Ricordati di ricordare
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Ricordati di ricordare

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Ricordati di ricordare

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Questo volume raccoglie due saggi scritti a cavallo della seconda guerra mondiale da uno dei più anticonformisti scrittori del secolo scorso. Il primo, «Assassinate l'assassino», è una lunga lettera indirizzata all'amico Alfred Perlès. In questa riflessione sul secondo conflitto mondiale Henry Miller, costretto a rientrare in America a causa della guerra, dichiara la sua strenua opposizione all'appiattimento del pensiero e all'alienazione individuale che hanno catapultato l'Europa nell'orrore. Nel secondo saggio, «Ricordati di ricordare», l'autore rievoca con nostalgia la sua Parigi. Una volta a New York Miller, ritrovando il mondo ottuso e stupido che aveva abbandonato, gli contrappone l'eco dei giorni esaltanti vissuti nell'Europa pre-bellica: dal peso della cultura francese sulla sua formazione umana all'importanza delle amicizie strette in quel periodo. Fra autobiografia e riflessione critica, queste pagine tutte da riscoprire sono la testimonianza modernissima, appassionata e provocatoria di un grande autore del Novecento.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788875214951
Argomento
Littérature
Categoria
Classiques
ASSASSINATE L’ASSASSINO

PRIMA PARTE: LETTERA APERTA
AL SOLDATO SEMPLICE FRED PERLÈS[2]
(Scritta nel 1941: mai spedita)

Caro Fred,
ti scrivo da New York, richiamato a casa da un telegramma che annunciava la morte imminente di mio padre. La notizia mi ha trovato a Natchez, Mississippi, con fondi insufficienti, come al solito. Sono arrivato a New York due ore troppo tardi. Mio padre è morto solo, in un ospedale ebraico, durante un sonno tranquillo. Poche ore dopo la morte era già stato imbalsamato e giaceva nel salotto di casa nostra avvolto in un lenzuolo. L’espressione del suo viso era di completa serenità, dovuta in parte, senza dubbio, all’abilità dell’imbalsamatore. È stato mentre questi rivestiva il corpo di mio padre di un paio di mutande di lana che avevo portato dalla Grecia, che ho dato una prima rapida occhiata alla tua lettera. Era successo che con la stessa posta avevo ricevuto una lunga lettera da Moricand, che è ancora a Parigi, e una da Durrell, che allora si trovava ad Atene. Era uno strano momento per aprire queste lettere preziose, che devo confessare di aver dovuto leggere di nascosto. Durante la lettura sono stato interrotto due volte, la prima dall’imbalsamatore, che voleva sapere se avevamo trovato la parte inferiore della dentiera di mio padre; e la seconda da mia madre, che insisteva perché corressi alla lavanderia cinese per far rilavare e stirare la camicia bianca di mio padre. Quando sono tornato dalla lavanderia hanno cominciato ad arrivare amici e parenti, e da quel momento fino all’indomani del funerale non ho avuto tempo di riprendere in mano le lettere.
Sono appena tornato dal cimitero, dove sono andato a dare un’altra occhiata alla tomba. È un luogo squallido e freddo, e i fiori che sono ammucchiati a profusione sulla sua lapide hanno un’aria desolata. Mia madre m’informa che c’è un posto riservato a me nello stesso campo, ma qualcosa mi dice che non l’occuperò mai. Ho la precisa convinzione che morirò in terra straniera, in una località molto, molto remota, e che i miei resti non saranno mai trovati. E questo mi riporta alla tua lettera, e prima di tutto a quella frase in cui accenni alla mia iniziativa di un giro per gli Stati Uniti con lo scopo dichiarato di scrivere un libro di viaggi. Devo spendere qualche parola su questo argomento prima di affrontare il nocciolo della tua lettera.
Ricorderai, forse, che ogniqualvolta abbiamo parlato dell’America ti ho sempre detto che se fossi mai stato costretto a tornare sapevo che non ci sarei rimasto a lungo. Questo viaggio, che avevo progettato parecchi anni addietro, doveva essere, come ti ho detto spesso, qualcosa di simile a un’ultima occhiata alla mia terra natia. Ho cercato di chiarire a te e ad altri che sapevo di non poter più riprendere la mia vita in America, che si era conclusa in modo ben preciso, e che il mio viso era rivolto all’Oriente. Quando arrivai in Grecia compresi di aver chiuso anche con l’Europa: credo di avertelo detto, nelle mie lettere. Il fatto che io abbia firmato un contratto per scrivere un libro di impressioni sull’America è di secondaria importanza. Avrei fatto il viaggio e scritto il libro anche se non avessi ricevuto l’offerta dell’editore. Ricorderai senza dubbio che avevo abbozzato titolo e schema del libro almeno tre anni fa, prima ancora della crisi di Monaco. È una parte della storia della mia vita che non cesserò mai di scrivere, immagino. Perché sia così importante per me fare questo pellegrinaggio, è una cosa che io stesso non afferro del tutto; ma di certo non è uno scherzo, né un viaggio di piacere. È una cosa che mi sento costretto a fare, una cosa legata al disegno del mio destino.
Non dubito che comprenderai tutto ciò; ma che mi senta pronto a farlo ora, in questo momento, quando il mondo intero è diviso e in armi, è una cosa che deplori. Tu critichi il mio «distacco», lo confondi col distacco degli indifferenti. Eppure dovresti conoscermi. Il distacco che condanni, abbastanza giustamente, non è vero distacco ma un volontario rifiuto di guardare le cose in faccia. Con esso l’individuo di solito nutre la vana speranza che gli sia risparmiato il fato di coloro che lo circondano. È in sé significativo che parli di fato e non di destino. Nel caso mio, si consideri il mio distacco criticabile o no, una cosa è certa: non mi sono mai rifiutato di guardare in faccia la realtà. A essere sincero, come altre persone intelligenti che presero in seria considerazione la situazione mondiale, previdi la débâcle molti anni fa. Ricordo le volte a Parigi in cui tu e soprattutto Fraenkel solevate prendermi in giro per le mie stravaganti riflessioni sulla «morte del mondo occidentale». Non avrei mai potuto scrivere i libri che ho scritto se non fossi stato imbevuto dell’assoluta convinzione dell’imminenza della fine. In qual modo il crollo del nostro mondo avrebbe potuto colpire me come individuo, io naturalmente non riuscivo a immaginarlo, ma tu puoi ricordare che manifestai spesso l’idea che, anche se fosse stata la fine di un periodo o di un’epoca, o addirittura di un’intera cultura o civiltà, non sarebbe stata la mia fine. Avevo cessato da un pezzo di identificarmi con un gruppo o una nazione o una causa o un’ideologia qualsiasi: in una parola, proprio con questa civiltà che adesso sta andando in malora sotto i nostri occhi. Voglio tu sappia che ti scrivo non come un cittadino di quella «fiacca America» che ha finalmente destato il tuo sdegno, ma semplicemente come un essere umano: non ho mai voluto essere qualcosa di più. E da essere umano che si rivolge a un altro, desidero aggiungere immediatamente che ho soltanto ammirazione per il ruolo che hai scelto. Ogni uomo ha la sua parte da sostenere, e dicendo questo voglio comprendere il criminale, il tiranno, il demente e il malvagio. Fortunatamente o sfortunatamente, questi tipi occupano ben poco posto al mondo: la vasta maggioranza dell’umanità è ignorante o illusa, o tutt’e due. Il grande peccato, credo ne converrai, è l’ignoranza. E a produrre la tragedia (sempre travestita da Fato) è, come sottolinei tu stesso, l’inerzia. In questo particolare momento del grande dramma in corso di rappresentazione è difficile, quasi impossibile anzi, per gran parte della gente – cioè per coloro che sono sempre costretti ad agire in un modo o in un altro – vedere nell’inazione virtù o saggezza di sorta. Oggi coloro che vivono sotto un governo democratico non hanno più libertà di scelta, in questa faccenda dell’agire o non agire, di coloro che vivono sotto il giogo comunista o fascista. In nome della libertà ognuno viene obbligato a tenersi pronto alla linea di partenza; l’assunto è che quando avremo vinto la guerra (stiamo solo oscuramente cominciando a renderci conto che ci siamo già dentro) riavremo la nostra libertà, una libertà, sia detto tra parentesi, che non abbiamo mai posseduto sul serio.
Ora, io ho sempre tenacemente affermato che se non si può avere libertà in tempo di pace ci sono poche probabilità di ottenerla entrando in guerra. Ho sempre creduto, per di più, che la libertà la si guadagna, e non ci è conferita da un benevolo governo. Ancora una volta ci dicono che libertà e democrazia sono in pericolo, minacciate stavolta da quei mostri di Hitler e Mussolini. Coloro che hanno l’audacia o la sconsideratezza di dissentire da questa visione delle cose sono messi di fronte alla possibilità di perdere quel po’ di libertà che possiedono. La differenza tra il non essere al passo con un dittatore e il non essere al passo con la maggioranza democratica è praticamente trascurabile. L’importante è andare al passo. Tu mi conosci abbastanza bene per sapere che non sono mai andato al passo, nemmeno con quanti sono d’accordo con me.
Tu ammetti, in un punto della tua lettera, di non aver mai avuto molta simpatia per la guerra, anche se adesso ti ci sei rassegnato. La verità è che nessuno ama veramente la guerra, nemmeno chi ha una mentalità militare. Eppure, in tutta la breve storia della razza umana, si sono avuti solo pochi intervalli di pace, pochi momenti di respiro. Che cosa dobbiamo concludere da questo apparente paradosso? La mia semplice e ovvia conclusione è che, pur temendo la guerra, gli uomini non hanno mai veramente e ardentemente desiderato la pace. Io sì che desidero sul serio la pace, e quel po’ d’intelligenza che ho mi dice che la pace non si ottiene con la guerra ma con l’azione pacifica. Se si dovesse fare questa dichiarazione all’ufficio leva, una volta chiamati alle armi, si finirebbe in galera. Una simile dichiarazione non sarebbe ritenuta in buona fede a meno che la recluta non fosse un quacchero o un membro di qualche altra setta religiosa di cui si ammetta la sincera convinzione che gli uomini non dovrebbero uccidersi tra loro. Eppure, come sai, tutte le sette cristiane del mondo hanno inserito nella loro dottrina la legge mosaica che dice: «Non uccidere!» Porre davanti ai nostri libertari cristiani questo particolare comandamento biblico in questo momento vuol dire, fatto abbastanza curioso, mandarli su tutte le furie. Non è il momento di spaccare il capello in quattro, dicono. Nulla, invece, potrebbe essere meno cavilloso di queste brevi, inequivocabili parole.
Ma torniamo a quel termine, distacco, che tu definisci solo negativamente quando dici che «è la sola cosa che paralizza irrimediabilmente l’anima». Le figure che hanno avuto più influenza sul mondo hanno tutte praticato il distacco: mi riferisco a uomini come Laotse, Gautama il Buddha, Gesù il Cristo, san Francesco d’Assisi e simili. Non si sono estraniati dal mondo, né hanno negato la vita; ciò che hanno fatto è stato sollevarsi al di fuori del circolo vizioso della vita di ogni giorno che non porta da nessuna parte, se non alla confusione, al dolore e alla morte. Hanno riaffermato i valori spirituali della vita. Nessuno di loro ha invocato la guerra a sostegno delle proprie convinzioni. In una lettera precedente, che mi hai scritto da Londra, citavi la tua amica Stein: «Un’idea che è vera dev’essere soltanto espressa, non ha bisogno di propaganda». A questo vorrei aggiungere che, una volta che la verità è stata percepita, non c’è altro da fare che agire di conseguenza. Gli uomini di verità sono uomini d’azione, schietti e invincibili. Il dramma che simboleggiano le loro vite, e che perciò ha per noi la qualità dell’eterno, consiste nell’agire secondo verità. Il disegno della loro vita è tagliato di precisione come una pietra preziosa; le nostre vite descrivono solo infinita confusione. Notai che, nella stessa lettera che ho citato un momento fa,[3] la tua amica Stein dice anche: «Guerra o non guerra, il mondo dev’essere riformato prima del 1942. Il 1942 è il punto limite, oltre il quale, se niente sarà stato fatto, potrà esserci solo il caos». Devo confessare che non ho la minima speranza di assistere a una riforma su scala mondiale entro il 1942. Anzi, la tendenza è diametralmente opposta. Ogni giorno che passa, una porzione maggiore del mondo cede alla follia della guerra. La guerra è l’espressione più orrenda del conflitto interiore. Sappiamo da precedenti esperienze che tutte le nazioni attualmente impegnate in questa guerra ne usciranno sconfitte. Non siamo nemmeno sicuri della posta in gioco, anche se si dice, come tanto spesso in passato, che si tratta della civiltà. Sai bene quanto me che non è vero. Per quanto possiamo detestare il sistema di vita tedesco, com’è illustrato dal regime nazista, non possiamo in tutta onestà pretendere che l’unica forma di civiltà sia la nostra. Tutto il mondo civile, da un capo all’altro del globo, è marcio e prima o poi dovrà andare in pezzi. Non credo che i puntelli serviranno granché. Non credo che la conservazione dell’impero britannico o di qualsiasi altro impero, o di qualsiasi attuale sistema di governo, se è per questo, implichi la conservazione dell’umanità. Le forze che hanno provocato la guerra sono vincolate alle erronee dottrine e convinzioni che animano tutti i membri del consorzio civile. È in discussione la stessa civiltà. Ma i tedeschi, gli italiani, i giapponesi fanno parte di questa civiltà quanto i francesi, gli inglesi, gli americani et alia. Dimostrare con la forza delle armi che una parte o l’altra di queste nazioni civili ora entrate in conflitto ha ragione o torto non porterà nessun contributo alla comprensione del significato della civiltà. Che sia vero o no, la civiltà è ormai sinonimo di continuo progresso, di qualcosa di inestirpabile dall’umano schema che sottende le effimere nascite e morti delle culture. Questo progresso è assicurato dalla guerra? E se non lo è, perché mai prendere le armi, anche se l’aggressore è palesemente in torto? Quanti di noi credono nell’efficacia della verità devono essere trattati da codardi e traditori perché si rifiutano di agire se non secondo il dettato della loro coscienza? Dobbiamo fingere, per convenienza, di voler porre la voce di un governo al di sopra della voce della nostra coscienza?
Non ho niente da dire a coloro che credono nella necessità di combattere per i propri diritti. Per uno come te, che è giunto da solo a una decisione e volontariamente ha scelto di sacrificare la vita, ce ne sono diecimila incapaci di prendere una decisione, e altri diecimila che si conformeranno a qualsiasi decisione purché non sia presa da loro. Per non parlare di coloro che, rendendosi conto dell’infelicità della loro situazione, esigono che il resto del mondo tenga loro compagnia. Le nazioni si fanno la guerra sull’assunto che le vedute della popolazione e di coloro che la governano coincidono. Nell’attimo in cui si dichiara la guerra è impossibile dissentire. L’uomo che ieri poteva essere considerato come la personalità che più ha dato per la felicità della nazione, può cadere in disgrazia, o addirittura finire in carcere, se per caso non crede nella guerra. Può darsi che per tutta la vita abbia dichiarato la sua posizione in materia, ma questo non farà nessuna differenza. È considerato un nemico della società al pari del più abietto criminale, più nemico, anzi, dell’uomo che resta a casa a far fortuna con la vendita degli strumenti di distruzione. I popoli non sono quasi mai unanimi in favore della guerra, specie nei tempi moderni. È la minoranza che favorisce la guerra, e questa minoranza rappresenta sempre gli interessi costituiti. Nessun governo ha mai il coraggio o l’onestà di rimettere al popolo la questione della guerra. Né sussiste mai la più remota possibilità di creare una situazione per cui coloro che sono in favore della guerra vadano alla guerra e coloro che non lo sono restino passivi. L’unanimità di una nazione, in tempo di guerra, si ottiene attraverso la coercizione pura e semplice. Tu sei uno dei pochissimi nel presente conflitto che hanno avuto il privilegio di decidere del proprio fato. Per avere questo privilegio hai dovuto essere un uomo senza patria. Una situazione ironica!
Allo stesso tempo devo sottolineare un’altra ironia. Il paese per cui ti offri volontario, in nome della libertà, nega il diritto alla libertà a una nazione sottomessa di oltre trecento milioni di anime. Ancor oggi, quando l’Inghilterra è minacciata di estinzione, quando la buona volontà e l’aiuto dei popoli indiani sarebbero un vantaggio inestimabile, il governo che ha arruolato le tue simpatie si rifiuta di fare la minima concessione o di giungere al minimo compromesso con i capi riconosciuti dell’India. Mi sembra che perfino la saggezza pratica avrebbe dettato un atteggiamento meno rigido e severo. Tu dirai, senza dubbio, che non combatti per il governo britannico ma per l’umanità. Be’, se le aride cifre significano qualcosa, allora mi sembra che sarebbe più umanitario combattere per la liberazione di trecento milioni di indù piuttosto che per quaranta milioni di inglesi. Per giunta, sappiamo benissimo che l’impero britannico non è controllato dai quaranta milioni di cittadini britannici, né appartiene loro. Sappiamo che è solo un pugno di uomini, in Inghilterra come in altre parti del mondo, a controllare il destino di milioni di individui. Nella stessa Inghilterra, impegnata com’è in una lotta per la vita o la morte, leggiamo che c’è ancora un gran numero di disoccupati. Tali dichiarazioni, se vere, e ho buone ragioni per ritenere che lo siano, sono addirittura fantastiche. L’uomo che ha ancora la possibilità di entrare, o non entrare, in guerra può ben soffermarsi a riflettere per che cosa o per chi dovrebbe combattere. Si ammette, attualmente, che Hitler tenda alla conquista del mondo, se non con la forza delle armi, moralmente o ideologicamente. Il bello è che non si è mai pensato che i popoli democratici del mondo potrebbero essere immuni all’insidiosa propaganda del fascismo. Chi cercherebbe, ad esempio, di sedurre un santo tentandolo con i piaceri o le ricompense del mondo materiale? L’idea è inconcepibile. Ma i popoli democratici si fanno prendere da un autentico panico alla semplice prospettiva di doversi assoggettare alle influenze fasciste. Dov’è dunque la loro fede e integrità? E l’influenza democratica? È tanto debole da poterla mantenere solo buttandosi nella mischia?
Non sono mai riuscito a capire questa paura e questo isterismo a proposito dell’introduzione di idee diverse dalle nostre. Ho sempre cercato di scoprire e assimilare quanto c’è di buono nelle idee altrui. Ogni tanto, noterai, si ammette qua e là che certe idee applicate dai fascisti non erano senza valore, ma poi, si osserva immediatamente, non è contro queste che lottiamo ma contro le cattive dottrine del fascismo. E le nostre cattive dottrine? Chi arriverà mai al punto di ammettere l’esistenza del torto, o dell’errore, nel nostro democratico sistema di vita? Oltretutto, non si può dire che le dottrine politiche del fascismo siano abbracciate da un pugno di individui diabolici tesi alla distruzione del mondo. Oggi oltre centocinquanta milioni di persone si sono raccolte sotto questa bandiera. In Russia un altro vasto gruppo di persone si ispira a una filosofia ancora diversa. Tutto si riduce a questo, in pratica: che a ragione o a torto abbiamo deciso di difendere il nostro sistema di vita. Come? Schiacciando chi non è d’accordo con noi.
C’è una grande fallacia in questa logica della violenza. Dimentichiamo che i conquistatori sono sempre conquistati dagli sconfitti. Il modo più sicuro per sconfiggere Hitler sarebbe, a parer mio, che l’Europa si arrendesse spontaneamente. Dirò di più: diamogli il mondo intero. Te l’immagini che fine farebbero le sue idee di grandezza se non incontrasse nessuna resistenza? Hitler, o chiunque cerchi il potere, è una forza solo finché trova opposizione. Diamogli la parte di Dio e andrà in frantumi. Pensa se il mondo intero si sottomettesse alla volontà di questo ometto; pensa se gli ponesse davanti i problemi di tutto il mondo concedendogli la libertà di risolverli! Quel poveraccio morirebbe di congestione cerebrale nel giro di una notte.
Ma parliamo giudiziosamente. Che cosa ha portato Hitler al potere? L’umiliazione e l’ingiustizia inflitte al popolo tedesco dal Trattato di Versailles. Chi fu il responsabile di questa idiozia? Tu e io, o i milioni di individui che si batterono per assicurare al mondo la democrazia? Non direi. In un certo senso sì, siamo tutti colpevoli, poiché, anche se l’errore fu di pochi miopi politicanti, abbiamo avuto tutto il tempo necessario, prima dell’ascesa di Hitler, per riparare agli errori dei capi del tempo di guerra. Molto è stato detto sulla futile politica dell’appeasement, sull’insaziabilità di Hitler, ma si dovrebbe ricordare che la volontà da parte degli Alleati di fare concessioni è emersa troppo tardi, che le concessioni furono fatte per paura e non per generosità.
Ricordo bene le lunghe discussioni che abbiamo avuto a Parigi sulla situazione economica mondiale. Perfino gente così poco tagliata per la politica come noi due riusciva a capire che doveva verificarsi un mutamento drastico, che non si poteva parlare di pace finché non ci fosse stata vera eguaglianza, vera fratellanza. Si direbbe che la guerra abbia ucciso da un pezzo quella speranza. Eppure chi può dire che la guerra non possa servire a uno scopo più grande di quanto non sembri ora? Sotto la riluttanza e l’esitazione delle democrazie a fare la guerra giace la paura di scatenare un male più rovinoso: una rivoluzione mondiale. Sarà questo, con ogni probabilità, il risultato dell’attuale conflitto, e nel provocarlo, i tedeschi, gli italiani, i giapponesi hanno un ruolo non meno importante e prezioso di quello degli Alleati. Quando le nazioni ricorrono alla guerra, s’ingannano sulle vere forze in gioco; con l’opporsi l’una all’altra si trasformano negli strumenti di una forza che è superiore alle loro mire antagonistiche. ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. "Henry Miller e la vita" di Alfonso Berardinelli
  3. "Un americano a Parigi" profilo bio-bibliografico
  4. Bibliografia
  5. Assassinate l’assassino