a incontrare il padre che sta lavorando al traforo del Monte Bianco.
Il quarto romanzo, nel 1961, segna il suo abbandono dell’Einaudi (Arpino è un narratore fuori dagli schemi, forse troppo esuberante e imprevedibile per via Biancamano: non ha la tessera di nessun partito e, come aveva capito da subito Vittorini, è dotato di «un’autonomia non comune»).
Con Un delitto d’onore passa a Mondadori e non vince lo Strega per un solo voto (il premio va a Ferito a morte di La Capria). È la storia di una vendetta tragica ambientata sotto il fascismo nella provincia di Avellino (un medico uccide la moglie dopo avere scoperto che non era vergine). Di nuovo è la dialettica tra le convenzioni borghesi e il tentativo di romperle a portare all’infelicità e persino all’omicidio. Anche qui è una ragazza, come la novizia della Suora giovane, a mettere tutto in discussione e ad affermare la sua voglia di vivere e di emanciparsi dalla propria sorte. Lo stesso anno Pietro Germi muta il soggetto in una commedia girando un film che ottiene un enorme successo, Divorzio all’italiana.
Nel 1962 esce Una nuvola d’ira e suscita diverse polemiche tra gli intellettuali di sinistra. Racconta, ancora in chiave tragica, un triangolo amoroso tra una giovane operaia e i suoi due uomini, il marito e l’amante, due proletari di temperamento opposto, oltre che di differenti età: l’uno introverso e disilluso, ex partigiano; l’altro esuberante e settario. Mentre si celebra il centenario dell’Unità, gli italiani cominciano a fare i conti con la fatale attrazione per i consumi. Molte delusioni si sovrappongono: quelle storiche (l’eco di un Risorgimento lontano quanto le sue commemorazioni e le lotte politiche recenti) e quelle private (i propri fallimenti sentimentali e nei rapporti personali). La seduzione del capitalismo e delle sue opportunità frastorna i personaggi, ma senza disinnescarne l’ira, la frustrazione, il risentimento. È il 1962: nello stesso anno esce La vita agra di Bianciardi, altra lucida, isolata e profetica testimonianza sulle illusioni del miracolo economico. Arpino viene bollato «di provincialismo operaio, di surrealismo periferico, di mistificazione dei grandi sentimenti di classe» dagli «strateghi di un sinistrese appena nato».
Nel 1963, a Bra, muore il colonnello Tomaso, padre di Arpino. Giovanni lo rievoca nel successivo romanzo L’ombra delle colline del 1964. È il suo libro più autobiografico, il suo memoir letterario, che oltre al rapporto con il padre, ritratto nei panni del colonnello Giacomo Illuminati, si incentra ancora sulle delusioni della storia, la lotta partigiana, la caduta del fascismo, il paesaggio delle Langhe e quello della città, l’amore per Laura detta Lu. E sull’inquietudine del protagonista, Stefano, sul suo impossibile viaggio di ritorno. È il libro della sua maturità, anche stilistica. L’ombra delle colline vince meritatamente il Premio Strega e questo successo gli consente di collaborare ai settimanali Epoca e L’Europeo.
Successivamente, con molto pudore, Arpino si sposta verso il fantastico e in Un’anima persa, del 1966, racconta la schizofrenia di Serafino Calandra, nome dal suono pirandelliano, che di giorno è il direttore della società del gas e di notte un avventuriero che passa le ore tra bische e caffè, giocandosi il patrimonio della moglie. I suoi personaggi continuano a sperimentare l’alienazione che li costringe a una canonica rispettabilità e il fascino di un’altra vita possibile e perturbatrice. La voce narrante è quella del nipote, approdato a Torino, nella villa degli zii, per prendere la maturità. E Torino, come nella Suora giovane, è di nuovo un fondale livido ed enigmatico, in cui vanno in scena la doppiezza e la disperazione della borghesia delle colline. Una città notturna che a Borges ricorderà la Buenos Aires più letteraria, facendo raccomandare Un’anima persa a una casa editrice argentina come una tipica storia portegna. Undici anni dopo, Dino Risi ne ricava un altro film (Anima persa), con Vittorio Gassman.
Seguono il terzo libro per ragazzi per Einaudi, L’assalto al treno, e due raccolte di racconti, La babbuina e altre storie (1967) e 27 racconti (1968). Arpino si cimenta pure con il teatro: scriverà in questi anni La riabilitazione, L’uomo del bluff, che dedica al suo amico Tino Buazzelli, e la commedia Donna amata dolcissima, scelta nel 1969 per inaugurare la stagione del Teatro Stabile di Torino.
Sempre nel 1969 avvia la sua decennale collaborazione con La Stampa, prevalentemente con la redazione sportiva (per lui, una par...