Sofia si veste sempre di nero
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Sofia si veste sempre di nero

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Informazioni sul libro

Sofia si veste sempre di nero è la nuova prova narrativa di Paolo Cognetti, autore di Manuale per ragazze di successo e Una cosa piccola che sta per esplodere. Nei suoi racconti, cesellati con la finezza di Carver e Salinger, ha saputo rappresentare con sorprendente intensità l'universo femminile. Ed è ancora una donna la protagonista del suo nuovo libro, un romanzo composto da dieci racconti autonomi che la accompagnano lungo trent'anni di storia: dall'infanzia in una famiglia borghese apparentemente normale, ma percorsa da sotterranee tensioni, all'adolescenza tormentata da disturbi psicologici, alla liberatoria scoperta del sesso e della passione per il teatro, al momento della maturità e dei bilanci. Con la sua scrittura precisa e intensa, che nasconde dietro l'apparente semplicità una straordinaria potenza emotiva, Cognetti ci regala il ritratto di un personaggio femminile indimenticabile: una donna torbida e inquieta, capace di sopravvivere alle proprie nevrosi e di sfruttare improvvisi attimi di illuminazione fino a trovare, faticosamente, la propria strada. Un libro avvincente in cui ciascun lettore troverà momenti di bellezza e di dolore, di ansia e di riscatto, che riconoscerà di aver vissuto anche sulla sua stessa pelle.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788875214661
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

/
Brooklyn Sailor Blues

Quanto a me, la prima volta che ho visto Sofia Muratore non era una ragazza ma un pugno di colori esplosi, dentro il televisore che il nostro padrone di casa, a Brooklyn, ci aveva appena procurato per sostituire quello guasto. Juri e io lo chiamavamo televisore psichedelico. Il video era stato girato nel tipico bar post-industriale newyorkese: un capannone di Chelsea, Williamsburg o chissà dove. La telecamera di Juri vagava tra volti e corpi elettrici, bidoni di gasolio usati come tavolini, eliche larghe due metri appese al muro e passerelle di ferro, poi incrociava una cameriera e si fermava su di lei. Un corpo esile, una faccia che potevi aver visto da qualche altra parte. Aveva un grembiule nero e un berretto da marinaio in testa. Juri la seguiva mentre andava e veniva dai tavoli al bancone, si faceva largo in mezzo al pubblico del concerto, spariva dietro a un pilastro di cemento e ricompariva dalle cucine, finché non sembrava più che lei si muovesse attraverso la folla, ma il contrario: la cameriera era una tavola di legno nel mare mosso, andava su e giù con le onde, affondava e riemergeva, del tutto indifferente alla burrasca che aveva intorno.
Nella scena successiva la stessa ragazza era da sola sul retro del locale. Era inquadrata dalla finestrella del bagno e fumava una sigaretta. Il basso e la batteria picchiavano in sottofondo, e adesso era chiaro che stavamo in riva al fiume dalla parte di Brooklyn: di qua c’erano le ciminiere dello zuccherificio, di là i grattacieli di Midtown Manhattan. Il cortile era uno spiazzo chiuso da una recinzione, con i sacchi dell’immondizia ammucchiati in un angolo e chiazze di neve sporca, e lei fumava appoggiata al muro, il volto alla luce della porta di servizio. Ora non sembrava più una semplice cameriera. Stava lì tutta sola a fissare il fiume, con quel berretto da marinaio e le braccia strette al corpo per il freddo, come se fosse l’ultima ragazza sulla terra. Poi dalle cucine usciva un inserviente messicano: lui diceva qualcosa e lei infilava una mano sotto il grembiule, prendeva una sigaretta dal pacchetto, gli porgeva la sua per accendere. Questa improvvisa intimità sorprendeva il ragazzo, che cominciava a parlare fitto, mimava chissà quale storia e riusciva a far ridere la cameriera finché la porta di servizio si apriva di nuovo, e qualcuno da dentro la chiamava. Lei faceva un ultimo tiro e passava la sigaretta al ragazzo. Lui restava lì un po’ deluso con i due mozziconi in mano, poi ne spegneva uno sulla suola della scarpa e lo metteva in tasca per dopo.
Nella terza scena la cameriera era in primo piano, guardava in macchina ed era molto tardi. Si capiva per il silenzio e perché lei non aveva più la divisa, ma un giaccone e una specie di colbacco di pelo. Stava in piedi sotto un lampione, sospettosa e allo stesso tempo attratta dalla persona che aveva di fronte. Juri domandava, lei rispondeva. C’era qualcosa di strano nel modo in cui fissava l’obiettivo. Dopo un po’ ti accorgevi che l’occhio sinistro divergeva dal destro di un niente, e non riuscivi più a smettere di guardarlo.
Disse: «Sofia Muratore».
«Ventisette. Però mi sembra di averne mille».
«Da un anno, più o meno. Ho fatto un anno da poco. Ero arrivata per stare una settimana, poi ho pensato di fermarmi finché durava il visto, e poi eccomi qui».
«La cameriera. O l’attrice. Avrei voluto suonare la chitarra e cantare, ma sono stonata da far paura. E poi che domanda è, scusa? Io faccio il marinaio».
A quel punto il televisore psichedelico saltò come una vecchia radio che perde la sintonia, diventò grigio e infine tutto verde. Juri cominciò a prendere a pugni un cuscino per la felicità. Disse: «L’hai vista? L’hai vista, Pietro? L’hai vista?»
Noi due eravamo arrivati a New York da tre mesi. L’anno prima, mentre Sofia Muratore sbarcava nel nuovo mondo, Juri Ferrario frugava tra i ruderi di quello vecchio, cercando la casa in cui era nato in Jugoslavia e qualche traccia del passaggio terreno dei suoi genitori. Non aveva trovato niente. Di ritorno a Milano si era chiuso in camera senza degnare di attenzione le domande sul suo viaggio. Passava il tempo guardando film in bianco e nero, fumando quello che riusciva a procurarsi per telefono, mangiando una pasta scondita ogni tanto. Quando alla fine uscì, era smunto e allucinato ma aveva un progetto grandioso per il suo futuro prossimo: voleva andare a New York. Voleva fare la New York Film Academy. E siccome io e lui eravamo cresciuti insieme, avevamo studiato cinema e condiviso case, progetti e l’attuale condizione da niente, voleva che andassi con lui e usassi il mio anno a New York per scrivere un romanzo. Detto così suonava bene, c’era solo il problema dei soldi. Juri fece il conto di quello che ci serviva e poi andò a bussare alla porta dei suoi genitori adottivi, con cui aveva un credito affettivo convertibile in denaro contante. Il signor Ferrario fu generoso. Quanto a me, dicevo sempre di voler scrivere ma non avevo più scritto niente da anni, traducevo i dialoghi delle serie americane e non c’era nessuna ragazza in vista, perciò che cos’avevo da perdere?
A Brooklyn trovammo un appartamento in affitto al secondo e ultimo piano di una palazzina su Columbia Street, al confine del quartiere portuale di Red Hook. Da lì Juri partiva ogni mattina per andare a Manhattan, sulla Quattordicesima, dove seguiva lezioni e seminari mentre io esploravo i dintorni e senza fretta mi cercavo un lavoro. Era il settembre del 2004. La via in cui abitavamo separava il quartiere italiano di Carroll Gardens dal porto vero e proprio, il primo affollato di case, persone e negozi, il secondo un mausoleo del secolo trascorso, con le fabbriche chiuse, le banchine corrose dalla salsedine e infestate d’alghe, i topi a regnare sulle vie deserte. In fondo ai moli i messicani ascoltavano radio latine, tenevano le birre in fresco dentro a secchielli di acqua e ghiaccio, pescavano razze grigiastre davanti alla Statua della Libertà, abbandonata in mezzo alla baia come una vecchia promessa dimenticata. Fu una scoperta inaspettata e commovente. La città possedeva ai miei occhi la luce vivida dei canti di lotta, delle storie d’amore appena finite, di quei ruderi di bombardamenti in cui resiste solo un quadro appeso alla parete, una foto di famiglia dove tutto è crollato. Nei buchi dell’asfalto di Columbia Street pulsavano rotaie di tram, vene sotto pelle. A nord la strada si arrampicava fino alla collina nobile di Brooklyn Heights, diventava una terrazza panoramica sui grattacieli di Wall Street e poi precipitava ai piedi di granito del ponte. A sud si perdeva tra le case popolari, verso i quartieri senza nome dei messicani, domenicani e portoricani, l’immensa pancia di Brooklyn che si estendeva fino a Coney Island. Il nostro padrone di casa abitava laggiù. Era un ebreo ucraino che commerciava in tutto, purché fosse abbastanza usato da essere comprato a niente e rivenduto a un po’ di più: portava in testa la kippah ma sabato o non sabato ogni primo del mese era lì, a riscuotere l’affitto e trafugare una poltrona in cambio di due seggiole traballanti, lasciare in custodia un baule chiuso da un lucchetto, regalarci una macchina del caffè incrostata di calcare come se fosse un premio per i suoi ragazzi italiani. All’inizio il nome di Juri gli aveva acceso un moto di diffidenza, brutti ricordi di Russia che lo spinsero a chiedere spiegazioni. Juri non amava raccontare la sua storia e usò una bugia ben rodata: disse che aveva i genitori comunisti e si chiamava così per via di Gagarin, l’astronauta sovietico. Il padrone di casa ne fu molto divertito. «Comunisti?», disse ridacchiando, come se fosse una parola che non sentiva da una vita. Ci ribattezzò Piotr e Gagarin e ogni volta che ci vedeva gli tornava l’allegria.
I nomi a New York riacquistavano il loro valore originario, quando indicavano il mestiere che facevi, il paese da cui arrivavi o chi era tuo padre. Provocavano alzate di sopracciglia, deduzioni sommarie. Dopo non molto trovai un lavoro da quattro ore al giorno in una libreria di Court Street: il proprietario si chiamava Salvatore Battaglia – Sal o Sally per i negozianti della via, ma io lo chiamai sempre Signor Battaglia. Era un italoamericano di terza generazione. I suoi nonni erano sbarcati a New York da un transatlantico, coperti solo di bambini e stracci; i suoi genitori avevano estirpato il dialetto dalla propria memoria e aperto un ristorante a Brooklyn; lui si era messo in testa di reimparare l’italiano leggendo i classici. Pirandello, Sciascia e Moravia. Pochi mesi prima aveva venduto al fratello la sua metà del ristorante di famiglia, risolvendo una volta per tutte i propri problemi economici e perdendo ogni interesse per gli affari della libreria, un labirinto di scatoloni e scaffali stracolmi. Restituire un ordine a quel caos diventò il mio lavoro. Sapevo di non avere speranze: sfogliando libri d’epoca per quattro ore al giorno, cercando i prezzi nei cataloghi antiquari, separando i volumi da vendere e quelli da buttare avrei impiegato anni a finire, e mi andava bene così. Mi sentivo al mio posto in quella tana, con New York appena fuori dalla porta. Seduto a un tavolo ingombro di carte il signor Battaglia leggeva romanzi di un secolo prima e ritrovava le parole della sua infanzia. Sfogliava il dizionario e gioiva di continue piccole scoperte: piroscafo, sposalizio, ferrovia. Le pronunciava a bassa voce, rigirandosele in bocca come se avessero un sapore, e poi le declamava affinché gli correggessi la pronuncia. Sospettavo che fosse il vero motivo per cui mi aveva assunto. Alla scadenza del visto turistico mi mise in regola, facendomene ottenere uno di due anni: celebrammo il primo contratto della mia vita con gli spaghetti e polpette di suo fratello Vincenzo.
In dicembre Juri terminò i corsi teorici e cominciò a preparare il suo film-saggio. In casa non parlava d’altro. Durante quelle lunghe serate buie, bevendo il vino californiano che trovavamo in quartiere, discuteva con me della trama e dei dialoghi, ma soprattutto di libri, dischi, fotografie, fumetti, tutto il materiale che aveva in testa e che sarebbe finito nel film.
«Voglio usare la musica balcanica», disse.
«A New York?»
«Perché no? Il jazz l’hanno usato tutti».
Secondo Juri la città in cui ci trovavamo era un contenitore universale. Non aveva niente a che fare con l’America, né con il nostro tempo. Era come il palcoscenico di un teatro, che diventava un giardino se solo disegnavi dei fiori, un cielo se appendevi delle nuvole di cartone. Allora, se si potevano prendere l’Amleto o l’Odissea, la Divina Commedia o il Don Chisciotte e girarli a New York, lui avrebbe girato a New York un film sull’assedio di Sarajevo. Mi ricordavo bene di quei tempi. Nel 1992 eravamo in terza superiore. Rividi le foto dei palazzi in fiamme e il giornalista che venne a parlarci durante un’occupazione. Nemmeno Juri era stato sotto le bombe – l’avevano portato in Italia da bambino – ma aveva vissuto quella guerra in un modo che non poteva condividere con me. Io non sapevo che cosa si prova vedendo la tua terra d’origine disintegrarsi, i membri del tuo popolo ammazzarsi tra loro.
«Che cosa ne pensi?», chiese.
«Ma con le bombe come fai? E con i carri armati?»
«Per quello basta il suono, no? E poi non mi interessa la guerra che c’è fuori, ma la vita che c’è dentro. Come a Troia, a Leningrado. Mi interessa la sostanza dell’assedio».
«Penso che sia un film assurdo», dissi. «E che lo devi fare».
Festeggiammo il Natale in un ristorante vietnamita del Lower East Side. Pensando ai miei genitori a Milano e alla cena della vigilia ordinai più di quanto sarei riuscito a consumare; Juri invece odiava le tradizioni, e per lui mangiare o non mangiare era lo stesso. Ragionava ad alta voce. Dunque avevamo un tempo di guerra e una città accerchiata dal nemico, e in mezzo alla città una ragazza. La ragazza era fondamentale. Sarebbe stata inseguita. Sarebbe uscita soltanto di notte. Sarebbe stata nei guai fino al collo. Eppure avrebbe conservato una sua forma di fiducia verso il genere umano, perfino di dolcezza. Sarebbe stata una donna della nostra generazione: realista, per nulla sognatrice, determinata a credere nelle persone più che nelle idee.
«Rispondi al volo, che libro ti viene in mente?», chiese Juri, indicandomi con le bacchette.
«Colazione da Tiffany», dissi io d’istinto.
«Bravo», disse lui. «Io invece pensavo a Dostoevskij».
Scoppiammo a ridere, ordinammo altra birra ghiacciata e sakè bollente e Juri riprese a raccontare. Voleva usare la macchina a mano. Il sedici millimetri in bianco e nero. Voleva riprendere Brooklyn, anzi la costa desolata di Brooklyn che era un porto dismesso lungo decine di chilometri: Williamsburg, Dumbo, Red Hook. Ci sarebbe stata tanta acqua nel film, e ci sarebbe stata anche Manhattan ma vista sempre e solo attraverso il fiume. Ci sarebbero stati i ponti ma nessuno li avrebbe mai attraversati, e moli di traghetti e banchine di treni, non punti di partenza ma solo luoghi da cui dire addio agli amici. E così Brooklyn sarebbe diventata una grande prigione claustrofobica e autosufficiente. Sarebbe stata la notte se Manhattan era il giorno, la femmina se Manhattan era il maschio, e delle mille luci di New York sarebbe rimasto soltanto un miraggio, il riflesso tremolante nell’acqua.
«Riesci a immaginarlo?», chiese.
Pensai che misteriosamente, da dentro un’aula scolastica, aveva intuito la stessa città che io stavo scoprendo per strada.
«Mi sembra già di vederlo», risposi.
Il sorriso di Juri durò troppo poco. Disse che aveva la storia ben chiara in testa, ma gli mancava lei. La ragazza di Sarajevo. A scuola aveva fatto diversi provini, senza che nessuna attrice avesse acceso in lui la minima scintilla d’interesse. Avevano studiato molto e vissuto poco, e si vedeva: piangevano, ridevano, recitavano tutte in un brutto film americano. Ora qualcuno gli aveva parlato di un’attrice italiana, e lui sarebbe andato a cercarla nel bar in cui lavorava. Sperava che fosse la volta buona.
«Come si chiama la tua ragazza?», chiesi, versando il sakè bollente nelle tazzine. Era il nostro brindisi di Natale.
«Laila», rispose Juri. «Laila di Sarajevo».
In transito, pensai, ricordando il biglietto sul campanello di Holly Golightly. Sollevai la tazzina e toccai quella del mio amico.
«A Laila», dissi. «Vedrai che la trovi».
Poi Laila fu trovata, le riprese ebbero inizio e Juri sparì del tutto. Era l’inizio di febbraio. Girava dalle sei di sera alle quattro di mattina, tornava a casa all’alba e si buttava a letto, appena sveglio andava a scuola a preparare...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Prima luce
  4. Una storia di pirati
  5. Due ragazze orizzontali
  6. Sofia si veste sempre di nero
  7. Disegnata dal vento
  8. Quando l’anarchia verrà
  9. Le attrici
  10. Sulla stregoneria
  11. Le cose da salvare
  12. Brooklyn Sailor Blues