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Charlotte, modella trentacinquenne dalla carriera in lento declino, ma ancora inserita negli ambienti «in» di Manhattan, resta vittima di un rovinoso incidente stradale da cui esce viva, ma gravemente sfigurata; insieme al nuovo viso regalatole dalla chirurgia plastica deve costruirsi una nuova vita, e scoprirà che farlo nel mondo virtuale è più redditizio che in quello reale. Nel frattempo, nel paesino del Midwest di cui è originaria, una sua omonima, ancora adolescente, comincia una relazione con un insegnante di matematica di origini mediorientali che nasconde un pericoloso segreto. Un investigatore privato sulle tracce di un pr misteriosamente scomparso dalla scena notturna newyorkese farà sì che le storie delle due donne convergano.Guardami, finalista al National Book Award nel 2001, è un romanzo ambizioso e potente che all'epoca dell'uscita anticipava quasi profeticamente la catastrofe dell'11 settembre e l'avvento dei social network, e che a più di dieci anni di distanza resta una magnifica testimonianza delle doti letterarie della sua autrice.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788875214814
Argomento
Literatura
Categoria
Clásicos

SECONDA PARTE
LA STANZA DEGLI SPECCHI

10.

«Quello che devi capire, Charlotte – per favore, non prendertela», disse Victoria Knight, amica di Lily Cabron, la parrucchiera del servizio per Vogue Italia che avevo mandato a monte, «è che la tua non è una storia con cui uno riesce intrinsecamente a immedesimarsi. Cioè, la gran parte della gente penserebbe che sei stata fortunata anche solo ad aver fatto quella bella vita per vari anni. La sfida, per noi, consiste nell’aprire una porta sul tuo mondo interiore, in modo che la gente si immedesimi con te, faccia il tifo per te e sia disposta a spendere dei soldi per saperne di più sul tuo conto».
«Ho capito», dissi, il che non era del tutto vero.
Questo corso base di public relations a ora di pranzo era frutto di una mia durissima campagna, lanciata dieci giorni prima, in seguito al mio disastroso appuntamento e al fallito tentativo di suicidio. Ignorando il saggio consiglio di Mark, l’inquilino del piano di sotto di cui avevo interrotto il coito, la mattina dopo non avevo dormito fino a tardi, ma mi ero svegliata di buon’ora e messa a frugare nelle tasche e nella borsetta del giorno prima come cercando a tastoni tracce di vita sotto uno strato di ceneri fumanti. Volevo recuperare il biglietto da visita di Irene Maitlock, per un amorfo desiderio di contattare la giornalista, di scambiarci due parole. Ma non lo trovai. Quello che trovai fu invece il biglietto di Lily Cabron con il numero di telefono della sua amica, la presunta maga delle public relations, scribacchiato sul retro.
Chiamai Victoria Knight tre volte al giorno per quasi una settimana, solo per farmi rintuzzare da diverse segretarie che avevano la capacità di pronunciare la frase «È in riunione» come se fosse un insulto volgare. Ma io continuai a chiamarla (visto che avevo parecchio tempo libero). Era l’unica strada che mi restava, a parte una telefonata al New York Post in cerca di Irene Maitlock, su cui non avevo abbastanza informazioni – Uffici, piano terra, desk, personale o freelance?, abbaiò la centralinista – perché potessero rintracciarla.
E del resto, cos’era che volevo dirle?
Una sera, verso le dieci, trovai Victoria Knight al suo interno, con la voce stanca, e riuscii a buttarle lì, a grandi linee, la mia storia. A quel punto, con un’immediatezza che mi sembrò tanto arbitraria quanto l’ostinazione con cui fin lì mi aveva evitata, fissammo un appuntamento per pranzo.
«A meno che», stava proseguendo, «e secondo me questa è un’ipotesi che dovresti tenere in considerazione – a meno che non vogliamo far passare il tuo incidente come l’esito finale di una serie di comportamenti distruttivi, come per esempio l’alcolismo, o una relazione violenta, magari l’uso di droghe, o qualche trauma infantile da cui non ti sei mai liberata... Non voglio metterti io le parole in bocca, ma se riuscissimo a costruire la storia attorno all’idea di castigo e di redenzione, ecco, una cosa del genere potrebbe essere molto interessante. Non sottovalutare mai il fanatismo religioso degli americani: questo l’ho imparato quasi subito. Se vai in quella direzione, è come se stessi dicendo: Avevo tutto nel palmo della mano, ma l’ho sprecato e adesso non mi resta niente. Eppure, da questo disastro ho capito il senso della vita e ora posso rinascere».
«Beati i miti, perché erediteranno la terra», dissi.
«Esattamente», disse lei, e parve colpita.
Victoria Knight era una donna in miniatura (un metro e cinquantacinque, avrei detto a occhio), che gestiva la sua poco imponente persona con una verve talmente straordinaria da lasciarmi a bocca aperta. Sfidando spudoratamente la saggezza popolare, secondo cui bisognerebbe vestirsi in modo da controbilanciare i propri difetti, lei portava una gonna corta, una giacca stretta in vita da una cinta, calze fantasia e scarpe senza tacco, e tutto ciò metteva in mostra un delizioso fisico bonsai. E non ero l’unica che la guardava: nel furore dell’ora di pranzo al Judson Grill, dove l’aria profumava di rucola e di soldi, le sentivo molti occhi puntati addosso, intenti a stuzzicarla, a domandarsi, con un misto di curiosità antropologica e libidine, che aspetto doveva avere senza niente addosso. Il suo viso ovale non era particolarmente piccolo, ed era incorniciato da capelli castani lucidi tagliati pari. Aveva gli occhi azzurri come zaffiri (lenti a contatto colorate?) e una vistosa spruzzata di lentiggini sulle guance. Il labbro superiore si inarcava in due punte delicate. Ma la sua più grande forza, la cosa che già sapevo mi sarebbe rimasta impressa per sempre di lei, pur essendomici appena seduta a pranzo per la prima volta, era il suo semi-nanismo. In quel senso, era una réclame ambulante per le sue ragguardevoli doti di chirurgo della realtà.
Philippe, un francese di poche parole vestito di tweed, il cui ruolo nel nostro pranzo mi rimaneva ancora tutto da capire, stava prendendo freneticamente appunti. All’inizio pensai che fosse uno degli assistenti di Victoria, ma sembrava troppo grande di età, e non abbastanza azzimato. E aspettavamo da lì a poco una quarta persona. «Il mio amico Thomas Keene aveva un altro pranzo, ma cercherà di andarsene via prima per venire a conoscerti», aveva detto Victoria quando lei e Philippe erano arrivati. «Ha un progetto per le mani che secondo me potrebbe... ma vabbè, te lo spiegherà lui direttamente».
Progetto un corno, pensai: questo Thomas, chiunque fosse, stava cercando una scusa per entrare nelle grazie di Victoria (come tutti gli altri avventori del Judson Grill), per osservare la sua straordinaria anatomia a breve distanza.
Ordinammo il pranzo: rucola per tutti, dato che il potere della suggestione era troppo forte per resistere. Meditai sull’esistenza di un legame biologico fra il mangiare rucola e il guadagnare denaro: cos’altro poteva spiegare quella duratura influenza?
«Poi c’è il versante informativo», disse Victoria. «Ad esempio: su di te sono state usate nuove tecniche chirurgiche? Innovazioni particolari durante la cura e la convalescenza? In definitiva: sono state toccate nuove frontiere della scienza? Perché in quel caso è il genere di storia che potremmo proporre per un pezzo lungo, alle pagine scientifiche del Times, per dire».
«Forse stiamo puntando troppo in alto», risposi umilmente.
Victoria strinse gli occhi: evidentemente l’avevo offesa. «Non ne sarei così sicura».
Philippe alzò un dito, esitante. Se ne stava lì a orecchie aperte come un’altra persona poteva stare a braccia aperte, curvo sulla sedia con un’aria rilassata, quasi sonnolenta, che ricordava Jean-Paul Belmondo da giovane. Ma percepivo un briciolo di disperazione nei suoi occhi svegli, nel suo taglio di capelli irregolare: scarsità di soldi, pensai.
«In America le agenzie di comunicazione hanno molti poteri», mi disse, con l’accento legnoso di chi scriveva in inglese più spesso di quanto lo parlasse. «È questo l’argomento della mia ricerca».
«Philippe ci sta studiando mentre parliamo», disse Victoria rapidamente. «Fa un dottorato in scienze della comunicazione alla NYU, e sta scrivendo la tesi su... uhm...»
«Su di te», disse Philippe, e sorrise, sfoderando due file di denti anarchici europei.
Victoria arrossì. Intravidi la sua personalità ombra che sfuggiva alla pressione dell’ammiratore, zampettando via lateralmente come un granchio di mare, per il quale l’attenzione altrui può essere solo pericolosa. Ma fu un’apparizione momentanea, che venne risucchiata quasi subito nella corrente della sua poderosa personalità.
«Ad ogni modo», proseguì Victoria, dando un’occhiata al tafferuglio di rucola che il cameriere ci aveva depositato sul tavolo. «Insomma, c’è la versione Ho rovinato tutto mi dispiace. C’è la versione Grande passo avanti della scienza».
«Mi sa che nessuna delle due è del tutto vera», azzardai.
Victoria piegò la testa da un lato come se si stesse rendendo conto solo adesso che nell’incidente potevo aver riportato danni cerebrali. «Charlotte, la scelta spetta soltanto a te», disse lentamente, come se parlasse a una bambina. «In questo momento, agli occhi del mondo, tu sei una tabula rasa. Non esisti proprio. Ma una volta che ti sarai posizionata, farai una fatica bestiale a riposizionarti. Voglio che tu scelga una prima mossa che ti garantisca la massima visibilità possibile, e del tipo che vuoi».
Sopra i suoi occhi di zaffiro brillava una sottilissima patina d’oro. Era tosta, tostissima! Per tutti gli anni in cui avevo tormentato le donne timide e bruttine (di cui Irene Maitlock era solo un recente esempio), fustigandole perché si rifiutavano di prendere in mano la loro vita, tingersi i capelli, perdere tre chili e darsi una mossa, era Victoria Knight, o qualcuno di molto, molto simile a lei, che avevo in mente come pietra di paragone. Eppure non la potevo soffrire.
«Scusami», dissi. «Continua pure».
«Stavo anche pensando... mh, ok. Una sorta di versione Esaurimento nervoso. È il contrario di Ho rovinato tutto mi dispiace: in questo caso sarebbe: Fino a questa disgrazia, la mia vita era perfetta al cento per cento, e invece adesso guardate come cado a pezzi giorno per giorno mentre tento di fare i conti con questo disastro. Di nuovo, l’alcol e la droga potrebbero rientrare nel quadro, con te che cerchi di mantenere il controllo. Ma in realtà non hai sotto controllo un bel niente, la tua vita fa acqua da tutte le parti, lo sanno tutti tranne te!»
«Hmmm», dissi, sollevata per aver resistito alla tentazione di ordinare un martini. Stavo cercando disperatamente di bere meno, e nel frattempo di conservare la lucidità mentale e tenere alla larga la Disperazione, che temevo ogni giorno potesse resuscitare. Era un equilibrio difficile da mantenere.
Philippe scribacchiava come un pazzo sul suo taccuino. Ogni scenario descritto da Victoria lo vedevo atterrare nel guantone da baseball della sua faccia: inizialmente pietà; poi pietà; adesso pietà. Avrei voluto prenderlo a calci.
«E poi lo stile – questa sarebbe un’idea niente male – una sorta di diario, giorno per giorno, un incrocio fra Diario di una casalinga disperata e Alice: i giorni della droga. Chiamandolo, tipo: Senza volto: il mio viaggio nella follia. Ci dai un ritratto intimo, ma onnicomprensivo, della tua stessa disintegra... ah, guarda! Ecco Thomas!»
Un tipo alto, biondo e giovanile si stava facendo largo fra i campi di rucola in giacca Armani verde oliva, jeans neri e scarpe da basket Converse malconce, tenendo sollevata una valigetta che sembrava rivestita di pelle di coccodrillo. Capii immediatamente che un tempo era stato sovrappeso: si muoveva con la cauta deferenza di una persona grassa, anche se era magro, o quantomeno abbastanza alto da sembrarlo. Harvard, pensai. Cresciuto a Greenwich o qualcosa di simile, ma senza soldi veri alle spalle. Era uno di quei rari individui la cui personalità ombra – un ragazzino grasso e ansioso con una disperata smania di potere – era più pronunciata dell’apparenza esteriore (molto curato, piuttosto snello, in possesso di una certa quantità di potere – o quantomeno, di una valigetta di coccodrillo). Mi sbagliavo, però, riguardo al motivo per cui ci aveva raggiunti. Thomas Keene non era attratto da Victoria. Ne aveva paura. Ma ne aveva anche bisogno. Avevamo tutti bisogno di Victoria.
«Scusate se mi intrometto così», disse, scuotendo la testa, «ma Victoria ha cominciato a parlarmi di te, e sono rimasto piuttosto affascinato dalla tua storia».
«Speriamo che faccia lo stesso effetto a tanta altra gente», dissi in tono pimpante.
Arrivò il cameriere, e Thomas ordinò una San Pellegrino col limone.
«Voi due come vi conoscete?», chiesi.
«Dall’università», disse Thomas.
«Fammi indovinare», dissi. «Harvard».
«Berkeley, in realtà», disse Victoria.
Avrò fatto un’espressione di disappunto, perché Thomas intervenne dicendo: «Oh, comunque anche Berkeley è un’ottima scuola», e dovetti rassicurare entrambi che non avevo nulla contro l’università dove si erano laureati.
«Pensavo che foste della East Coast», spiegai, anche se in realtà non sarei stata in grado di azzardare nessuna ipotesi sulle origini di Victoria, tanta era la sua purezza. Non si poteva fare a meno di ammirarla.
«Invece siamo figli di Berkeley», disse Thomas. «Mia madre lavora nell’amministrazione, e il padre di Victoria insegna».
«Logica», disse lei, alzando gli occhi al cielo come se l’idea stessa fosse ridicola. «Scusate, devo fare un attimo una telefonata in ufficio». Si frugò nella borsa alla ricerca del cellulare e si alzò, arrivando a qualche centimetro in meno di altezza rispetto a Thomas da seduto.
Arrivarono i secondi, e mentre attaccavo il salmone grigliato Thomas trovò il modo di descrivermi un servizio che stava creando su internet, chiamato Persone Comuni.
«Non è una rivista; è un database», disse. «Si tratta di questo: sto comprando diri...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. PRIMA PARTE
  3. SECONDA PARTE
  4. TERZA PARTE
  5. Postfazione dell'autrice.