Per sempre carnivori
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Per sempre carnivori

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Per sempre carnivori

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Una testa mozzata, tre folli tragicomici insegnanti precari in un istituto tecnico che cade a pezzi, ragazzine pericolose per gli altri e per se stesse e padri in lotta con il passato. Sono questi gli ingredienti di una storia sulfurea fatta di comicità nera, notti brave e giovani professori che al mattino si scuotono di dosso le imprese delle ore precedenti e impugnano il registro tra studenti consapevoli che la scuola non potrà condurli verso nessun mondo migliore.Leone Polonia, io narrante del romanzo, è uno di questi tre docenti. Bevitore incallito, lingua tagliente, alle spalle una famiglia rasa al suolo e davanti la prossima ragazza da portare al letto. Lo sfondo è la provincia di Taranto, vera terra di confine fatta di piccoli imprenditori a corto di moralità e grottesca malavita locale. Tutto procede identico a se stesso, fino a quando Leone commette un errore che non gli sarà perdonato. Aspro, lucido, liberatorio, Per sempre carnivori è uno spaccato della provincia più nascosta, il romanzo sulla scuola italiana che non emerge mai dalle cronache ufficiali, e che solo la letteratura riesce a scoperchiare.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788875214944
Argomento
Literatura
Categoria
Clásicos
Una testa.
Per quanto ne so io, la faccenda della testa era il finale che c’eravamo scelti fin dall’inizio.
Accaddero molti fatti, prima. Eravamo tre animali braccati, ma eravamo anche tre predatori di quelli buoni e adesso, guardateci. Guardateci adesso! Mezzi nudi, al freddo, in questa maledetta spiaggia. Mako con la testa mozzata, il dentuso con la sua ancora attaccata al collo, nascosta tra le gambe, le mani nei capelli, io immobile con qualcosa che mi formicola lungo la spina dorsale.
Ma devo per forza tornare indietro, altrimenti quella testa resta lì, senza senso, e invece c’è da dire, eccome se c’è da dire...
Un lampeggiante scuote l’alba e un altro gli va dietro. Arrivano due auto della polizia e dietro un’ambulanza, ma Mako mica ce la fa. La testa non gliela riattaccheranno di sicuro e allora sarebbe meglio chiamare il becchino e prepararsi in battuta a un’orazione funebre di grande effetto piuttosto che invocare i camici bianchi coi loro inutili marchingegni. Un beverone nero gli esce dalla base del collo e la sabbia ne è impastata. Io non riesco ad alzarmi, nondimeno questo sarebbe il momento di tirare fuori la rivoltella che fu di Paola, spararmi un colpo alla tempia e chiuderla qua. Però non ci riesco. Non ce la faccio.
Torno indietro, dicevo, e vi racconto questa storia di vittime e carnefici, ma forse anche di amore e passione e io credo che è probabile che un giorno, chissà, fra trent’anni, qualcuno nel valutare il caso dirà che si trattò solo d’amore. Niente di più e niente di meno.
Lavoravo come portaborse di un vecchio avvocato cieco che mi ripagava dei servigi a calci in bocca e offese al limite del vilipendio ai morti. Per ficcarmi in questa situazione m’ero anche dovuto prendere una laurea in giurisprudenza. L’avvocato aveva un occhio azzurro e l’altro spappolato dagli zuccheri. A quello azzurro gli mancavano in diottrie nove tacche. Io gli facevo da ragazzo di bottega, cane lupo, bravo, zerbino, damigella di compagnia...
L’avevo soprannominato Omero ed è inutile dire che non mi pagava e quando gli saltava la mosca al naso mi chiamava «ebbbreo dimmerda». Io non so nemmeno se sono ebreo e non me ne importa niente. Ma sì! Magari il mio naso è un po’ camuso e ho gli occhi mediorientali, ma da qui a essere ebreo ce ne passa. Lui però vedeva tutto distorto da quell’occhio azzurro e allora...
Un giorno in tribunale incontrai un procuratore giovane e rampante che aveva deciso di diventar ricco in dieci anni. Mi sistemo, mi diceva, poi mi metto con una ragazza di buona famiglia, mi compro una casa in centro, mi sposo, faccio due figli, e poi passo a loro lo studio ben avviato. Questo mi diceva.
A me a esser sinceri facevano senso lui, l’avvocato, il tribunale e compagnia cantante, ma questo perché ero io il disadattato. Io credevo ancora che un uomo dovesse guardarsi intorno, cercarsi dentro, essere solidale con l’inferno che si trascina dietro, mentre ’sto procuratore voleva un quadrilocale e ’na rattabile coi soldi. E come dargli torto? Sempre di inferi si tratta. E comunque non avevo voglia di stare a sindacare sui deliri altrui e neanche adesso che sono messo come sono messo potrei dargli in testa.
«Ho diciott’ore a Ginosa, in un istituto tecnico per ragionieri... una scuola privata legalmente riconosciuta... lo faccio per tenere un piede nella scuola... non si sa mai, sai, uno stipendio sicuro ci vuole... un fisso... ma lo studio m’assorbe troppo tempo... t’andrebbe di prendere dodic’ore, tre al serale e nove al diurno... scienza delle finanze e diritto?»
Questo mi disse il barbabietola di procuratore che incontravo in tribunale.
Sì, perché no?... come si fa? Boh! In qualche modo vedremo il da farsi...
Proviamo.
Non avevo una gran considerazione degli insegnanti, ma se è per questo non ce l’avevo neanche dei bidelli, dei giocolieri e degli avvocati con gli occhi spappolati, sicché avrei provato a fare il ciarlatano e mi sarei giocato la carta educativa.
Lo guardai in faccia e ulcere gialle e spente gli uscivano dagli occhi di fabbricatore di patrimoni, al procuratore.
«A Ginosa, hai detto!»
«Sì... sono quattro fesserie perché quella è gente che non capisce niente e...»
Come te, pensai. Credi che la tua cravatta coi fili tirati e l’etichetta consumata ti dia una patente di professionista intellettuale, ma è capace che quei pezzenti seduti dietro i banchi sentano il fuoco sacro come e meglio di te, marpione.
Gli domandai dei soldi e lui si fece una risata fa’ che mi stava stendendo il sudario sulla calotta cranica. Lo facevamo per la gloria e dodici punti da inserire nel totalizzatore del provveditorato. Se erano i soldi che volevo sarebbe stato meglio indossare un’autoreggente e finire in via Dante a succhiare gelati alla lue. No, niente denari o quasi. Ma puro e semplice investimento sulla tua persona che, chissà, magari avrebbe prodotto una cattedra oraria da qualche parte lassù, nel nord magnetico, con gli omaggi della ditta.
È andata. Lo guardai di nuovo, ma quello s’era già involato lungo il corridoio delle cancellerie fallimentari e allora? Aggiudicato, falso procuratore dei miei stivali, ti alleggerisco il carico e mi pelo questa gatta murgese.
Avevo venticinqu’anni.
Se ti deve morire un genitore, spera sempre che sia tuo padre. Gli uomini sono più deboli delle femmine e allora diciamo che, sette volte su dieci, dovresti farcela. Quando viene a mancare una donna in una casa, la casa si fotte sotto i tuoi occhi. Se invece a crepare è la componente maschile le cose vanno meglio. Certo, un lutto è sempre un lutto, per l’amor di Dio, ma resta la considerazione che la casa se ne sta lì, in piedi, immobile, e qualcuno la deve pur mandare avanti ecceter’eccetera.
Io, mia madre e mio padre avevamo abbandonato Taranto e c’eravamo trasferiti in una decrepita villetta in stile messicano, sulla costa, a venticinque chilometri dal centro, sullo Ionio, tra fichi d’india vizzi e pallide dune. Due mesi dopo mia madre aveva avvertito una fitta al fianco ed era volata in cielo finendo a cavalcare le nuvole e allora Nino e Leone Polonia s’erano ritrovati a guardare il muro della cucina senza prendere una che fosse una decisione: spaghetti? bistecca? Al diavolo! Trecento grammi di spalla e pedalare!
Avevo pianto quand’era morta mia madre?
Sì. Me l’ero stretta al petto e avevo urlato contro tutto e tutti e m’ero detto che uno non dovrebbe mai abbassare la guardia, né di fronte all’ultimo dei pezzenti né di fronte a Dio. M’ero detto che stavamo in guerra, che la guerra era partita con la mia nascita e quel giorno invece di fare dei prigionieri era morta mia madre. Pensai che mia madre non m’avrebbe più svegliato la mattina alle sette, non m’avrebbe più chiesto come andava a metà giornata e che non mi avrebbe più guardato negli occhi come solo una madre sa fare. Pensai che mio padre sarebbe impazzito perché anche in questo le donne hanno una capacità di reazione migliore. Il vedovo invece non impazzì perché in fondo era già pazzo. Solo cominciò a disinteressarsi delle sue emorroidi e prese a bere smodato senza mai alzare le mani su di me o alzare la voce fino al giorno in cui mi disse che null’aveva più senso, ormai.
«Hai ragione!»
«No, Leone, non dire così... tu sei giovane».
Sarebbe stato meglio che m’avesse ficcato un coltello tre dita sotto il capezzolo sinistro, quel fottuto, ma non lo fece e restammo lì, in quella casa sul mare, due infelici, con lo sciabordio del Mediterraneo a intossicarci giorno e notte, coi cani randagi a grattare la pattumiera, coi topi d’appartamento che si facevano ogni giorno più temerari fino a che mio padre non riuscì a prenderne uno che cercava qualcosa in garage, lo trascinò in spiaggia e lì lo bastonò con una mazza intorno a cui aveva avvolto del filo spinato.
Cristo santo quante gliene diede! A santo Lazzaro, lo ridusse. Come una creatura primitiva, mio padre sollevò quel bastone una dozzina di volte e ogni volta che un boccone di carne o un grumo di sangue saltava o restava intrappolato all’acciaio puntuto i suoi occhi crescevano di volume e intensità.
Mio padre era magro e nervoso e quella volta gliela fece pagare, al ladro. Gli fece pagare la morte della moglie, il denaro perso, il figlio disadattato che si ritrovava, la casa isolata di fronte al mare, le seghe mentali che era costretto a tirarsi, il carovita, il deficit pubblico e le emorroidi che ormai gli esplodevano nei calzoni.
Cartella esattoriale sotto forma di clava, di questo si trattò. Non so che fine fece il ladro di polli. Per quanto posso immaginare lo staranno imboccando con un cucchiaino da caffè mentre cerca di legare un elastico al dito medio di un immaginario nano compagno di giochi, ma invocando la legittima difesa ci ripulimmo anima e fedina penale in battuta, io e mio padre.
La scuola si trovava in mezzo ai monti, al confine tra Puglia e Basilicata. Il paese si chiamava Ginosa ed era fatto di case bianche arrampicate su un’altura e strade che puntavano tutte verso la notte. Più si incontravano strade e più ci si avvicinava alla notte. Notte e asfalto erano tutt’uno. Il paese a nord terminava in una gravina. La gravina era un vallone roccioso dove nei secoli bui i pastori portavano le greggi dormendo sulla paglia e scopandosi i figli a turno. La montagna nera era emmental lavico, buchi, anfratti, doline, capre con le corna a buccina, corsi d’acqua effimeri, lame. Un posto perfetto per gli assassini e per la passio christi. Dove finiva il paese e cominciava la gravina c’era un castello, una sorta di fortezza bugnata con un fossato e un portone che davano sul nulla. Dietro il portone salomonico non c’era niente, ma quel muro ciclopico e quel portale facevano scena. Il castello s’affacciava s’una piazza pavimentata a chianca leccese e sulla stessa piazzetta denominata dell’Orologio s’affacciava anche un monastero. Il monastero era pressoché in rovina. L’ingresso, il cortile e i muri erano grigi. Era un posto squallido con le grate di ferro pesante alle finestre e scaloni levigati dalle suole nei secoli. La scalinata principale si diramava in due direzioni e all’apice dei gradoni ricongiunti c’era una vecchia armatura ammaccata che adesso veniva protetta da un’edicola chiusa a chiave. Ogni sottoscala era una latrina. Dai muri veniva fuori un odore di muffa, piscio e acido fenico da sgommare e le luci erano da cimitero di campagna. Sapeva di morte, quel posto. Uno ci entrava e diceva qui ci schiatto. Se non sto attento qui ci lascio le penne.
Mi presentai al gestore la sera dopo aver mollato l’avvocato.
«Perché te ne vai, Leone?», mi chiese il guercio.
«Non lo so», gli risposi. E così lo zittii.
La figlia venne a controllare che non fottessi nulla dallo studio, ma io gli grattai lo stesso una rossiccia tigre di terracotta con un buco nel didietro al posto della coda. E diedi fuoco alle carte.
Lasciai l’avvocato nella merda, ma questo non era un problema mio. Avrebbe trovato altri pagliacci della mia specie da far ballare al ritmo del suo piffero e allora andava bene così: che ci finisse lui, per una volta, sotto.
Mi presentai al gestore della scuola vestito alla decente. Pure la cravatta sfilacciata m’ero messo per l’occasione, nonché la maschera del convinto, dell’illuminato, del missionario della pubblica istruzione. Soffocavo anche se il freddo era pungente. Pungente come sa esserlo nella Murgia a novembre.
I volti pallidi, squallidi che mi ballavano la rumba intorno non erano che ristrutturazioni lasciate a metà dei sogni che mi trascinavo dietro a ogni risveglio. Ogni posto, ogni luogo in cui mettevo piede era pieno di maschere e non c’era mai abbastanza aria per tutti.
Ginosa era un paese agricolo dove la gente teneva i soldi sotto al mattone e si scopava le nuore, le cognate e le suocere a un ritmo blues mano lenta. Gli uomini portavano i baffi e gli orologi col cinturino di pelle marrone. Le donne avevano i capelli ricci anche se a dire il vero non m’interessavano le donne di Ginosa, non in quel momento almeno.
La testa di Mako viene illuminata da fasci di luce che saettano da tutte le parti e l’alba cerca di trattenerla sulla sabbia. Un sangiovanni marino, questo mi sembra. Un testone importante, il suo, che una volta se ne stava attaccato a un corpo di un quintale e mezzo.
Il dentuso manco si chiama dentuso ma non è importante perché ho da dirvi cose fondamentali e come si chiama il dentuso non cambia lo stato degli eventi. Il dentuso forse è ubriaco o forse lo è stato fino a un minuto fa, ma adesso gli è passata di botto, la ciucca. Io li guardo entrambi e in questo momento mi rendo conto che con ogni probabilità non potrò avere figli, vivere in una bella casa, giocare a pallone coi ninetti, smarcarmi sulla fascia...
È incredibile, ma la vita non procede secondo un andamento lineare. Il tempo ci omaggia e ci devasta. Macellai e sacerdoti si alternano davanti ai nostri sensi come gli altari e i mattatoi. Un istante prima spacchi, un istante dopo ti ritrovi acca per il resto della tua esistenza.
Il gestore dell’istituto per ragionieri era un uomo coi baffi sporchi di tutto quello di cui si possono insozzare i baffi. Il gestore si chiamava Antonio e masticava sempre la punta dei suoi mustazzi e rideva coi denti sparpagliati nella bocca e la lingua era spessa, rossa e sanguinante nella parte inferiore. Antonio rideva, si grattava le palle che di sicuro teneva infiammate e prendeva accordi col sottoscritto non da s...

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