Quando ero piccola leggevo libri
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Non tutti sanno che tra Le cure domestiche, il romanzo di esordio con il quale Marilynne Robinson divenne una celebrità negli Stati Uniti, e Gilead, la sua seconda opera narrativa, premiata con il Pulitzer e primo capitolo di una magnifica trilogia completata da Casa e Lila, sono trascorsi ben ventotto anni: dal 1980 al 2008. E non tutti sanno che in questo trentennio o poco meno la Robinson, ben lungi dal rimanere inattiva, si è cimentata ripetutamente con il genere saggistico, regalando ai suoi lettori una serie ininterrotta di perle.Spaziando dalla meditazione teologica a riflessioni illuminanti sulla letteratura, dal ricordo autobiografico alla disamina di un'intera nazione e delle sue trasformazioni, i saggi di Quando ero piccola leggevo libri affrontano da un'angolazione nuova e complementare i grandi temi che sono al centro della sua narrativa - il clima politico e sociale degli Stati Uniti, la centralità della fede religiosa e la generosità di sguardo che ne deriva, la natura dell'individualismo americano e il mito del West - e compongono il ritratto intimo e ricco di sfaccettature di un'autrice che è considerata un vero e proprio classico contemporaneo.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788875219567
Argomento
Literature

/
Il destino delle idee: Mosè

Ultimamente c’è una gran profusione di libri dall’apparenza accademica sulla Bibbia. Anche se sembrano prendere le mosse da opere più tradizionali su questo argomento venerabile, per il loro tono sussiegoso nei confronti dei versetti e delle parti narrative, della cultura che li ha prodotti, o nei confronti di Dio, questi libri in effetti portano avanti, sebbene involontariamente, una tradizione che è tanto lunga quanto sgradevole.
Per motivi culturali siamo predisposti a proteggere le critiche dalle critiche; custodiamo gli iconoclasti come reliquie. Se la nostra sensibilità registra il minimo shock, o se immaginiamo che il pubblico potrebbe seccarsi parecchio, o perfino se pensiamo di cogliere in un autore la sincera speranza di seccare o di offendere noi o il nostro prossimo, allora il suo libro viene incensato come un tentativo lodevole ed esentato dal genere di attenzione che potrebbe mettere in dubbio la sua originalità o il suo merito effettivi.
L’intenzione che sottende questi libri sembra semplicemente quella comune in questo preciso momento, ossia di screditare biasimando. È lo scopo e il metodo di molta erudizione contemporanea. La smitizzazione esaurisce i suoi argomenti, che devono conservare qualche avanzo di rispettabilità per dare un senso, o almeno un brivido di piacere, all’impresa. E poiché la Bibbia è ancora circonfusa da una certa aura di sacralità, offre la speranza che l’opera di screditamento non sia finita, e perciò resta un argomento attraente. Il valore di questo progetto critico in generale non ha molta importanza. Ma come metodo d’approccio alla Bibbia attira l’attenzione su questioni di altissimo livello, nel riprodurre in forme esagerate atteggiamenti che hanno inciso sulla lettura di questi testi per secoli.
Questi problemi gravi e interessanti sorgono a causa della particolare storia della Bibbia e delle polemiche che l’hanno sempre circondata. Più nello specifico, derivano dal rapporto tanto complesso quanto scomodo tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Si tratta di un aspetto importante del problema degli atteggiamenti cristiani verso il giudaismo. (Prenderò in esame l’Antico Testamento invece della Bibbia ebraica perché hanno storie culturali molto diverse; l’ordine dei libri non è lo stesso, l’ebraico e l’aramaico incombono intorno a quest’ultima in svariate forme, mentre le traduzioni in latino e in vernacolo hanno condizionato moltissimo la lettura della prima, e così via.) Per la maggior parte della storia del cristianesimo considerare l’Antico Testamento rigido, arretrato, molto inferiore ai Vangeli è stato ortodosso. Questo errore non è mai stato rettificato veramente. L’Antico Testamento è molto difficile da leggere, e a quanto pare le chiese fanno ben poco per rendere accessibili i suoi passi più ostici, perciò è conosciuto soprattutto di fama, e la sua fama è sconfortante. In genere è considerato un’epopea tribale contenente un compendio di strane leggi e di divieti spietati che Gesù di Nazareth accantonò quando instaurò la supremazia della grazia.
Poiché i suoi profeti e poeti possono essere letti come testi che sembrano promettere la venuta del Messia cristiano, e poiché i Vangeli e le Epistole alludono apertamente a Adamo, a Mosè e ad Abramo, non si può negare l’importanza dell’Antico Testamento. Eppure il cristianesimo è stato incline a definirsi tramite la denigrazione implicita o esplicita dell’Antico Testamento. È difficile sopravvalutare la sgradevolezza dell’atto di appropriarsi della letteratura sacra di un’altra religione per farne un uso del genere. Peggio ancora, laddove il cristianesimo stesso è stato respinto, non di rado è l’Antico Testamento a essere il più colpito dalla denigrazione, mentre Gesù è stato risparmiato per via del pathos e dell’innocuità. Queste abitudini deprecabili sono visibilmente all’opera nella maggior parte di questi nuovi libri. Le conseguenze storiche di un siffatto modo di ragionare impediscono che le prove impressionanti del suo persistente vigore passino inosservate.
Il vescovo episcopaliano John Shelby Spong ha pubblicato un libro dal titolo Why Christanity Must Change or Die (1998).* Fra gli ecclesiastici è opinione diffusa che ci sia un bisogno urgente di grandi modifiche istituzionali e dottrinali per portare la fede al passo con i cambiamenti che si sono già verificati nella cultura. Può darsi che il vescovo Spong sia più schietto di altri, poiché sostiene la necessità di accantonare i Dieci Comandamenti in quanto «questo presunto codice divino è stato abbandonato ovunque sia diventato scomodo». Ad esempio, a proposito delle immagini scolpite, «le nostre chiese ne sono piene, dalle croci ai crocifissi ai tabernacoli agli armadi alle icone alle stazioni della via crucis. Perciò, il comandamento che vieta gli idoli è diventato inattuale».1 Ecco un esempio della strana ristrettezza del suo pensiero. In tantissime chiese non c’è nessuno di questi oggetti, fatta o non fatta eccezione per le croci, proprio per riguardo verso quel comandamento. E ci sono, inutile che lo dica, templi e sinagoghe dove il comandamento stesso viene osservato con il massimo scrupolo.
Forse la santità della legge divina si fonda davvero sul suo adeguamento alla pratica episcopaliana. Lo scopriremo tutti quando squillerà la tromba del giudizio. Nel frattempo, una questione che possiamo utilmente porre è quella sollevata dai termini con cui il vescovo respinge i dieci comandamenti e la Torah, ossia, i primi cinque libri dell’Antico Testamento. Scrive: «Questa mitologia di una fonte divina dell’etica fatta rispettare dall’onniveggente Dio [...] è stata rivelata dagli stessi codici antichi come un’assurdità bell’e buona. Uno studio attento di questi codici rivela nientemeno [probabilmente intende “nient’altro”] che i pregiudizi, gli stereotipi tribali e una conoscenza limitata del popolo che li creò. Questo è senz’altro vero per la Torah e ancora di più per i dieci comandamenti».2 Per qualsiasi lettore imparziale quest’affermazione sembrerebbe una mancanza di rispetto sfacciata e meschina nei confronti di un’altra religione, se non fosse vero che queste adoratissime scritture ebraiche noi cristiani le rubammo letteralmente, acquisendo perfino il diritto – o l’obbligo, forse! – di considerarle con disprezzo. Sicuramente non sono l’unica a pensare che ci troviamo di fronte a un errore madornale.
A voler essere giusti, anche il cristianesimo soffre moltissimo per mano del vescovo Spong, benché forse lui non ne sia completamente consapevole. Fa un resoconto, con sicurezza tutta episcopaliana, di ciò a cui credono i cristiani, e io, che da molto tempo rispondo a questa definizione, lo leggo con sincero stupore. A suo vedere, le nostre ipotesi riguardo Dio si fondano sul concetto di un universo costituito da tre ordini: sopra il cielo, sotto l’inferno, e in mezzo una Terra piatta. Dio, assiso sul trono in cielo, può guardare tutti noi giù dabbasso e tenersi aggiornato sulle nostre faccende. Le informazioni, a quanto pare, sono tratte dall’Antico Testamento. Ma la scienza, ci informa il vescovo, ha dimostrato che la Terra è sferica! E che lo spazio è vuoto! La sua ricerca delle implicazioni di questa sfericità «spacca-miti», di recente riconosciuta come una caratteristica del nostro pianeta, è eroica. Come spiega, riduce l’ascensione di Cristo a un’assurdità: «Quando gli abitanti della Cina e degli Stati Uniti indicano verso l’alto, indicano in due direzioni diametralmente opposte. “Su” è un’immagine spaziale. Riflette la congettura che la Terra piatta sia il centro dell’universo e, in quanto tale, è incomprensibile per la mente moderna».3 È sbalorditivo che noi postcopernicani riusciamo addirittura a scendere dal letto. Ma, continua il vescovo Spong: «Oggi, se una persona potesse salire da questa Terra in una traiettoria ascensionale [la traiettoria migliore, certo, se si vuole riuscire a salire] allontanandosi a sufficienza, non arriverebbe in cielo ma descriverebbe piuttosto un’orbita o, se si sottraesse alla forza gravitazionale della Terra, si inoltrerebbe negli infiniti abissi dello spazio». A questo punto mi sento in dovere di fare appello alla bontà dei miei lettori non cristiani e postcristiani. Per quel che concerne tutte le ipotetiche questioni di fede di questo tenore, credetemi, a quanto mi è dato sapere, il vescovo parla per sé.
Tuttavia, in questo libro viene trattata una questione di grandissima importanza. Il vescovo Spong salva Gesù non solo dall’arcaismo concettuale che a suo avviso distorce il significato del Nuovo Testamento e dei Credo ma anche, fatto assai inquietante, dal primitivismo morale ed etico che riscontra nell’Antico Testamento. Il Dio di Spong è il Fondamento dell’Essere, e il suo Gesù una realizzazione della vita, dell’amore, e della completezza, che ci chiama «a essere tutto quello che possiamo essere». Finalmente il cristianesimo può deporre la sua croce. Perché, come nota il vescovo – e chi lo metterebbe in dubbio? – «un padre umano che inchiodasse il figlio a una croce, quale che ne sia il motivo, verrebbe arrestato per maltrattamenti su un minore».4 Perché mi sento obbligata a rimarcare che Gesù aveva trentatré anni?
È assolutamente opportuno che i cristiani vengano a patti, quali che siano, con le difficoltà della loro personale narrazione sacra, la loro personale mitopoiesi. Ma l’Antico Testamento è tutta un’altra questione. Non appartiene ai cristiani nello stesso senso, e se si rifiutano di riconoscere i suoi termini, o di prestargli una rispettosa attenzione, allora non gli appartiene in alcun senso. Quando il vescovo Spong afferma: «Si riteneva che il Dio dei giudei delle scritture ebraiche odiasse tutti quelli che il popolo d’Israele odiava»,5 non espone alcuna prova della veridicità di questa sua affermazione fortemente negativa. Si presume che Israele e «il Dio dei giudei» siano entrambi dediti all’odio, mentre due grandi figure esemplari di giustizia e di clemenza dell’Antico Testamento, Giobbe e Ruth, non sono ebrei, ma in effetti rispettivamente edomita e moabita, due popoli disprezzati, se c’è da credere a quel che si dice sul gretto tribalismo delle scritture ebraiche. Giona è mandato a salvare la terrificante Ninive, una grande città nemica, cui il «Dio dei giudei» tiene e che si affanna a risparmiare. Comunque si possa leggere un passo o l’altro, l’Antico Testamento contiene parecchie prove inequivocabili di un universalismo straordinario che smentiscono questa caratterizzazione ostile delle scritture ebraiche. Altrove il vescovo sostiene che Gesù «viveva in un mondo in cui erano tracciate barriere culturali che definivano le donne esseri subumani e i bambini indegni dell’attenzione di Dio».6 Non cita alcuna prova della veridicità di questa affermazione e, forse per coincidenza, la Bibbia non ne contiene.
Se si desidera un Dio che non presenti difficoltà né avanzi pretese, bisogna senz’altro respingere l’Antico Testamento. Ma respingerlo è una cosa, e condannarlo pubblicamente un’altra. I cristiani non hanno alcuna necessità di condannare pubblicamente l’Antico Testamento, perché ci basta metterlo rispettosamente da parte, come farebbe un metodista con il Libro di Mormon, come farebbe un ebreo con il Nuovo Testamento. L’Antico Testamento non ci appartiene certo per metterlo in una falsa luce, poiché così facendo diffameremmo la cultura da cui lo abbiamo preso, una nostra vecchia e pessima abitudine. Dato che a quanto pare Friedrich Nietzsche figura in ogni programma di studi, incrollabilmente canonizzato nonostante tutta la sua insensibilità, la sua bianchezza e la sua mascolinità, mi basta menzionare la sua nota teoria secondo la quale il giudeo-cristianesimo fu imposto agli europei dagli ebrei vendicativi.7 Non ho mai visto nessun altro azzardarsi a riflettere sul perché siamo arrivati a considerarci vittimizzati per aver fatto un uso inappropriato delle scritture altrui. Eppure, questo senso di vittimizzazione è ovunque, in alcuni di questi libri si avanza addirittura l’idea che l’Antico Testamento ci abbia predisposti al genocidio.
Dopo secoli di oblio e di repressione, l’Antico Testamento divenne un testo molto studiato e devotamente tradotto all’epoca della Riforma. La sua bellezza premiò l’attenzione degli umanisti cristiani e fu l’occasione per l’affermazione definitiva di lingue moderne quali l’inglese e il tedesco in quanto lingue letterarie. L’importanza religiosa attribuitagli e il metodo con cui fu interpretato variavano a seconda degli ambienti teologici. Tuttavia, non è mai stato affrontato giustamente né valutato a dovere da nessuna delle principali tradizioni cristiane, passate o presenti.
Nella sua Utopia, Tommaso Moro, lo statista ed erudito del sedicesimo secolo, nota un punto particolare in cui il regime dell’Inghilterra cristiana si differenzia marcatamente dalle leggi fissate da Mosè. I ladri inglesi venivano impiccati in massa, a volte in venti per forca, mentre «da ultimo, la legge mosaica, per quanto ferocemente spietata, per essere stata fatta contro schiavi e schiavi cocciuti, punisce il furto con un’ammenda, non con la morte [corsivo mio]. Bisogna dunque credere che Dio, nella sua nuova legge di bontà, per cui comanda qual padre a figli, non ci abbia voluto lasciare maggior libertà di infierire gli uni contro gli altri».8 Moro scrisse il suo libro in latino, e gli eruditi non potevano essere impiccati (se erano maschi) – questo è il vero significato dell’espressione privilegium clericale – perciò coloro che avrebbero avuto un interesse urgente a conoscere le sue idee non sarebbero stati tra i suoi lettori. Ma qui viene espresso un concetto di fondamentale importanza, che emerge di rado e che, se fossimo sinceri, ci costringerebbe a riflettere su parecchie cose.
In effetti, Mosè (e con lui intendo l’ethos e lo spirito della legge mosaica, in qualsiasi modo le capitò di essere formulata) non autorizza alcuna pena corporale per i reati contro la proprietà. Tutta la storia economica e sociale della cristianità avrebbe preso tutto un altro corso se Mosè fosse stato ascoltato soltanto per quest’unico particolare. È difficile immaginare che nel feudalesimo, per non parlare del primo capitalismo, si osservasse un simile provvedimento per tutelare i diritti di proprietà. Chiunque abbia familiarità con la storia europea è a conoscenza dello zelo dedicato ai castighi più brutali, la tremenda ingegnosità con cui il corpo umano veniva torturato e oltraggiato almeno sino alla fine del diciottesimo secolo, in molti casi per dissuadere i miserabili dal rubare. Mosè non autorizza niente del genere, né tantomeno approva alcuna forma di oppressione nei confronti dei poveri. Moro è assolutamente convenzionale, come sarebbe tuttora, nel definire «spietata» la legge di Mosè in confronto al governo misericordioso di Cristo. Ma come avrebbe potuto l’Europa essere cristianizzata più efficacemente – capite bene il senso in cui utilizzo questo termine – che tramite l’osservanza di queste leggi mosaiche? Anche ammettendo la severità del codice di santità della Torah, va detto che regge bene il confronto con le leggi riguardanti le questioni religiose nell’Inghilterra di Tommaso Moro. Lo stesso Moro chiese il rogo per il grande William Tyndale, tra i primi traduttori della Bibbia in inglese, che in effetti fu arso vivo. Si dice spesso che gli europei appresero l’intolleranza religiosa dall’Antico Testamento. Allora come mai abbiamo saltato le parti in cui le leggi tutelano i poveri e provvedono ai loro bisogni, e vietano con estrema ferocia di opprimerli? È senza dubbio disonesto lasciar intendere che abbiamo appreso una cosa qualsiasi dalla Torah, se non ne abbiamo appreso nulla di buono. Meglio dire che i vizi sono i nostri, anziché cercare di discolparci sottintendendo che ci siamo distratti durante i passi compassionevoli e visionari. La legge di Mosè eclissa la teologia della liberazione nella sua appassionata lealtà verso i poveri. Perché ancora non lo sappiamo?
Utopia descrive le conseguenze della spaventosa politica di sgomberi e recinzioni, che fu portata avanti per secoli, scacciando i poveri dalle campagne inglesi:
In quelle parti infatti del reame dove nasce una lana più fine e perciò più preziosa, i nobili e i signori e perfino alcuni abati, che pur sono uomini santi [...] senz’essere di alcun vantaggio al pubblico [...] senza nulla lasciare alla coltivazione [...] cingono ogni terra di stecconate ad uso di pascolo [...] e così diroccano le case e abbattono borghi, risparmiando le chiese solo perché vi abbiano stalla i maiali [...]. Vanno via quei disgraziati, uomini, donne, mariti, orfani, vedove [...]. Vanno via, dico, dai loro noti lari abituali, senza trovar dove ricovrarsi [...]. E una volta che in breve, con l’andare di qua e di là, hanno speso tutto, che altro resta loro se non rubare, per essere di santa ragione, si capisce, impiccati, o andar in giro pitoccando? Sebbene [...] anche in questo secondo caso vengono, come vagabondi, gittati in carcere, perché vanno attorno senza lavorare. Vero è che, per quanto essi si offrano di gran cuore, non c’è nessuno che li prenda a servizio.9
Come dimostrerò basandomi sui passi biblici, queste iniziative violano le leggi mosaiche, nella lettera e nello spirito. Non riesco a immaginare come si possa conciliarle con qualsiasi intenzione concepibile di Gesù, ma questo esula dall’argomento. In effetti, le leggi di Mosè stabiliscono un sistema assai coerente per ridurre al minimo e alleviare la povertà, una brillante economia fondata su un’etica religiosa contraddistinta più di ogni altra cosa da una sollecita preoccupazione per il benessere dei bisognosi e dei vulnerabili.
Ah, ma il popolo che Mosè liberò dalla schiavitù invase la terra dei cananei e se ne impossessò! Oggigiorno gli israeliti sono bersagliati da insulti per il trattamento riservato ai cananei. La storicità dei racconti di invasioni riportati in Giosuè è dubbia; l’archeologia non li conferma. Né lo fa il Libro dei Giudici, che elenca i popoli che «il Signore lasciò» in Canaan: i filistei, i sidoni, gli ivvei, gli ittiti, gli amorrei, i ferezzei, i gebusei (Giudici, 3:3-5). Anche gli israeliti avrebbero potuto essere cananei, o una popolazione mista di quelle che erano schiave in Egitto, piuttosto che una tribù o un popolo. Il numero di quelli che lasciarono l’Egitto potrebbe essere stato esiguo per poi crescere a posteriori, come la Resistenza francese. Il possesso del Canaan non fu mai completo. Altri abitanti, come per esempio gli ittiti e i filistei, erano a loro volta invasori. Le cronache dell’antico Vicino Oriente riportano spesso la vittoria su un nemico come il suo sterminio; in effetti, l’unica menzione nota di Israele negli scritti egizi, datata circa 1230 a.C., vanta che «Israele è devastato, il suo seme no».10
In ogni caso, qua...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. / Prefazione
  4. / Libertà di pensiero
  5. / Immaginazione e comunità
  6. / L’austerity come ideologia
  7. / Apri largamente la mano: Mosè e le origini del liberalismo americano
  8. / Quando ero piccola
  9. / Il destino delle idee: Mosè
  10. / «Wondrous Love»
  11. / Lo spirito umano e la giusta società
  12. / Chi era Oberlin?
  13. / Cosmologia
  14. / Note