Due o tre cose che so di sicuro
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Due o tre cose che so di sicuro

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Due o tre cose che so di sicuro

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Informazioni sul libro

Esistono tanti modi in cui i pettegolezzi di una generazione possono trasformarsi in leggende per chi li eredita. Lo sa bene Dorothy Allison che, con Due o tre cose che so di sicuro, ci regala un memoir intenso e lacerante che è piccolo gioiello. Illustrato con fotografie tratte dalla collezione personale dell'autrice, racconta la storia delle donne della sua famiglia – figlie, sorelle, cugine e zie – e degli uomini che le hanno amate, che spesso hanno abusato di loro e che, ciononostante, ne hanno condiviso i destini. E racconta la storia della stessa Dorothy e del percorso di riscatto che l'ha portata a scrivere La bastarda della Carolina, salutato anche in Italia come un capolavoro, e a conquistare, attraverso la parola e la reinvenzione letteraria, la propria personalissima salvezza.Provocatorio, controverso e brutalmente onesto, il memoir della Allison ha la forza di raccontare di nuovo, da una prospettiva diversa e complementare, un mondo white trash nel quale bellezza e dolore, amore e crudeltà, sconfitta e riscatto non sono mai separabili, ma due facce di un'unica medaglia.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788833890333
«Ora vi racconto una storia», sussurravo alle mie sorelle, nascosta insieme a loro dietro le colline di terra rossa coltivate a fagioli e file su file di piante di fragole. I volti delle mie sorelle erano magri e appuntiti, avevano zigomi alti e occhi irrequieti, proprio come quello della mia mamma, quello di mia zia Dot, o il mio. Bifolchi, ecco cosa siamo, e cosa siamo sempre stati. Ci chiamano anche ceti bassi, plebaglia, classe operaia, poveri, proletari, pezzenti, rifiuti umani, o feccia. Da tutto questo, so far nascere storie. Storie carine o tristi, divertenti o drammatiche. E so adornarle di leggende, con l’atmosfera giusta e un po’ di romanticismo.
«Vi racconto una storia», esordivo così, e iniziavo a raccontarne un’altra. Quando eravamo piccole, riuscivo a catturare l’attenzione delle mie sorelle come si fa con le farfalle, e riuscivo quasi a convincerle che quello che dicevo era tutto vero. «Vi racconterò delle donne che sono fuggite. Di tutte quelle donne leggendarie che sono fuggite». Raccontavo delle streghe regine che cucinavano i loro nemici in grossi calderoni, delle gemme che nascevano dietro la lingua dei mocassini acquatici. Dopo un po’, era la storia in sé a darmi maggiore soddisfazione, addirittura più del terrore che nasceva sulle facce delle mie sorelle, più delle risate, e, che Dio ci aiuti, della speranza.
La domanda più frequente che mi veniva fatta durante la mia infanzia era: «Dove sei stata?» Risposta: «Da nessuna parte». Né il mio patrigno né mia madre mi credevano. Ma nessuna punizione sarebbe servita a ottenere una risposta diversa. La verità era che io non ero stata davvero da nessuna parte – nessuna in particolare, ma in ogni luogo immaginabile. Camminavo raccontandomi delle storie, uscivo dalle nostre terre ed entravo in altre, arrivavo fino alla zona dei negozi e tornavo indietro. Il rossore che mia madre sospettava fosse dovuto a furti o atti di vandalismo era in realtà solo imbarazzo, perché mentre camminavo parlavo a voce alta – raccontavo storie a voce alta – assumendo le identità dei personaggi che inventavo. A volte ero solo me stessa, parlavo ad alta voce come non avrei mai potuto fare a casa. Altre, diventavo qualcuno che avevo visto in televisione o il personaggio di un libro che avevo letto, andavo in luoghi di cui a stento avevo sentito parlare, facevo cose che nessuno di quelli che conoscevo aveva mai fatto, soprattutto cose che le ragazze non dovrebbero fare. Nel mondo che creavo, niente era proibito; tutto era possibile.
Vi racconterò una storia a cui forse crederete.
C’è un laboratorio nel seminterrato del Greenville County General Hospital, raccontavo alle mie sorelle. Ci portano i bambini, laggiù. Se sei povero – se sei nato nella famiglia sbagliata, hai il colore della pelle sbagliato, o vivi nella parte sbagliata della città – ti fregano, ti modificano il cervello. Ecco cosa succede. Questo.
Mi credete?
Io narro storie. Farò in modo che mi crediate. Ci metterò dentro un po’ di roba vera, cambierò qualche dettaglio, aggiungerò l’evidenza dell’indignazione. So come usare la finzione in un universo di solide verità; so come trasformare la finzione in qualcosa di più solido della verità stessa. Il racconto di ciò che è accaduto, o di ciò che non è accaduto ma sarebbe dovuto accadere – quella storia può diventare una tenda chiusa, un pezzo di isolante, una maschera, un rasoio, un attrezzo che cambia ogni volta che viene usato, e che a volte diventa qualcosa di diverso da quello che volevamo.
La storia diventa ciò di cui abbiamo bisogno.
Ci sono due o tre cose che so di sicuro, e una di queste è il prezzo che si paga per non amare nessuna versione della tua vita, tranne quella che hai inventato.
Vi racconto una storia. Se riesco a convincere me stessa, posso convincere anche voi. Ma voi non eravate lì quando ho cominciato. Non eravate voi quelli che cercavo di convincere. Quando ho cominciato c’erano solo gli incubi, la miseria e una testarda determinazione.
Quando ho cominciato c’era solo il sospetto che inventare una storia, mentre andavo avanti, fosse l’unico modo per sopravvivere. E se c’era una cosa che sapevo fare era sopravvivere, e reinventare il mondo in una storia.
Ma dove sono io, nelle storie che racconto? Non sono il narratore, ma la donna dentro la storia, la donna che crede a quella storia. Qual è la verità su di lei? Era una di loro, una di quelle donne leggendarie che sono fuggite. Una strega regina, una fanciulla guerriera, una madre con una borsa di tela, una figlia con le ossa rotte. Le donne fuggono perché devono. Io sono fuggita perché se non l’avessi fatto sarei morta. Nessuno mi aveva detto che quando scappi porti con te il tuo mondo, che scappare diventa un’abitudine, che il segreto di ogni fuga è sapere perché stai scappando e dove stai andando – e lasciare indietro il motivo per cui lo fai.
Mia madre non è fuggita. Mia zia Dot e zia Grace e mia cugina Billie con i suoi dodici figli o giù di lì non sono fuggite. Hanno imparato la resilienza e la determinazione e il prezzo dei compromessi difficili. Nessuna di loro aveva intenzione di sprecare la propria vita, o quella dei propri figli, o di lasciarsi intrappolare in quei difficili compromessi, facendosene schiacciare fino a non sapere più chi fossero, o cosa volessero dalla vita. Eppure è successo. È successo ancora, e ancora.
Fu zia Dot a dire quella frase. «Santo cielo, ragazze, ci sono solo due o tre cose di cui sono sicura», disse. Piegò indietro la testa e sorrise con un sospiro impaziente. I suoi occhi erano lucenti come i raggi di sole che si riflettono sulle scaglie di un mocassino d’acqua. Sputò e scrollò le spalle. «Solo due o tre cose. Proprio così», disse. «Ovviamente non sono mai le stesse, e io non ne sono mai certa quanto vorrei».
Ruth Gibson, 1952
Il posto dove sono nata – Greenville, South Carolina – aveva un odore che non ha nessun altro posto in cui sia stata. Erba bagnata e tagliata, mele verdi spaccate in due, merda di neonato e bottiglie di birra, trucco scadente e benzina. Tutto era maturo, tutto marciva. I cani da caccia mi prendevano a testate i polpacci. La gente urlava in lontananza; i grilli mi esplodevano nelle orecchie. Quel posto era meraviglioso, ve lo giuro, il posto più bello in cui sia mai stata. Meraviglioso e terribile. È il luogo dei miei sogni e quello dei miei incubi: cielo limpido, rosa e blu, terra rossa, argilla bianca, e quegli immensi prati senza fine – salici e cornioli e abeti che si stagliavano per chilometri.
Dorothy e Anne, 1955
Ci sono due o tre cose di cui sono sicura, e una di queste è il fatto che si può odiare e amare allo stesso tempo le cose che non sei certo di capire.
A Greenville, quando ero circa a metà della quarta elementare, arrivò una supplente che si era appena laureata e aveva un sacco di idee. Per prima cosa portò in classe un giradischi e ci fece cantare le canzoni folk – «Cum by yah, my lord, cum by yah!» – finché un’altra maestra prese a lamentarsi del frastuono. Poi cercò di farci scrivere articoli di cronaca: ognuno di noi doveva presentare un compito su qualcosa che aveva sentito al notiziario la sera prima. Se i tempi fossero stati diversi avrebbe potuto funzionare, ma i notiziari serali erano pieni di Birmingham e Little Rock, di autobus in fiamme e marce per la libertà. I nostri articoli degenerarono in litigi chiassosi e insulti mortali, voci che si alzavano in qualcosa di ben diverso da un canto. Ci furono altre lamentele, e il preside intervenne.
La maestra finì per fare scelte che potremmo definire totalmente innocue. Dovevamo disegnare l’albero di famiglia, intervistare i parenti e fare cartelloni da mostrare alla classe.
«Potete usare la Bibbia di famiglia per trovare i nomi delle generazioni precedenti, e se avete delle fotografie incollatele sul cartellone». Soffiò forte su una ciocca di capelli che le era caduta sull’occhio destro. Insegnare era decisamente diverso da come se l’era aspettato. «Oppure potete fare dei disegni e anche tagliare le foto dai giornali per rappresentare le persone... tutto quello che vi va di fare. Basta che siate creativi. Fate qualcosa che i vostri genitori avranno voglia di conservare».
La osservammo rovistare in una delle tasche della gonna fino a trovare una molletta per capelli. Continuò a parlare mentre si sistemava la chioma con entrambe le mani in uno chignon disordinato. «Avete domande?»
«Che cosa vuole che faccia?» Il tono di mamma esprimeva esasperazione allo stato puro, quando tornai a casa quel pomeriggio. Stava parlando con zia Dot, mentre appoggiava i vestiti sul tavolo del soggiorno, spruzzandoli d’acqua e arrotolandoli prima di mettersi a stirare. Ora invece sembrava pronta a tirarmi qualcosa addosso.
«La ragazza non è di queste parti. Giusto?» Dall’altra parte del tavolo zia Dot fece un sorrisetto a mamma da sopra l’orlo della tazza di caffè. «Mi pare di vederli, tutti quei bambini che scrivono il nome della mamma, il nome del primo papà e quello del secondo. Le cose potrebbero farsi complicate».
«Dot!»
«Dai, lo sai che ho ragione. La nuova maestra non durerà più di un mese. Da queste parti le parentele sono più pericolose persino della politica».
«Perché sono pericolose?»
Dorothy e i cugini, 1952
La nonna e i gemelli David e Dan, 1965
Billie e Dorothy, 1953
«Ragazzina, sei troppo grande per fare domande stupide».
«Be’, devo fare una lista. Mi servono i nomi delle persone. Dov’è la nostra Bibbia di famiglia?»
«La nostra che cosa? Gesù. Gesù». Zia Dot agitò una mano nell’aria. «La ragazza non è decisamente di queste parti».
«Non ce l’abbiamo una Bibbia di famiglia?»
«Piccola, certi giorni non abbiamo neanche una famiglia».
«Dot, non cominciare». Mamma piegò sul davanti le maniche di una camicia umida, e poi, cominciando dal colletto, la arrotolò in un tubo. «E tu scrivi quello che sai e basta».
«E che cosa so? Zia Grace una volta mi ha detto che nonna aveva undici figli. Io ne conosco sei».
«Undici?» Zia Dot bevve un sorso dalla tazza e appoggiò il mento sul palmo della mano. «Erano undici? Mi pareva fossero nove».
«Va bene, nove, allora! Ma io ne conosco solo sei».
«Non è necessario contare i morti». Mamma aprì di scatto una camicia da lavoro e la spruzzò furiosamente. «Scrivi quello che sai. Non devi per forza metterci tutto».
«Ma è questo che dovremmo fare».
«Dorothy». L’espressione sul suo volto mi zittì. Conoscevo quello sguardo. Un’altra parola, e sarei finita nei guai.
«Non so il nome di nonno Gibson».
Dot mise giù la tazza rumorosamente. «Andrew, giusto?»
«Andrew James».
«Quindi, Andrew James Gibson e Mattie Lee».
«Andrew James Gibson e Mattie Lee Garner. Basta e avanza».
Raccolsi i fogli e uscii dalla porta di casa. Da sotto la tettoia per le auto, sentii esplodere la risata di zia Dot. «Che dici, dovremmo avere una Bibbia di famiglia?»
Ci sono due o tre cose di cui sono sicura, e una è semplicemente questa: se non possiamo darci un nome le nostre radici sono mozzate, e la corda che regge le nostre vite è fragile come un seme nel vento.
Mia madre morì di sabato, a mezzanotte. Mia sorella Anne era con lei, le teneva la mano e cercava di dirle che stavamo arrivando. Io e mia sorella Wanda eravamo lontane migliaia di chilometri, perse in un parcheggio dell’aeroporto di Orlando. Ero appena atterrata con un volo da Buffalo, ancora tremante per lo sforzo di far andare l’aereo più veloce con la sola forza del pens...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. / Due o tre cose che so di sicuro
  4. Le fotografie
  5. Nota dell’autrice