CONVERSAZIONE CON CARMELO BENE
DI ADRIANO APRÀ E GIANNI MENON
Non c’è parola, frase, giudizio che Carmelo Bene enunci nel corso di questa intervista che non entri a far parte di un metodo, senza il quale il suo discorso non sarebbe motivato, e la violenza che lo anima giustificata. Discorso e violenza che stabiliscono uno stretto legame con il resto del suo lavoro (qui e là, uno stesso metodo e una stessa pratica), cosa che se non deve farci vedere questa conversazione come un prolungamento vitalistico dell’altra attività, quella che lo qualifica, ci obbliga comunque a praticare, più che per chiunque altro, un’inserzione con cui cogliere il testo di questa intervista sullo stesso versante che produce i suoi film. Tuttavia non possiamo fare nostro questo discorso, come invece facciamo nostri, e interamente, il suo cinema (che si sta producendo) e il suo teatro (che dopo un’attività furiosa sembra essersi esaurito, o trapiantato altrove). Questa affermazione pone le basi per la risposta alla domanda, inevitabile, che la precede: se tutto ci oppone a lui perché pubblicare questa conversazione? La risposta più esauriente per chi può trovare sorprendente, e immotivato, lo spazio concesso a un discorso che, preso alla lettera, appare impregnato d’idealismo, è contenuta in un’altra domanda: perché questo salto, questo solco tra l’opera e il suo commento, tra le idee così come Bene le espone, e le stesse quando hanno assunto una forma cinematografica? Porsi questa domanda (che è una risposta all’altra) è meno banale di quanto possa sembrare, perché non si tratta qui solo dello scarto inevitabile che si produce tra il discorso di un film e il discorso sul film, ma di registrare una fondamentale opposizione [...] tra due discorsi.
Questo campo di opposizione di cui si nutrono i suoi film, e che pervade ogni sua affermazione (e che costituisce invece l’assenza più vistosa del suo libro, L’orecchio mancante, che registra appunto questa mancanza di opposizioni produttive), consente, crediamo, alle parole di Bene di sganciarsi dal loro contesto polemico (e di ridurre quest’ultimo alle proporzioni di pretesto e di occasione) e dalla loro pretesa di indicazione esterna, per illuminare al contrario proprio il suo lavoro. Al centro del suo cinema c’è un mito (quello dell’opera, dell’autore, del teatro, della scena) e un personaggio che lo incarna e se ne nutre, mito e personaggi bruciati dalla pratica che sembra produrli. Ma per una economia propria di questa pratica, l’attività esercitata su un suo dominio naturale (scena, personaggio) non può fare a meno di mettere in gioco l’attore, che di questa normalità costituisce la paranoia. All’ombra di questa paranoia, chi pone delle domande deve accettare il ruolo della passività e dell’anonimato, perché si trova al margine di una voce che si nutre costantemente della propria mitologia (non è davanti al magnetofono, ma in un’altra sede, quella di Nostra Signora dei Turchi, di Capricci e soprattutto di Don Giovanni, che dobbiamo cercare, di questa mitologia, l’esaurimento e la critica). [Questa puntigliosa e un po’ contorta premessa, aggiunta per pressione di alcuni redattori – Enzo Ungari e Franco Ferrini direi, nel ricordo – ma evidentemente condivisa dai due intervistatori, cerca di porre una «distanza» fra le posizioni teoriche di Cinema & Film che allora preoccupavano e condizionavano alcuni di noi e le affermazioni «politicamente scorrette» di Carmelo Bene (il modello era stato una analoga premessa dei Cahiers du cinéma a un’intervista a Eric Rohmer). Oggi, ma forse già allora, una tale presa di posizione mi appare un po’ stonata: segno, in ogni caso, di tempi tanto turbolenti quanto procreativi. Aggiungo che l’intervista si era svolta a notte inoltrata, con abbondanza di alcol (soprattutto da parte di chi lo reggeva assai meglio di me), nella casa di Bene in via Aventina. Adriano Aprà, 2010 – Fra parentesi quadre e in corsivo alcune integrazioni all’intervista.]
Cinema & Film: Se non abbiamo capito male, il tema principale di questa conversazione da voi proposta dovrebbe essere il rapporto fra critica e autori. C’è una occasione e un fatto: il fatto è Don Giovanni, l’ultimo film di Carmelo Bene, l’occasione è la presenza del film al prossimo Festival di Venezia. [Di fatto, il film era stato presentato poco prima alla Quinzaine di Cannes del 1970; non mi risulta una successiva proiezione ufficiale a Venezia.]
Carmelo Bene: C’è l’esigenza di una nuova critica. Nel mondo, non solamente in Italia. È necessario stabilire una qualsivoglia propedeutica, arrivare a un discorso più ampio attraverso un facsimile, una cartina di tornasole: tanto che si propone, al limite, di parlare di un film specifico, il mio.
È una novità. Spesso io mi sono rifiutato con delle persone perché non avevano opere da farmi vedere e io il discorso fantapolitico lo rifiuto, se non altro perché fin dall’inizio dei tempi ha sempre danneggiato gli autori. E poi non è mai servito all’avvento di una critica nuova, vitale, giovane nella vecchiaia mondiale.
Piero Panza: Si è detto che c’è un fatto e un’occasione. Ora si tratta di superare sia il fatto che l’occasione, salvo recuperare il fatto strumentalmente per l’inizio di un discorso e l’occasione come un ulteriore strumento per precisare eventuali programmi. Il problema che prescinde sia dal fatto che dall’occasione è quello di tracciare i presupposti e possibilmente le linee di un metodo critico che aderisca meglio a ciò che intanto gli autori vanno facendo. Visto che, a livello degli strumenti di cui si avvale, la critica si rivela insufficiente. Se non altro perché vede «altri» film, cioè vede film che non hanno niente a che fare con quelli che in realtà passano sugli schermi. Proprio a livello oculistico. Questo risulta, statisticamente, sia a livello della critica gazzettiera che a livello di alcune riviste specializzate, dove si corre il rischio di prestare maggiore attenzione al metodo e alla propria coerenza col metodo piuttosto che aggiornare il metodo di volta in volta sui film.
In sostanza la tanto sbandierata funzione di mediazione della critica non c’è. Si dà ora l’occasione del film di Bene e la prospettiva di Venezia: facciamo l’operazione con gli strumenti che abbiamo a disposizione, e che sia un’operazione politica.
C&F: È interessante che tu, autore, voglia guardarti intorno e attraverso una serie di scambi di informazioni condurre una azione di allargamento, di approfondimento, di una tematica così complessa e irrisolta.
Ora, però, se per fare questo lavoro tieni presente, e nell’impostazione e nella previsione delle conseguenze, l’intero panorama, l’orizzonte generale in cui ti muovi, il lavoro è importante; se invece si tratta di una limitata strumentalizzazione e le prospettive di lavoro sono circoscritte esclusivamente alla persona e all’opera di Carmelo Bene, la cosa è meno importante. Politicamente: il vocabolo lo avete usato voi.
Né gli obiettivi, né le ragioni, né i mezzi dell’operazione sono molto chiari e sarebbe bene che fossero chiariti maggiormente, se non altro per intenderci meglio, se non altro per capire in che senso viene usata la parola politica. Ammetterete che è una parola poco chiara.
Finora, soprattutto dal tono, sembra più che altro un’intervista ai «critici», come dite voi (in realtà, almeno per quanto ci riguarda, il termine è fastidiosamente inadeguato, troppo o troppo poco). Ora se a Carmelo Bene danno fastidio, com’è noto, le interviste, a noi può dar fastidio essere intervistati, inquisiti da lui in veste di autore.
P.P.: L’intervista, come strumento critico, è un modo non per conoscere le idee e la volontà dell’intervistato ma per sovrapporre a lui e alle opere le proiezioni mitiche e della volontà e del metodo dell’intervistatore. Questa è la meccanica: figuriamoci se abbiamo intenzione di riproporla, sia pure in senso inverso.
Se parliamo di Carmelo è perché Carmelo in questa sede è Don Giovanni, è il suo film, e perché questo film ha seminato lo sgomento e lo smarrimento nella critica ufficiale. In questo senso rappresenta un ottimo punto di partenza per una reinvenzione dei dati della critica così come finora è stata esercitata.
C&F: Carmelo Bene va dicendo di essere l’autore di un solo film, questo. Ma è anche l’autore di altri due film e ha dietro di sé dieci anni di teatro che sono probabilmente il più importante fatto in Italia nel dopoguerra. Queste sono cose ineliminabili.
C.B.: Eliminiamole, per funzionalità. Io voglio vedere con quali armi una critica nuova sfida la critica sportiva, ciclistica, dei gazzettieri, che sono un vero e proprio Cottolengo. Ignorantissimi. Cito, e vi prego di riportare. A proposito dell’«omaggio» a Godard che tutti si sono affrettati a dire che io avrei fatto in Capricci, quando io ho già detto chiarissimamente che Week-end è uno spartitraffico, un semaforo, il film di un vigile urbano: «Des Grieux avvia il motore della sua macchina, l’auto parte di colpo, a marcia indietro, mandando per aria almeno tre biciclette posteggiate nelle immediate vicinanze. Si ferma con uno schianto violento contro la palizzata paraurti». Questo è l’inizio, eccovi la fine: «Improvvisamente, da tutti gli angoli della scena, dieci o venti uomini dall’aria ambigua – forse banditi – che, sotto gli occhi di Des Grieux, attonito, montano sui veicoli, apparentemente in disuso, li avviano e scompaiono tra le quinte. La scena è ora sgombra dei veicoli. Des Grieux è prostrato col viso completamente immerso nella polvere della tomba di Manon, per non vedere più nulla di tutta quella abilità... Con lo scemare del rumore del motore dalle quinte si avverte un rumore di zoccoli e di cavalli. Dal fondo, frontalmente, un gruppo di dieci cavalli e relativi cavalieri e amazzoni invade la scena. La luna è alta». Manon, Edizioni Lerici, scritta nel ’61, pubblicata e messa in scena nel ’64. Vedete? Sono ignorantissimi, non andavano neanche a teatro. Ma cessiamo di parlare di costoro: io, dicevo, voglio vedere per quali metodi una critica nuova si distingue dal ciarpame. Per questo si parla del mio film: in casa Fellini si parlerà del suo, in casa di De Berardinis si parlerà di quello di De Berardinis [A Charlie Parker, 1970, di Leo De Berardinis e Perla Peragallo]. E io sono pronto a seguirvi in quelle case per parlare delle loro opere, perché non sono affatto un passionista delle mie.
C&F: La nozione di critico mi pare ambigua. Nel momento in cui mi si coinvolge con una funzione così precisa io non me la assumo, così come non me la sono mai assunta.
C.B.: Invece è proprio questa la funzione che d’ora in poi voglio assumermi io.
C&F: E la cosa risulta chiaramente dal tuo ultimo film.
C.B.: Ora, i...