Miles. L'autobiografia
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Dall'epoca d'oro del bebop alla rivoluzione della fusion, la musica di Miles Davis ha attraversato e segnato l'intera storia del jazz. In questo libro autobiografico, che torna oggi in un'edizione rilegata e arricchita di preziosi contenuti speciali, Davis racconta l'evoluzione del suo stile, i suoi gruppi, gli album e i concerti, ma anche gli amici, le donne, la famiglia, gli anni bui dell'eroina, i conflitti con i bianchi del mondo della stampa e del potere costituito. Dalla sua voce di volta in volta commossa, indispettita, orgogliosa, nasce un grandioso film corale in cui fanno da co-protagonisti Charlie Parker, John Coltrane, Dizzy Gillespie, Jimi Hendrix e Prince, e in ruoli cameo troviamo Juliette Greco, Jean-Paul Sartre e addirittura Ronald Reagan. Fitto di aneddoti e informazioni come una grande enciclopedia del jazz, ma animato dal calore di una personalità battagliera, questo libro è una testimonianza fondamentale per la storia della musica, ma insieme un romanzo appassionante e un ritratto "militante" di mezzo secolo di cultura nera americana.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788875214029

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CINQUE

Ritorno a New York. La Strada era di nuovo aperta. Avere avuto a che fare con la Cinquantaduesima fra il 1945 e il 1949 è stato più o meno come leggere un libro di testo sul futuro della musica. C’erano Coleman Hawkins e Hank Jones nello stesso club. Potevi incontrare Art Tatum, Tiny Grimes, Red Allen, Dizzy, Bird, Bud Powell, Monk, tutti su quella strada, certe volte nella stessa sera. Potevi andare dove volevi e ascoltare tutta questa grande musica. Era incredibile. Scrivevo cose per Sarah Vaughan e Budd Johnson. Voglio dire che c’erano tutti, lì. Oggi non si può sentire tanta gente così nello stesso posto. Non c’è più l’opportunità.
La Cinquantaduesima era qualcosa di incredibile a quei tempi. Era sempre affollata di gente, con club non più grandi di un salotto di casa. Erano così piccoli e così fottutamente affollati. I club erano uno di fianco all’altro, sui due lati della strada. Il Three Deuces era di fronte all’Onyx e poco più in là c’era anche il Dixieland Club. Cazzo, entrare in quel locale era come andare a Tupelo, nel Mississippi. Era pieno di razzisti bianchi. Anche l’Onyx, il club di Jimmy Ryan, poteva essere molto razzista. Sull’altro lato della strada, vicino al Three Deuces, c’era il Downbeat Club, e lì accanto la Clark Monroe’s Uptown House. Insomma c’erano tutti questi club, uno vicino all’altro, e tutte le sere ci suonava gente come Erroll Garner, Sidney Bechet, Oran «Hot Lips» Page, Earl Bostic. Poi c’era ancora altro jazz in altri club. Quell’ambiente era potente. Credetemi, non penso che ci potrà mai capitare di rivedere qualcosa di simile.
C’era anche Lester Young. Avevo conosciuto Prez quando era passato per St. Louis dopo aver suonato al Riviera, prima che io mi trasferissi a New York. Lester aveva un suono e un approccio alla Louis Armstrong, ma su un sax tenore. Anche Billie Holiday aveva lo stesso tipo di suono e di stile, e così anche Budd Johnson e quell’altro tipo bianco, Bud Freeman. Tutti loro avevano questo stile veloce e fluido. È questo lo stile che mi piace, quando scorre bene. Ha una certa morbidezza nell’approccio e nelle linee ed enfatizza anche la singola nota. Io ho imparato a suonare così da Clark Terry. Suonavo come lui prima di essere influenzato da Dizzy e da Freddie, prima di raggiungere il mio stile. Ma imparai anche molto su questo «stile dinamico» da Lester Young.
Ad ogni modo, dopo essere stato a zonzo per un po’, feci un disco con Illinois Jacquet nel marzo 1947. Avevamo una sezione di fiati veramente notevole, c’ero io, Joe Newman, Fats Navarro e altri due, penso che fossero il fratello di Illinois, Russell Jacquet, e Marion Hazel. Dickie Wells e Bill Doggett suonavano il trombone e Leonard Feather, il critico, suonava il pianoforte. Mi faceva piacere suonare di nuovo con Fats.
Dizzy stava mettendoli insieme nella sua big band per suonare il bebop. Aveva Walter Gil Fuller, che aveva scritto per la band di B, come direttore musicale. Gil era davvero forte e quindi in giro c’era molto entusiasmo per quello che faceva la band di Dizzy. Finalmente in aprile il manager di Dizzy, Billy Shaw, fece avere un ingaggio alla band per il McKinley Theater, su nel Bronx. Mi ricordo così bene questo lavoro perché Gil Fuller riuscì a mettere insieme la più grande sezione di trombe che penso sia mai stata messa insieme in un’unica band. Aveva preso me, Freddie Webster, Kenny Dorham, Fats Navarro e lo stesso Dizzy. Max Roach era alla batteria. Stavamo per cominciare quando Bird rientrò a New York e si unì alla band. L’avevano sbattuto fuori dal Camarillo in febbraio ed era rimasto in giro a Los Angeles quanto bastava per registrare due album per la Dial e ricominciare con la droga. Ma erano album veramente terribili quelli che Ross Russell aveva fatto fare a Bird. Insomma, perché Ross aveva fregato Bird in questo modo? Cazzo, è proprio per questo che non mi piaceva Ross Russell. Era soltanto un figlio di puttana che cercava di fottere Bird. Ad ogni modo, quando Bird rientrò a New York non era più così malridotto come a Los Angeles, perché non beveva più come allora e si faceva molto meno che in seguito. Però si faceva.
Comunque, cazzo, la sezione delle trombe (l’intera band, la prima sera) era grandiosa, sapete? Quella musica riempiva lo spazio, i corpi, l’aria. Ed era bellissimo suonare così con tutti loro. A me piaceva da morire ed ero talmente emozionato all’idea di suonare tutti insieme che non sapevo nemmeno cosa fare. È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita, quasi come la prima volta che suonai con la band di B a St. Louis. Mi ricordo la gente della prima serata, ci ascoltavano e ballavano come matti. C’era un’eccitazione nell’aria, una specie di attesa per la musica che si sarebbe suonata. È difficile da descrivere. È stato elettrico, magico. Mi sentivo proprio bene in quella band. Sentivo che ero arrivato, che ero in un gruppo di dèi della musica, e io ero uno di loro. Mi sentivo onorato e umile. Noi eravamo tutti lì per la musica. Era una sensazione meravigliosa.
Dizzy voleva tenere la band pulita, a posto, e secondo lui Bird avrebbe portato un’influenza negativa. La sera in cui cominciammo, al McKinley, Bird stava lì sul palco, fatto e mezzo addormentato, e non suonava altro che i propri assolo. Non suonava con nessun altro. Anche la gente del pubblico lo prendeva in giro mentre ciondolava sul palco come un drogato. E così Dizzy, che era già stufo da tempo di Bird, lo sbatté fuori dopo quella prima sera. Poi Bird parlò con Gil Fuller e gli promise che si sarebbe comportato bene e gli chiese di dirlo a Diz. Gil andò da Dizzy per cercare di convincerlo a far rimanere Bird, e anch’io andai da Diz e gli dissi che sarebbe stata una buona cosa tenerci comunque Bird per fargli scrivere qualche pezzo per pochi soldi; gli proposi un centinaio di dollari la settimana. Ma Dizzy rifiutò, dicendo che non aveva soldi per pagarlo e che avremmo dovuto tirare avanti senza di lui.
Suonammo al McKinley per un paio di settimane, mi pare. Nello stesso periodo Bird stava mettendo su un’altra band e mi chiese di andare con lui. Ci andai. I due dischi che Bird aveva registrato a Los Angeles per la Dial erano stati distribuiti. In uno dei due c’ero io e nell’altro Howard McGhee, se ben ricordo. Erano usciti alla fine del 1946 e ormai erano grandi successi del jazz. Così, con la Cinquantaduesima che si riapriva e Bird di nuovo in città, i proprietari dei club lo rivolevano. Tutti quanti gli stavano dietro. Volevano di nuovo le small band ed erano certi che Bird sarebbe riuscito a riempire i locali. Gli offrirono 800 dollari la settimana per quattro settimane al Three Deuces. Lui volle me, Max Roach, Tommy Potter e Duke Jordan al pianoforte. Mi pagava 135 dollari la settimana, come Max, e ne dava a Tommy e a Duke 125. Bird tirava su più soldi di quanti fosse mai riuscito a farne in vita sua, 280 dollari la settimana. Non mi importava che guadagnassi 65 dollari in meno ogni settimana rispetto a quando stavo con la band di B. Volevo solo suonare con Bird e Max e fare della buona musica.
Io ero soddisfatto e Bird aveva di nuovo gli occhi svegli, e non più quell’aspetto folle della California. Era dimagrito e sembrava felice con Doris. Lei era andata a recuperarlo in California quando lo avevano sbattuto fuori dal Camarillo, l’aveva riaccompagnato in treno sull’East Coast. Cazzo, Doris amava il suo Charlie Parker. Avrebbe fatto di tutto per lui. Bird sembrava finalmente felice e pronto a darsi da fare. Cominciammo nell’aprile del ’47, alternandoci con il trio di Lennie Tristano.
Ero veramente felice di suonare ancora con Bird perché allora suonare con lui tirava fuori il meglio di me. Suonava in stili talmente diversi e non ripeteva mai la stessa idea musicale. La sua creatività e le sue idee erano senza fine. Faceva dannare la sezione ritmica ogni notte. Mettiamo che si suonasse un blues. Bird partiva sull’undicesima battuta. Mentre la sezione ritmica restava dov’era, ecco che Bird si metteva a suonare in un modo che faceva sembrare che la sezione ritmica fosse sull’uno e sul tre anziché sul due e sul quattro. Nessuno riusciva a stargli dietro in quei giorni, tranne forse Dizzy. Ogni volta che partiva così, Max urlava a Duke di non cercare di seguire Bird. Voleva che Duke rimanesse dov’era, perché non sarebbe stato capace di raggiungere Bird e avrebbe mandato a monte tutta la sezione ritmica. Duke lo faceva spesso, quando non ascoltava. Vedete, quando Bird decollava per uno di questi suoi incredibili assolo, tutto quello che la sezione ritmica doveva fare era restare dov’era e andare via liscia. A un certo punto Bird ritornava dov’era rimasta la ritmica, perfettamente a tempo. Era come se avesse studiato tutto nella sua mente. L’unico guaio è che non sapeva spiegarlo a nessuno. Bisognava solo seguire la musica cercando di non perdersi fino alla fine, perché poteva succedere qualsiasi cosa quando si suonava con Bird. Quindi imparai a suonare quello che sapevo e ad andare un po’ oltre quello che sapevo. Bisognava essere pronti a tutto.
Più o meno una settimana prima dell’apertura, Bird decise di fare delle prove in uno studio che si chiamava Nola. Un sacco di musicisti andavano a provare laggiù in quel periodo. Quando ci convocò per le prove nessuno gli credette. Non l’aveva mai fatto in passato. Al primo giorno, arrivarono tutti quanti, tranne Bird. Aspettammo per un paio d’ore e alla fine fui io a gestire la band.
Allora: sera dell’apertura, Three Deuces pieno zeppo. Non avevamo visto Bird per tutta la settimana, ma avevamo provato veramente tanto. Così ecco che quel coglione arriva tutto sorridente e, cazzo, domanda a tutti se siamo pronti, facendo quel suo stupido accento da finto inglese. Al momento di cominciare domanda: «Che cosa suoniamo?», e io glielo dico. Annuisce, dà il tempo, e suona tutti quei cazzo di brani nella tonalità che noi avevamo provato in quella settimana. Li suonò da dio. Non perse una battuta, una nota, non andò fuori tono per tutta la sera. Incredibile. Noi eravamo veramente sconvolti. E ogni volta che lui ci guardava mentre lo fissavamo con gli occhi di fuori, si limitava a sorridere con un sorriso tipo: «Che c’è? Avevate qualche dubbio?»
Appena finimmo questa prima serata, Bird arrivò e disse, ancora con quell’accento falso inglese: «Ragazzi, avete suonato piuttosto bene stasera, se non fosse per quel paio di volte in cui siete andati fuori tempo e avete perso qualche nota». Non potemmo far altro che guardare quel figlio di puttana e ridere. Questo era il tipo di cose che Bird faceva sul palco. Alla fine uno se l’aspettava. Era quando lui non faceva niente di incredibile, ecco, era quella la vera sorpresa.
Bird in genere suonava con brevi, fortissime emissioni di fiato. Suonava duro come un pazzo. Qualche anno dopo anche Coltrane suonava in quel modo. Comunque, insomma, a volte Max Roach si ritrovava fuori dal beat. E io non riuscivo a capire cosa cazzo stesse facendo Bird perché non l’avevo mai sentito prima. Poverelli sia Duke Jordan sia Tommy Potter che si trovavano lì, persi come due disgraziati, come chiunque altro sul palco, ma loro ancora di più. Quando Bird suonava così era come ascoltare la musica per la prima volta. Non ho mai sentito nessun altro suonare in quel modo. Più avanti Sonny Rollins e io abbiamo cercato di fare cose come quelle; e io e Trane suonavamo queste violente, durissime, brevissime esplosioni di frasi musicali. Ma quando le suonava Bird era sensazionale. Odio usare una parola come «sensazionale», ma era davvero così. È incredibile il modo in cui riusciva a combinare le note e i fraseggi. Il musicista medio avrebbe provato a sviluppare qualcosa di più logico, ma Bird no. Tutto quello che suonava, quando c’era davvero, e davvero suonava, era spaventoso, e io ero con lui ogni sera! E così non potevamo stare sempre a dire: «Oddio! Hai sentito che ha fatto?» per tutta la sera, perché allora non avremmo avuto il tempo di suonare niente noi. Arrivammo al punto che, quando lui si metteva a suonare in quel modo sensazionale, noi sbattevamo gli occhi. Ci si spalancavano ancora più di prima, e credetemi, erano già belli spalancati. Ma dopo un po’ anche quello divenne soltanto un altro giorno dei tanti passati a suonare con quel figlio di puttana. Era irreale.
Io ero quello che gestiva le prove del gruppo e che lo teneva insieme. Far funzionare quella band mi fece capire che cosa serve per avere una grande band. La gente diceva che era la più grande bebop band che ci fosse in giro. Quindi ero davvero orgoglioso di esserne il direttore musicale. Nel 1947 non avevo ancora ventun anni, e stavo imparando veramente in fretta che cosa fosse la musica.
Bird non parlava mai di musica, tranne una volta in cui lo sentii discutere con un musicista classico, un mio amico. Gli diceva che con gli accordi si può fare qualsiasi cosa. Io non ero d’accordo e gli dissi che non si poteva suonare un re naturale sulla quinta battuta di un blues in si bemolle. Lui diceva di sì. La sera dopo al Birdland lo sentii fare a Lester Young, ma lui abbassò un po’ la nota. Bird era lì quando successe e mi guardò con quel solito sguardo da «te l’avevo detto» che ti lanciava quando aveva dimostrato che sbagliavi. Ma questa è l’unica cosa che gli sentii dire sulla musica. Sapeva perfettamente che si poteva fare perché l’aveva già fatto lui. Ma non si metteva lì a mostrarti come farlo. Si limitava a far sì che lo potessi capire da solo, e se non ci riuscivi, be’, amen.
Imparai moltissime cose da Bird in questo modo, cogliendole da come suonava o non suonava una frase musicale o un motivo. Ma, come ho detto, non ho mai parlato molto con lui, mai più di un quarto d’ora di fila, a meno che non stessimo litigando per i soldi. Glielo dicevo in faccia: «Bird, non cercare di prendermi per il culo con i soldi». Ma lui lo faceva sempre.
Non mi è mai piaciuto il modo in cui Duke Jordan suonava il pianoforte, e non piaceva nemmeno a Max, ma Bird decise di tenerlo nella band comunque. Io e Max volevamo Bud Powell al pianoforte. Ma Bird non poté prenderlo perché lui e Bud non andavano d’accordo. Bird andava a casa di Monk per cercare di parlare con Bud, ma Bud si limitava a stargli seduto davanti senza dirgli niente. Bud veniva agli spettacoli con il suo cappello nero, la camicia bianca, un vestito nero, una cravatta nera, un ombrello nero, il più leccato di tutti, e non rivolgeva la parola a nessuno tranne che a me o a Monk, se c’era anche lui. Bird lo pregava di venire con noi, ma Bud lo guardava e beveva. Non sorrideva nemmeno, a Bird. Sedeva lì fra il pubblico, ubriaco marcio, fatto di eroina. Bud si faceva troppo e ci rimaneva sotto, come Bird. Ma era un pianista geniale, il più grande tra quelli del bebop.
Max voleva sempre fare a botte con Duke Jordan per come sbagliava il tempo nel gruppo. Max si incazzava così tanto che lo voleva letteralmente picchiare. Duke non ascoltava. Suonava per conto suo, Bird faceva qualcosa e lui perdeva il tempo. E quindi Max si incasinava, se io non gli stavo tenendo il tempo. Max gridava a Duke: «Va’ a farti fottere, stronzo, stai sbagliando il tempo un’altra volta».
Riuscimmo a sostituire Duke Jordan con Bud Powell in un disco per la Savoy, nel maggio del 1947. Mi pare che si intitolasse Charlie Parker All Stars. C’erano tutti quelli del gruppo solito, tranne Duke. Scrissi un pezzo per quell’album dal titolo «Donna Lee», che è stato il primo brano scritto da me mai registrato. Ma quando uscì il disco c’era scritto sopra che era stato Bird a comporlo. Non era stata colpa di Bird: la casa discografica aveva semplicemente fatto un errore e io non ci persi soldi né altro.
Bird era ancora sotto contratto con la Dial Records quando fece questo disco per la Savoy, ma queste cazzate non potevano impedire a Bird di fare quello che voleva. Se uno aveva i soldi, lui ci andava. Ho suonato in quattro degli album che Bird registrò nel 1947, credo che fossero tre con la Dial e uno con la Savoy. In quell’anno fu molto attivo musicalmente. C’è chi dice che il 1947 sia stato l’anno migliore per Bird. Non so che cosa dire in proposito e non mi piace dare giudizi del genere. Tutto quello che so è che suonò della grande musica. E ne fece ancora di grande dopo quell’anno.
È stato grazie a «Donna Lee» che incontrai Gil Evans. Aveva sentito il brano e venne a parlare con Bird per vedere se era possibile farci qualcosa. Bird gli disse che non era un pezzo suo, ma mio. Gil volle le partiture per scrivere un arrangiamento per la Claude Thornhill Orchestra. Incontrai Gil Evans per la prima volta quando mi chiese se poteva arrangiare «Donna Lee». Io gli dissi che poteva farlo tranquillamente se in cambio mi portava una copia dell’arrangiamento di «Robbin’s Nest» di Claude Thornhill. Lui me lo portò e, dopo che parlammo e sondammo un po’ il terreno, capimmo che a me piaceva il modo in cui Gil scriveva la musica e che a lui piaceva il modo in cui io la suonavo. Ci intendevamo. A dire la verità, non mi piacque molto il modo in cui Thornhill eseguì l’arrangiamento di Gil per «Donna Lee». Era troppo lento e manierato per i miei gusti. Ma da altre cose capii le capacità di Gil nell’arrangiamento e nella scrittura, perciò riuscii a non innervosirmi troppo per quello che aveva fatto su «Donna Lee», anche se un po’ mi diede fastidio.
Credo che quel disco per la Savoy con Bird sia stata la mia registrazione migliore fino a quel momento. Stavo prendendo sempre più fiducia nel mio modo di suonare e stavo finalmente sviluppando un mio stile. Stavo abbandonando le influenze che avevo avuto da Dizzy e Freddie Webster. Ma fu il Three Deuces, suonare ogni sera con Bird e Max, che mi aiutò davvero a trovare una voce tutta mia. Venivano tanti musicisti diversi lì con noi e così ci abituavamo a stili differenti. A Bird queste cose piacevano un sacco, e anche a me qualche volta. Però mi interessava molto di più cercare di sviluppare il sound della nostra band che suonare con musicisti diversi ogni sera. Ma Bird aveva preso questa abitudine a Kansas City e l’aveva proseguita al Minton’s e all’Heatwave, ad Harlem: era una cosa che lui aveva sempre amato e che lo faceva star bene. Ma quando veniva qualcuno che non era in grado di suonare, allora diventava pesante.
Suonare con Bird e farmi vedere ogni sera sulla Cinquantaduesima mi aiutò ad arrivare al mio primo disco come leader. Quel disco si chiamava Miles Davis All Stars. Lo feci per la Savoy. Charlie Parker era il sax tenore, John Lewis al pianoforte, Nelson Boyd al basso ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Prefazione di Vittorio Franchini
  4. / Miles
  5. / Prologo
  6. / Uno
  7. / Due
  8. / Tre
  9. / Quattro
  10. / Cinque
  11. / Sei
  12. / Sette
  13. / Otto
  14. / Nove
  15. / Dieci
  16. / Undici
  17. / Dodici
  18. / Tredici
  19. / Quattordici
  20. / Quindici
  21. / Sedici
  22. / Diciassette
  23. / Diciotto
  24. / Diciannove
  25. / Venti
  26. Ringraziamenti