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COPPI, BARTALI E IL GRANDE TORINO
La radio non aveva terminato il collegamento che io avevo già trascritto l’ordine d’arrivo della tappa e la classifica generale. È questo il primo ricordo della mia carriera. Il primo che ho deciso di riporre nello sgabuzzino della mia memoria. Una radio a valvole, di quelle rettangolari, con otto pulsanti bianchi in basso, le due manopole di lato, i nomi di tutte le città del mondo scritti sopra, a file lievemente sfalsate tra loro, e la mascherina a nido d’ape che sussultava come se fosse percossa per davvero dal fiato caldo di un uomo. Io e mio fratello ci incollavamo alla membrana di quell’apparecchio mentre la voce di un cronista che era scappato per amore con una soubrette del teatro di rivista ci raccontava dalla Francia dell’Izoard e dell’Alpe d’Huez, dei trionfi di Coppi e di Bartali e dei capitomboli di Robic «Testa di vetro», il ciclista che si era fratturato il cranio in una corsa qualche anno prima e che pedalava sempre con un casco di cuoio.
Io ricopiavo tutto su un quaderno – i nomi dei vincitori e degli sconfitti della tappa, il conteggio dei distacchi, misterioso come una tabella di numeri magici, e le nuove maglie della giornata, la gialla, quella a pois, la bianca – li trascrivevo con la sveltezza irriflessiva e sconsiderata di un bambino immerso nel suo primo gioco adulto, e in meno di cinque minuti ero nel cortile della casa popolare dove abitavamo dopo la guerra, felice come se avessi appena seminato il gruppo e tagliato in solitaria il traguardo.
Intorno a me, si riuniva immediatamente un drappello piuttosto scalcinato di ragazzini con le mani in saccoccia e l’aria da saputi. C’era Giampaolo, detto Paulot, futuro operaio specializzato della Fiat, Mario, con le sue magliette sgargianti, e in un angolo monsieur Duval e il Bud. E c’era Giovanni, che ci osservava tutti, dalla sua carrozzella. Io mi stiravo con due dita il colletto della camicia e soltanto dopo essermi ridisegnato con meticolosità la scriminatura dei capelli aprivo il quaderno. Il cielo di Torino, in quella stagione, era sempre di una luminosità accecante.
Pur essendo di statura tra i più bassi del gruppo, tutti erano costretti a prestarmi attenzione. Mi schiarivo la voce con un colpo di tosse, per far salire la tensione, poi recitavo con orgoglio la mia parte: la data, il nome della tappa, la graduatoria e le nazionalità dei corridori. Le città francesi mi ballavano nella bocca come una promessa esotica, e forse devo a quel piacere infantile di avere radunato un piccolo pubblico con le mie notizie se mi innamorai così presto del mestiere.
Quello fu il mio primo bollettino di cronaca, un giornale sportivo improvvisato al centro di un vialetto di ghiaia bianca, nel quadrato di un condominio gremito di sfollati e di esuli dalla guerra.
Il respiro marcio che era salito dal ventre esploso della città fino alle sue colline si stava finalmente diradando. La popolazione aveva abbandonato i rifugi di campagna. Le donne erano tornate ai mercati dei loro quartieri, i maestri nelle scuole, gli scrittori al lavoro. Ma anche allora, come in tutti i periodi di convalescenza, la vita era un balbettio universale. Si riprendeva malfermi a camminare sulle proprie gambe e ogni passo era l’attacco dispari di un valzer. In quegli anni, tutti ballavamo la danza sopravvissuta dei sentimenti. Non avevamo né scarpe lucide né vestiti di gala, ma ci benedicevano l’euforia e la meraviglia di essere ancora in piedi.
L’epica dello sport ci aiutava. Nella nostra città era forse avvertita con più passione che da altre parti perché il Grande Torino dominava incontrastato il campionato di calcio di Serie A. Per mio padre i suoi successi erano come un certificato di avvenuta guarigione dalla pestilenza della guerra, un congedo ufficiale e definitivo. Il passaporto tanto desiderato per potersi nuovamente avventurare liberi e fiduciosi per il mondo.
Nel 1948 Bartali aveva vinto la sua prima tappa di quel Tour de France e aveva sollevato le braccia in aria altre sei volte, fino al trionfo di Parigi. L’anno successivo era stato Coppi ad attraversare in maglia gialla l’Arco di Trionfo e a creare il mito di «un uomo solo al comando».
Sì, è vero, le loro imprese ci restituivano un poco di orgoglio, dopo la vergogna storica di tutto quello che era successo e che soltanto il riscatto della Resistenza, per noi, aveva un poco medicato. Ma l’incombere della tragedia come uno sparviero minaccioso e lugubre sulle nostre teste non era ancora stato del tutto rimosso e lo schianto contro la basilica di Superga dell’aereo che trasportava il Grande Torino di Mazzola e Loik di ritorno da un’amichevole il 4 maggio 1949 ci aveva fatto ripiombare nell’angoscia di un tempo di morte e di lutto che avevamo creduto concluso per sempre.
Quell’episodio, anche se era avvenuto quattro anni dopo la fine delle ostilità, era stato per me l’ultimo, tardivo e sanguinoso fatto di quella guerra. Come se ad abbattere l’aereo dove viaggiavano gli eroi sportivi della mia infanzia fosse stata la mitragliata velenosa e smemorata di un caccia militare e non la nebbia o un altimetro bloccato.
Per usare le parole di uno scrittore argentino, Juan José Saer, sperimentavo «le prime ferite della comprensione e dello stupore». Ne porto ancora dentro di me uno sconcerto di bambino, come il segno di una cicatrice incisa dietro a un orecchio. Da lì a una o due settimane avrei compiuto il mio undicesimo compleanno. Per me, la guerra era finita quel giorno, con una zampata imprevista del destino, perché nessuno dimenticasse fino in fondo.
Da allora ho continuato a tifare per il Toro con la rabbia di un pacifista, specie quando l’elegante francese Nestor Combin nel 1967 aveva collaborato con una tripletta nella nostra inattesa vittoria per 4 a 0 contro la Juve: è stato uno dei primi modi che ho imparato di protestare contro l’ingiustizia, la violenza e la sfortuna.
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LA RADIO, IL JAZZ, LA RABBIA DI SALGARI E L’ORCHESTRA ANGELINI
E poi, alle undici di sera, avevo scoperto il jazz.
La radio dominava le case. Accesa, ne era il cuore pulsante, ma a me affascinava anche da spenta. Mi ipnotizzava quella sfilza di numeri e di nomi di città stampati sopra, sul frontalino. Li ripetevo a voce alta. Ho cominciato a viaggiare e a conoscere la geografia studiando a memoria itinerari impossibili tra quelle linee. E sono ancora convinto che là sopra c’erano già in fila tutti i viaggi che avrei fatto da grande: New York, Tokyo, San Francisco, Philadelphia, Pittsburgh, Montevideo, L’Avana, Salvador de Bahia, Buenos Aires, Rio De Janeiro, Città del Messico, Taiwan, Singapore... Un arcipelago fantastico che si sovrapponeva a quello che avevo incontrato nei libri di Salgari.
Quante mappe delle isole del Borneo, con i fregi dei mappamondi e dei velieri intorno, ho ricalcato contro la finestra della nostra cucina. Adesso Salgari è un po’ dimenticato, ma i sudamericani non lo hanno trascurato: per i messicani, per i cileni, per i peruviani, per gli argentini, Salgari è principalmente la rabia, la rabbia, e poi l’avventura, la vendetta, l’amore, e infine la fatica e la sconfitta. Tutta quanta la vita, a dispetto dei suoi detrattori e dei critici letterari che non lo hanno mai amato. Salgari era anche lo scrittore della mia rabia personale e dello slancio tradito della gioventù del Risorgimento. Io amavo più di tutti il personaggio di Yanez da Gomera, per la sua aria sorniona e altruista, e sceglievo sempre quel soprannome nei nostri giochi di gruppo in quella piccola via Pál di Torino dove abitavo. Conobbi solo da grande quanta amarezza si nascondesse in quello scrittore e la disperazione che lo aveva portato a quell’ultima tragica passeggiata nel bosco sopra Torino con un rasoio in tasca.
No, non leggevo solo romanzi. Pure fumetti, certo, come tutti. I miei preferiti erano gli Albi d’Oro della Prateria di Pecos Bill. Confesso però che dopo un poco mi annoiavo. I disegni, da soli, non mi sono mai bastati. Forse nessuna cosa, da sola, mi è mai bastata. Avevo bisogno di parole, per immaginare. E di musica.
Le orchestre alla moda suonavano tardi. La Rai ne aveva tante, spesso in competizione tra loro, sin da prima della guerra. Ricordo l’orchestra di Cinico Angelini, l’Orchestra moderna del rivale Pippo Barzizza, le orchestre di Armando Fragna, di Carlo Savina, di Lelio Luttazzi e poi quella di Gorni Kramer, autore, nel ’39, di «Pippo non lo sa», uno dei pezzi più famosi del Trio Lescano, o di «Nella vecchia fattoria», portata alla fama dal Quartetto Cetra... Non erano vere e proprie orchestre jazz, ma attraverso alcune di loro, già a metà degli anni Trenta, le nuove sonorità americane avevano attraversato l’oceano per sparire del tutto nel 1938 e per poi ricomparire prepotentemente, specie a Napoli, con l’arrivo degli Alleati, come un vento dimenticato che la pace portava con sé dall’Ovest.
Sentirne il soffio di notte era un piacere due volte illecito. Per le ore rubate al sonno, ore che ci sembravano già adulte, e per la carica di trasgressione che quella musica, anche soltanto accennata in un arrangiamento, portava con sé. Il jazz, in qualche modo, è sempre stato un affare di contrabbando e di lampade accese, in una casa di Torino come in un sobborgo di New Orleans o in un locale di New York. Un linguaggio segreto e carbonaro che univa tutti i rivoltosi della terra. Ci indicava che c’è sempre un’altra possibilità di esprimersi, più sfrontata ma anche più vera, se si ha il coraggio di non accettare le ipocrisie e le convenzioni della società. Un nero che aveva suonato con Charlie Parker mi aveva detto una sera che «il jazz gli aveva mostrato per la prima volta quest’impasto umido e spugnoso di fantasticherie e disinganni che è la vita». Non saprei spiegarlo meglio, anche se non c’è nulla da spiegare.
Io tutte queste cose allora le intuivo solo confusamente, come può intuirle un adolescente affamato di ogni cosa. Non vivevo in un sobborgo americano, eppure anche per me il jazz fin dall’inizio fu l’esercizio di una libertà sconosciuta e travolgente. Ero attento a ogni passaggio, allo stile degli ottoni, a certi fraseggi swing, al ritmo. Ma non avrei mai immaginato che il destino mi avrebbe dato un appuntamento con Stan Kenton, con Dizzy Gillespie, con Joe o Paul Mares, che custodivano il museo del jazz a New Orleans, o più avanti con Chet Baker. Non avrei mai immaginato che un giorno, anni dopo, me ne sarei andato a spasso con alcuni di loro su e giù per i marciapiedi americani, nel tentativo di raccontare la storia e il segreto di quella musica in un documentario, La storia del jazz per la Rai, ideato con Gian Piero Ricci.
3
UNA GRANDE PAURA AL TEMPO DELLA RESISTENZA
La radio per la mia famiglia era già una scatola magica piena di memorie. Una volta, quando eravamo sfollati durante la guerra in un paesino del Piemonte che si chiama Brusasco, era venuto un partigiano e se l’era portata via, promettendo che sarebbe tornato e che la volta successiva non si sarebbe accontentato di un elettrodomestico ma di ben altro. Una minaccia terribile. Ci avrebbe rapito nostra madre in persona e l’avrebbe sequestrata, come un oggetto qualsiasi da vendere al Monte di Pietà.
A casa questa storia ce la raccontammo per anni per addomesticare l’onda lunga della paura che ci aveva invaso allora e che dopo ci era rimasta sotto la pelle per tanto tempo.
Quel partigiano era uno di quegli uomini discutibili che proliferano con le guerre e si alimentano della loro aria viziata. Un personaggio nefasto, storto e segaligno, dai polmoni sconciati, un verdugo dicono in Sudamerica, che sarebbe morto poi di tisi. Un pomeriggio era sceso dalle montagne ed era venuto a fare una perquisizione da noi perché si sapeva che papà era fascista. Era venuto e se n’era andato con la nostra radio sotto il braccio, quella radio di cui eravamo tanto orgogliosi. Non ricordo cosa volesse, soldi, credo, ma dalla porta, quando aveva già i piedi sullo zerbino, ci aveva minacciato che la volta successiva ci avrebbe confiscato nostra madre se non gli avessimo dato quello che chiedeva.
«Se non eseguite quello che vi sto dicendo entro sedici ore, io vi porto via sua figlia», aveva urlato a mia nonna.
Fu un momento difficile. Io ero piccolo, avrò avuto sì e no sei anni, ma non avevo dimenticato la costernazione delle donne di casa, e quello stato di impotenza che la guerra ti contagia, quel sentirsi in balia dei capricci della malasorte e avere la consapevolezza di non poter scappare. Era come se avessero annunciato un altro bombardamento, ma non ci fossero più posti nei rifugi: tutto quello che potevamo fare era aspettare e sperare che le bombe cadessero solo sulle abitazioni vuote. Mia madre e mia nonna non erano donne che si perdevano d’animo. Venivano da Messina (mia nonna era di Lipari), si erano trasferite al Nord dopo essere scampate al terremoto del 1908 e in seguito avevano lavorato come maestre. Eppure di fronte a quell’uomo ebbero paura.
Non c’era tempo da perdere. Sedici ore, tutt’al più ventiquattro. Mia madre avrebbe preferito tenere fuori da questa faccenda mio padre, temeva di esporlo a un pericolo mortale. Ma alla fine aveva deciso di confrontarsi con lui e di dirgli di quella minaccia incombente, pregandolo di non esporsi. Mio padre era un avvocato della Reale Mutua Assicurazioni. Di lui, nonno Vincenzo e nonna Cesira andavano fieri: figlio unico, e per di più uomo di cultura, uno che aveva studiato.
Quello era il tempo in cui i genitori si addossavano parecchi sacrifici perché qualcuno in famiglia riuscisse a laurearsi. Senza retorica, era un’impresa e un orgoglio. Mio padre, poi, si era fatto voler bene: aveva dimostrato nel tempo di essere un avvocato capace e si impegnava molto. Come la maggior parte degli italiani era fascista, anzi lui era stato nominato vice federale a Torino, ma a Brusasco aveva aiutato parecchi ragazzi, perché il suo migliore amico di infanzia, oltre a essere del Toro come lui, era un operaio comunista e si chiamava Celeste Gianoglio. Anche questa era l’Italia di allora, un comunista e un fascista amici per la pelle, proprio come nei racconti di Guareschi.
Una volta papà aveva salvato la vita anche a Ezio, il figlio di Celeste, ed Ezio, nel frattempo, aveva fatto strada nel partito e nei quadri della Resistenza. Così quando era scaduto lo scellerato ultimatum che ci era stato imposto, quell’approfittatore aveva trovato proprio Ezio ad aspettarlo. Sedeva al tavolo di uno dei due bar del paese, con un quotidiano fra le mani. Senza alzare gli occhi dal giornale, gli aveva detto: «Io sono il commissario politico di questa zona e non so tu che cazzo fai qua. Vattene perché noi stiamo facendo la guerra per ricostruire uno straccio di paese e non vogliamo gente come te che compie vendette fasulle in giro...»
A Brusasco c’erano, da oltre sessant’anni, solo due bar. E lì, fino a pochi anni fa, ancora se lo raccontavano questo incontro tra quei due uomini tanto diversi. Il tipo che era venuto a prendersi mia madre se ne era andato via con la sua andatura sbilenca e la coda tra le gambe, ma senza restituirci la favolosa radio della nostra infanzia.
4
UNA PALLOTTOLA NELLA SCATOLA DI CERINI
Nei bar di Brusasco, in quella stagione, brindarono spesso a Barolo e Barbera per mio padre. Gli volevano bene perché prima di quell’episodio i tedeschi, una domenica, all’uscita dalla messa avevano fatto una retata e caricato tutti i ragazzi del paese sui camion. Papà, che godeva di una certa stima, era andato sub...