ASCOLTI CONSIGLIATI
La data riportata è quella di registrazione: non quella della prima pubblicazione dell’album né di riedizioni successive. Tutte le registrazioni sono elencate sotto il nome del musicista in questione, a meno che non sia precisato il nome di un altro leader.
WAYNE SHORTER
Introducing Wayne Shorter (1959, Vee Jay, ripubblicato da Koch). Nel segno di Coltrane, ma con un fraseggio già suo. Con Lee Morgan alla tromba e la sezione rimica del quintetto di Miles Davis di fine anni Cinquanta: Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al contrabbasso, Jimmy Cobb alla batteria.
Juju (1964, Blue Note). Secondo nella straordinaria serie di dischi Blue Note di Shorter. Qui la sezione ritmica è in prestito da John Coltrane: McCoy Tyner al pianoforte, Reggie Workman al contrabbasso, Elvin Jones alla batteria.
Miles Davis, Nefertiti (1967, Columbia). Verso la fine del periodo di Shorter con il quintetto di Miles Davis, contiene esempi della sua scrittura più tersa e inventiva: «Nefertiti», «Fall», «Pinocchio».
Native Dancer (1974, Columbia). Punto di svolta per il jazz e per la musica brasiliana: la collaborazione di Shorter con il cantante brasiliano Milton Nascimento.
Beyond the Sound Barrier (2005, Verve). Registrazione dal vivo del suo ultimo, grande quartetto.
PAT METHENY
Bright Size Life (1975, ECM). Un disco che ha trasformato il linguaggio del jazz. Solo tre i musicisti: Metheny, Jaco Pastorius al basso elettrico e Bob Moses alla batteria.
80/81 (1980, ECM). Un gruppo ispirato. Il contrabbassista Charlie Haden e il sassofonista Dewey Redman vengono dal mondo di Ornette Coleman; il sassofonista Michael Brecker era allora noto solo come grande session man del pop ma sottovalutato come jazzista; il batterista Jack DeJohnette era un colorista ritmico freelance, non ancora parte del trio di Keith Jarrett che gli avrebbe dato fama.
Rejoicing (1983, ECM). Altri esperimenti di laboratorio con il linguaggio di Ornette Coleman. Con Charlie Haden al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria.
One Quiet Night (2001, Warner Brothers). Un disco bello e strano, molto “schitarrante”, per chitarra baritono sola, registrato poco dopo l’11 settembre.
The Way Up (2003-4, Nonesuch). Una nuova sfida per Metheny, questa volta in una composizione di lungo respiro e con una band nuova.
SONNY ROLLINS
A Night at the Village Vanguard (1957, Blue Note). Un trio fantastico, con Wilbur Ware al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria. Sonny Rollins è fra coloro che hanno insegnato a una generazione di ascoltatori come ascoltare il jazz in un modo nuovo. Si paragonino i suoi assoli in questo disco ai migliori assoli di sassofono di dieci anni prima, per esempio quelli di Lester Young o di Coleman Hawkins. I suoi riflettono forse in maniera più dettagliata i meccanismi della mente: sono un resoconto di tutto quello che un improvvisatore va pensando, completo di gesti che possono non condurre da nessuna parte ma che vale comunque la pena di tentare.
The Bridge (1962, RCA Victor). Il ritorno di Rollins alla musica dal primo dei suoi lunghi ritiri sabbatici, pieno di logica tenace e mercuriale. Più personale che mai: i contributi del chitarrista Jim Hall, poco appariscente e dal suono lieve (uno strano compagno per un sassofonista dalla voce così robusta) danno al disco un’ulteriore dimensione di profondità.
East Broadway Run Down (1966, Impulse). In cerca di collocazione in un paesaggio jazzistico profondamente marcato dall’impronta di Coltrane, Rollins si unisce al bassista e al batterista di Coltrane, Jimmy Garrison ed Elvin Jones (in uno dei tre lunghi pezzi, Freddie Hubbard suona la tromba). Il disco abbonda di esitazioni e di onesti silenzi; si percepisce una naturale fiducia in sé, fosse pure, a momenti, la fiducia di mancare il bersaglio.
ANDREW HILL
Black Fire (1963, Blue Note). La sua prima registrazione per la Blue Note, del 1963, con Joe Henderson al sax tenore, Richard Davis al contrabbasso, Roy Haynes alla batteria.
Point of Departure (1964, Blue Note). Il disco più maestoso di Hill, risonante di voci del jazz passato e a venire. Con Kenny Dorham alla tromba, il polistrumentista Eric Dolphy, Joe Henderson al sax tenore, Richard Davis al contrabbasso e Tony Williams alla batteria.
Time Lines (2005, Blue Note). L’ultimo album di Hill, il suo migliore da decenni, con una band multigenerazionale.
ORNETTE COLEMAN
Complete Live at the Hillcrest Club (1958, Gambit). Già pubblicato a nome del pianista Paul Bley, si tratta di registrazioni dal vivo di Coleman in quintetto con Bley, il quale aveva una comprensione perfetta degli intenti di Coleman. Il programma è composto in prevalenza di composizioni di Coleman, ma mai, su disco, Coleman è assomigliato tanto a Charlie Parker. Storie del jazz alla mano, verrebbe da dire che i musicisti si trovano alle soglie di una grande scoperta; la verità è che quelle soglie le avevano già varcate.
The Shape of Jazz to Come (1959, Atlantic). Il disco che cambiò le sorti di Coleman. Registrato a Los Angeles pochi mesi prima che il gruppo arrivasse a New York, presenta il primo, grande quartetto di Coleman, con Don Cherry alla cornetta, Charlie Haden al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria. Il disco contiene la ballad (insolitamente per Coleman in modo minore) «Lonely Woman».
Ornette! (1961, Atlantic). La conclusione del periodo Atlantic, sempre con Cherry ma stavolta con Scott LaFaro al contrabbasso e Ed Blackwell alla batteria. Il vincolo ritmico fra Coleman e Blackwell è quello ideale del jazz: un movimento flessibile e coordinato.
The Complete Science Fiction Sessions (1971, Columbia). Il sassofonista tenore Dewey Redman diventò uno stimolo per Coleman e contribuisce a rendere speciale questa musica di inizio anni Settanta, insieme alla scoperta delle potenzialità canore delle composizioni di Coleman, qui effettivamente cantate da Asha Puthli.
Sound Grammar (2005, Sound Grammar). Una registrazione dal vivo della recente band di Coleman, in cui la sua tendenza a suonare veloce e sul registro acuto, facendo galleggiare le melodie (quasi tutte nuove con le eccezioni di «Turnaround» e «Song X»), è ancorata dalla massa dei due contrabbassi, uno con l’arco, l’altro pizzicato.
MARIA SCHNEIDER
Allegresse (2000, Enja). Il momento d’oro della Schneider: quando ha smesso di volersi dimostrare compositrice di jazz con tanto di metodo e di pedigree e ha cominciato a scrivere quello che più le stava a cuore.
Sky Blue (2007, ArtistShare). Una volta completata la prima esposizione dei temi, man mano che iniziano a crescere e a modificarsi, questi pezzi si fanno straordinari. Non si tratta di jazz per piccolo gruppo vestito a festa: è integrato e orchestrale, per una band di venti elementi comprendente fisarmonica, cajón e talvolta i vocalizzi di Luciana Souza.
BOB BROOKMEYER
Traditionalism Revisited (1957, Blue Note). Uno sguardo fresco al repertorio dixieland, dal suono compatto ed emotivamente ricco.
Jimmy Giuffre Trio con Jim Hall e Bob Brookmeyer, Western Suite (1958, WEA International). Un disco simpatico e radicale, arioso e disinvolto ma in realtà molto elaborato dal punto di vista compositivo, con temi popolareschi che ricordano il vecchio West.
Stan Getz-Bob Brookmeyer, Recorded Fall (1961, Verve). Un incontro disinvoltamente virtuosistico di due improvvisatori che alla metà degli anni Cinquanta suonarono molto insieme, in un quintetto di cui faceva parte Roy Haynes.
Gerry Mulligan, The Complete Verve Gerry Mulligan Concert Band Sessions (1960-62, Mosaic). Un brillante progetto di big band dei primi anni Sessanta, celebrato all’epoca ma che il contemporaneo movimento del free jazz ha lasciato nella penombra della storia. Brookmeyer ne fu cofondatore, arrangiatore principale e, con Mulligan, solista principe (l’album è ordinabile solo da mosaic.com).
Clark Terry-Bob Brookmeyer Quintet, Complete Studio Recordings (1964-66, Lonehill). Una band vibrante, abilissima, della metà degli anni Sessanta, con Hank Jones e il batterista Osie Johnson nella sezione ritmica.
Spirit Music (2006, Artist Direct). La New Art Orchestra (complesso di Brookmeyer di diciotto elementi a prevalenza europea, con il batterista americano John Hollenbeck) in un programma di musica nuova. Si tratta del suo passo più recente nell’evoluzione di una scrittura jazzistica moderna per grande formazione, che passa attraverso la musica del Count Basie anni Cinquanta e dell’orc...