Nato a Casal di Principe. Una storia in sospeso
eBook - ePub

Nato a Casal di Principe. Una storia in sospeso

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Nato a Casal di Principe. Una storia in sospeso

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Un padre severo e una madre religiosissima; un'adolescenza fra scuole di preti e bravate ai limiti della legalità; poi un fratello fatto scomparire nel nulla, e un altro rimasto ucciso in un misterioso incidente stradale; e il tentativo di sfuggire a un destino di violenza costruendosi una vita diversa. Amedeo Letizia — ex attore e oggi produttore cinematografico — nato e cresciuto a Casal di Principe, il paese campano reso tristemente celebre dalle guerre di camorra, sceglie di esorcizzare il suo passato raccontando e mostrando a una giornalista di Repubblica come si vive davvero a «Gomorra». Non è un libro di denuncia né un'inchiesta: è la storia di una famiglia italiana in una scheggia di Italia che si preferisce demonizzare piuttosto che capire, il racconto di una giovinezza fatta di entusiasmi e frustrazioni del tutto normali, ma pervertiti dal contatto con la criminalità; è una storia senza eroi e senza mostri, una testimonianza di vita vissuta che non pretende di dare risposte, ma vuole sfatare i pregiudizi e i luoghi comuni per rimettere al centro l'umanità, universale e palpitante, dei suoi protagonisti.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Nato a Casal di Principe. Una storia in sospeso di Amedeo Letizia,Letizia Zanuttini in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Classici. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788875214760
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

1. FUORI DAL PARADISO

«Dove pensi che sia?»
«Sotto il lago Patria. Forse dentro una macchina, la Panda bianca di mia madre».
«Ce ne buttano tanti?»
«Sì, ma trovano solo quelli che cercano».
«L’hanno mai cercato?»
«No».
«Altre ipotesi?»
«Fuori dal Paradiso. Mia madre ha paura che non riesca a entrare. Dice che è successo tutto perché non ha dato retta a Padre Pio».
«Padre Pio?»
«Sì, Padre Pio. Lei da ragazza voleva diventare suora. Poi si fece avanti mio padre, che veniva da una buona famiglia, e le chiese di sposarlo. Lei era già in convento. Era confusa, andò fino a San Giovanni Rotondo per avere un consiglio».
«Lo conosceva?»
«No, ma ci andavano tutti. C’era la fila per la confessione, quando toccò a lei, invece dei peccati, gli raccontò i suoi dubbi. E cioè che aveva sempre voluto fare la suora, ma che le era arrivata questa proposta. Che i genitori insistevano e che mio padre era bello. Gli chiese cosa doveva fare. Lui non rispose, magari stava meditando, poi arrivarono quelli che lo assistevano, non so, forse degli altri frati, e lo portarono via, quasi con la forza. Dice che mentre si allontanava, le gridò: “Segui la tua vocazione o andrai all’inferno”. Però lei non capì tanto bene che vocazione intendeva. E adesso si tormenta, crede di aver sbagliato».
«Al cimitero c’è qualcosa?»
«Niente. È sparito nel 1989 e a casa mia non si sono ancora decisi. Non fa bene. Io la vorrei una lapide, un posto dove localizzarlo, dove mettere una fotografia».
«Come si chiamava?»
«Paolo».
«Quanti anni aveva?»
«Ventuno».
«Era già stato in galera?»
«Sì, al minorile e al circondariale di Santa Maria Capua Vetere. E poi a Napoli, a Poggioreale».
«Con chi stava?»
«In realtà con nessuno, ma ai ragazzi, allora, sarebbe piaciuto stare con Francesco Schiavone».
«E tu?»
«Ero amico di Antonio Iovine. Molto. Subito dopo che avevano rapito mio fratello, andai a casa sua per chiedergli dove stava, cosa era successo, che gli avevano fatto. Mi disse di tornare nel pomeriggio e non s’è fatto più trovare».
«Bell’amico».
«Forse l’ha fatto per proteggermi. O per proteggersi. Avrà chiesto a qualcuno che gli avrà risposto: “Fatti i fatti tuoi”. Magari qualcun altro poi gli ha spiegato come era andata, ma lui avrà pensato che era meglio starsi zitto, sennò partiva la rappresaglia e ci andava di mezzo anche la mia famiglia. Io, però, non ce l’ho con Antonio. Mi è dispiaciuto anche quando l’hanno preso. Nel 2010, dopo quattordici anni di latitanza. Mi ha fatto impressione vedere la sua faccia invecchiata, la lista dei reati. E non ci potevo credere che il mio amico era uno dei trenta ricercati più pericolosi d’Italia. Io gli volevo bene, non potevo immaginarmelo che ammazzava le persone».
«Un’amicizia innocente?»
«No. A Casal di Principe non c’era niente di innocente. Anche quando giocavamo, giocavamo a farci male. Per farti un esempio: quando ci lanciavamo addosso i raudi, aspettavamo a tirare fino a un attimo prima dell’esplosione per non lasciare nessuna possibilità di fuga a quello che volevamo colpire. Infatti una volta me n’è scoppiato uno in mano».
«Ma tu hai capito perché l’hanno preso, tuo fratello?»
«L’avessi capito non starei qui. Mi ero messo in testa di andare a casa di uno dei capi con lo SPAS-12 e dirgli: “O mi racconti tutto o ti ammazzo”».
«Non erano latitanti?»
«Sì. E si muovevano da una casa all’altra, non dormivano mai nello stesso letto, ma io potevo sapere dove si fermavano, e anche con un certo anticipo».
«E come?»
«Avevo amici informatissimi».
«Ti avrebbero ammazzato».
«Non è detto».
«Vabbè. E allora perché non staresti qui?»
«Sarei finito come loro».

2. SEGNI PARTICOLARI

È simpatico. Un’aria da che ci faccio qui? Il sorriso vago di quello che pensa di averla sparata grossa, o di stare per spararla. Potrebbe essere timidezza, oppure un residuo di arroganza casalese, anche perché ogni tanto lo becchi con il mento in fuori e la mascella indurita. Rabbie antiche e rusticane, devono essere, che tiene a bada come può. Porta degli occhiali con la montatura bianca e nera, lievemente frivola per uno alto, robusto e con la testa da antico romano biondo. Li tiene inclinati in avanti, un po’ storti. E poi, il linguaggio. Spiazzante. Perché certe volte parla come uno che non è mai uscito da Casale e, altre, sfodera finezze e ironie da uomo di mondo. Solo che non te l’aspetti. Poi ti ci abitui, ma ti frega sempre: pensi di essere sulla stessa lunghezza d’onda, arranchi dietro i suoi paradossi, credi di aver capito tutto e invece inciampi nell’equivoco, nella suscettibilità. E lui diventa ombroso.
Deve avere faticato come un mulo per levarsi di dosso la postura strafottente. Questo lavoro di depotenziamento ha prodotto un’andatura un po’ da orso, ma leggera, non sai mai quanto inoffensiva. Anche i boss in manette sembrano orsi: camminano solo più veloci, perché sono alla catena e i poliziotti hanno fretta di ficcarli in macchina. Però lui non simula, certe gentilezze deve averle imparate da piccolo. Alle elementari ha partecipato anche a un balletto, costretto dalla cugina maestra di danza – senza allievi maschi – a indossare la calzamaglia del principe scontento. E i gesti lievi li ha appresi dai preti. Tre anni di seminario. Poi, più da grande, tre mesi in monastero, ma per nascondersi, anche se in realtà non lo cercava nessuno.
Si chiama Amedeo Letizia, ha quarantasei anni e adesso è un produttore cinematografico. A Roma. A Casal di Principe, invece, avrebbe potuto essere un boss, un cadavere, un latitante, un ergastolano. L’apprendistato era quello. E la compagnia anche. La casa dei nonni materni era a due passi da quella di Francesco Schiavone, il futuro Sandokan; i compagni di seminario, gente oggi sepolta sotto terra o in galera; i compari di bravate, Riccardo Iovine, Corrado De Luca, Vincenzo Della Volpe, finiti con condanne a due cifre. In casa erano cinque figli, tre maschi e due femmine, dei maschi è rimasto solo lui.
Un paio di anni fa il giornale mi manda a Casal di Principe. C’è un servizio fotografico, bello, di bar specialmente: lo ha portato Valerio Bispuri, uno che lavora in Africa, Asia, America Latina. Ne ha viste, e non si ferma al colore locale. Per esempio, i suoi bar casalesi trasudano una torva modestia che contrasta con l’immagine sguaiata del clan più aggressivo, potente e internazionale degli ultimi decenni. In redazione discutiamo il taglio da dare al servizio, dev’essere un racconto in linea con quello sguardo, per descrivere la normalità di un paese che tanto normale non è. Nessun Circo Barnum della camorra. A me non dispiace entrare in una storia attraverso le fotografie, è come seguire una traccia; e comunque si può sempre deviare, scegliere un’altra pista. Non sarà un reportage dal nostro inviato all’inferno, ma un resoconto sobrio sulla vita quotidiana in un paese che è diventato il toponimo della criminalità organizzata. Sull’avere Casal di Principe scritto sui documenti, sull’andare a scuola con i figli dei latitanti, sulla possibilità, o l’impossibilità, di restare persone perbene.
Nei bar – per inciso – è stato consumato anche qualche omicidio: andarci a fare quattro chiacchiere da sola non è una grande idea. Amedeo è l’unico casalese che conosco, e nemmeno da tanto. Gli chiedo di accompagnarmi. Lui ci pensa un paio di giorni e poi acconsente.
Quando uno ti porta nel posto in cui è nato, nel viaggio di andata ti racconta la sua famiglia, l’infanzia; ti disegna una mappa mentale di fatti, persone, relazioni. Succede anche stavolta, ma lui comincia a tirare fuori episodi terribili, dolorosi, talvolta picareschi. Sembra parli di un’altra vita, o di un’altra persona. E dice una frase che poi ripeterà altre volte: «Io mi credevo che noi casalesi eravamo normali e i pazzi eravate voi. Mi ci sono voluti anni per resettarmi».
C’è voluto pochissimo, invece, per capire che i viaggi in macchina sono la corsia preferenziale del suo flusso di coscienza. Guida, guarda la strada, ed è come se uscisse da sé. Sono i momenti in cui è più spietato. Con la sua storia e con gli altri. È capace di diventare aggressivo, perfido, lamentoso. Bisogna lasciarlo perdere e cercare un modo per entrare in empatia con la sua angoscia. Più avanti, la visualizzerò, la sua angoscia. In forma autostradale: un tunnel infiltrato da banchi di nebbia.
Da lì in poi, memoria e reticenza devono aver iniziato un conflitto sottotraccia, perché, sei mesi dopo, mi telefona e mi chiede di scrivere la sua storia. E fissa un appuntamento per la domenica successiva, a pranzo, così – dice – ne discutiamo. Cosa fatta, insomma. Solo che io non ho nessuna intenzione di scrivere la sua storia: troppo dolore, troppa fatica, troppe rogne varie ed eventuali. E mi allarma un po’ l’improvvisa disponibilità a raccontare, a me e al mondo, i fatti suoi. Non sembrava particolarmente egocentrico o vanesio, cos’è questa novità? Ma una proposta simile non si può declinare al telefono. Meglio a voce, domenica, dopo mangiato. E la domenica, mentre suono il campanello, sono ancora fermamente decisa a defilarmi. Devo solo trovare un modo gentile per farlo.
Un paio d’ore dopo ci sono finita dentro e non so bene come. Risucchiata, probabilmente. Sprofondata nella sua storia che, ufficialmente accampata nel riserbo familiare, nella cristiana rassegnazione o tra gli stracci della rabbia, continua a martellare tutti i giorni. Tutti i giorni. Chi si è salvato lo deve raccontare, ci si salva anche per questo. E chi non si è salvato ha diritto anche lui alla sua storia, perché ogni storia ha una fine e così, almeno, anche la sua finirà.
Bisogna trovare una lapide per un fratello che è un’anima persa, fuori dal Paradiso o sotto il lago, in una Panda bianca. Che poi Paolo Letizia era uno da Porsche, non da Panda: aveva una 944 S nero metallizzato, un modello non proprio classico, bombato dietro. Ma quella sera, per caso, era con la Panda della madre, che aveva appena preso la patente, a quarant’anni.
Quella Porsche, custodita in garage con un telo sopra, come un sudario, ha un ruolo funesto nella storia della famiglia. Perché Leonardo, il fratello più piccolo, di diciannove anni, voleva prenderla, provarla almeno una volta. Continuava a chiederla. Il padre non gliela dava e non la faceva toccare a nessuno, ma un giorno di novembre del 1991 si arrese. C’erano i parenti a casa per l’onomastico del ragazzo che, dopo pranzo, la chiese di nuovo. Zii e cugini fecero il tifo per lui. Non c’era partita: il padre, sopraffatto, gli consegnò la chiave. Leonardo andò con un suo amico a farsi un giro sulla Porsche. Finalmente. Non tornò più. Un sorpasso, una sbandata, lo schianto contro un lampione. I testimoni dicono che non correva neanche troppo, per la media di Casale.

3. BOLIDI

Guido Letizia, il padre, fu avvisato per telefono all’ora di cena da una sorella che, per una sorta di vocazione, si trovava spesso a dare cattive notizie. Il padre tendeva a ridimensionarle, quelle notizie, convinto che lei amasse ingigantire. Anche quella volta non pensava che fosse così tragica. Ma quando arrivò lì in macchina, vide la ressa, poi i rottami della Porsche, e si dovette ricredere. Mentre mi racconta di quella sera, Amedeo, che in tutti questi anni non ha imparato a difendersi dai ricordi, ci sta ancora male, si vede. «Cercarono di fermarlo, mio padre, ma lui si fece largo, entrò nell’abitacolo e si prese in braccio mio fratello “come la Pietà di Gesù Cristo”. L’ha ripetuta così tante volte questa storia della Pietà. E lì per strada, davanti a tutti, chiese a Dio di accogliere immediatamente suo figlio in Paradiso, ma lo implorò anche di dargli la forza perché quella era una prova troppo grande. Mio padre ha un rapporto diretto con Dio. Poi si mise a discutere con i carabinieri che volevano portare Leonardo all’obitorio, mentre lui pensava di caricarselo in macchina e andare a casa. Se ne tornò da solo e disse a mia madre che Leonardo era in ospedale e stava abbastanza bene. Lei non ci credette. Perché sapeva che non avrebbe mai lasciato un figlio ferito, da solo, all’ospedale».
Fu un incidente inspiegabile, la macchina non poteva avere quel tipo di incidente. Perché era perfetta. La Porsche di Paolo stava ferma in rimessa come un monumento funebre, solo il padre poteva muover...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Esergo
  3. 1. Fuori dal Paradiso
  4. 2. Segni particolari
  5. 3. Bolidi
  6. 4. Padre nostro
  7. 5. La verità?
  8. 6. La notte
  9. 7. Apprendistato
  10. 8. Paese mio
  11. 9. Ernestina
  12. 10. Gin Fizz
  13. 11. I compari
  14. 12. I soliti ignoti
  15. 13. Lettere dal carcere
  16. 14. Essere casalesi
  17. Ringraziamenti