The Weird and the Eerie
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The Weird and the Eerie

Lo strano e l'inquietante nel mondo contemporaneo

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The Weird and the Eerie

Lo strano e l'inquietante nel mondo contemporaneo

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Informazioni sul libro

The Weird and the Eerie è l'ultimo libro pubblicato in vita da Mark Fisher, lo scrittore e critico culturale inglese che anche nel nostro paese sta ora raccogliendo grande interesse. Il suo Realismo capitalista ha generato un vivace dibattito e ha mostrato come Fisher sia una figura fondamentale per comprendere il presente. Ricordando l'amico, Simon Reynolds ha scritto: «Costruendo, con incomparabile rigore ed eloquenza, un ponte che collega estetica e politica, critica e attivismo, Fisher era davvero un intellettuale impegnato, potremmo dire persino: un John Berger post rave». Quest'ultima definizione è perfetta anche per inquadrare The Weird and the Eerie, dove s'indagano – tra letteratura, musica e cinema – due forme/sentimenti che non hanno una perfetta corrispondenza nella nostra lingua. Solo approssimativamente, infatti, il weird può essere reso con «strano» e l'eerie con «inquietante». Fisher segue e spiega queste categorie attraverso le arti e le epoche: il weird si rivela così nei racconti di H.P. Lovecraft, nelle canzoni dei Fall, nei romanzi di Philip Dick e nei film di David Lynch, mentre l'eerie si manifesta nell'opera di scrittori, musicisti e registi come Margaret Atwood, Brian Eno, Stanley Kubrick e Christopher Nolan. «Il fascino di weird ed eerie non è sintetizzabile nell'idea che "ricaviamo piacere da ciò che ci spaventa". Ha piuttosto a che vedere con l'attrazione per l'esterno, per ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell'esperienza comune», scrive Fisher. In questo libro, il reale si apre dunque all'ignoto, all'incubo e all'incanto.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788875219901

L’EERIE

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APPROCCIO ALL’EERIE

Che cos’è esattamente l’eerie? E perché è importante rifletterci sopra? Come nel caso del weird, l’eerie appare degno di riflessione in quanto particolare tipo di esperienza estetica. Sebbene tale esperienza sia certamente procurata da specifiche forme culturali, non trae origine da esse. Si può piuttosto affermare che certe storie, certi romanzi, certi film evocano una sensazione di eerie, ma che tale sensazione non è un’invenzione letteraria o cinematografica. Come nel caso del weird, è possibile sperimentare, e di fatto sperimentiamo spesso, la sensazione dell’eerie «dal vivo», senza ricorrere a specifiche forme di mediazione culturale. Il senso dell’eerie, per esempio, è senza dubbio legato a un certo tipo di paesaggi e di spazi fisici.
La sensazione dell’eerie è molto diversa da quella del weird. Il modo più semplice per cogliere questa differenza è pensare alla contrapposizione (pesantemente condizionata in senso metafisico) che è forse la più fondamentale di tutte: tra presenza e assenza. Come abbiamo visto, il weird è costituito da una presenza – la presenza di qualcosa che non è al suo posto. In alcuni esempi di weird (quelli da cui Lovecraft era ossessionato), esso è marcato da una presenza eccessiva, da un brulicare che supera la nostra capacità di rappresentarlo. L’eerie, per contrasto, è costituito da un fallimento di assenza o un fallimento di presenza. La sensazione di eerie si verifica quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa.
Possiamo comprendere rapidamente le due modalità per mezzo di qualche esempio. L’idea di un eerie cry («grido inquietante») – spesso citato dalle definizioni di eerie fornite dai dizionari – è un esempio della prima modalità dell’eerie (il fallimento di assenza). Il verso di un uccello è eerie se produce la sensazione che nel verso (o dietro di esso) vi sia qualcosa di più che un semplice riflesso o meccanismo biologico animale – che ci sia all’opera un qualche tipo di intento, una forma d’intento che di solito non associamo a un uccello. È evidente che c’è qualcosa in comune tra questa sensazione e quella di «qualcosa fuori posto» che abbiamo dichiarato costituire il weird. Ma l’eerie implica inevitabilmente forme di congettura e suspense che non costituiscono un carattere essenziale del weird. Esiste qualcosa di anomalo nel verso di quest’uccello? Che cosa contiene esattamente di strano? L’animale è forse posseduto – e in tal caso, da quale genere di entità? Questo genere di congettura è intrinseco all’eerie, e una volta che domande ed enigmi vengono risolti l’eerie svanisce all’istante. L’eerie riguarda l’ignoto: quando la conoscenza è raggiunta, l’eerie scompare. A questo punto bisogna sottolineare che non tutti i misteri generano l’eerie. È necessario che esista anche un senso di alterità, l’impressione che l’enigma potrebbe comprendere forme di conoscenza, soggettività e percezione che vanno al di là dell’esperienza comune.
Un esempio della seconda modalità dell’eerie (il fallimento di presenza) è la sensazione di eerie prodotta da rovine o altre strutture abbandonate. La fantascienza post-apocalittica, benché non sia di necessità essa stessa un genere eerie, è tuttavia ricca di scene eerie. Eppure il senso dell’eerie in questi casi è limitato, perché ci viene fornita una spiegazione della ragione per cui determinate città si sono spopolate. Mettiamo a confronto questo caso con quello del brigantino abbandonato Marie Celeste.11 Siccome il mistero della nave non è mai stato risolto, né probabilmente lo sarà mai – che ne è stato dell’equipaggio? come mai ha abbandonato la nave? dove sono finiti tutti quelli che erano sulla nave? – il caso della Marie Celeste è saturo di un senso dell’eerie. Qua, evidentemente, l’enigma ruota intorno a due domande: cos’è successo? e perché? Strutture di cui non siamo in grado di analizzare significato e fine pongono tuttavia un differente tipo di enigma. Davanti al cerchio di pietre di Stonehenge, o alle statue giganti dell’Isola di Pasqua, ci troviamo davanti un diverso insieme di domande. Il problema qui non è perché la gente che ha creato quelle strutture è scomparsa – su questo non esiste mistero – ma la natura di ciò che è scomparso. Che tipo di esseri ha creato quelle strutture? Quanto erano simili a noi, e quanto diversi? A quale tipo di ordine simbolico appartenevano tali esseri, e quale ruolo svolgevano in esso i monumenti che hanno costruito? Infatti le strutture simboliche che conferivano senso ai monumenti ormai sono scomparse, e in un certo senso qui testimoniamo dell’inintelligibilità e dell’inscrutabilità del Reale stesso. Di fronte all’Isola di Pasqua o a Stonehenge, è difficile non iniziare a formulare congetture sull’aspetto che avranno i resti della nostra cultura quando i sistemi semiotici di cui sono attualmente parte saranno spariti. Siamo costretti a immaginare il nostro stesso mondo come un insieme di tracce eerie. Tali riflessioni spiegano senza dubbio l’eeriness della celebre immagine finale della prima versione del Pianeta delle scimmie, uscita nel 1968: le rovine della Statua della Libertà, ormai incomprensibili dal punto di vista di un remoto futuro postapocalittico e postumano nella misura in cui lo è oggi Stonehenge per noi. I casi di Stonehenge e dell’Isola di Pasqua indicano che esiste una dimensione irriducibilmente eerie in certe pratiche archeologiche e storiche. Archeologi e storici, specie quando trattano di un passato molto lontano da noi, elaborano delle ipotesi, ma la cultura a cui fanno riferimento e che avrebbe la capacità di sostenere tali ipotesi non potrà mai essere (di nuovo) presente.
L’enigma di fondo dietro ogni manifestazione dell’eerie concerne la questione dell’agentività (agency). Nel caso del fallimento di assenza, il problema riguarda l’esistenza stessa di un’agentività. Esiste davvero qui un soggetto deliberativo? Non saremo forse osservati da un’entità che non si è ancora rivelata? Nel caso del fallimento di presenza, il problema riguarda invece la particolare natura dell’agente che opera. Sappiamo che Stonehenge è stata eretta, perciò la questione di un soggetto che agisce o meno dietro la sua costruzione non si pone; dobbiamo vedercela invece con le tracce di un soggetto ormai scomparso le cui intenzioni restano a noi del tutto ignote.
A questo punto possiamo finalmente rispondere al quesito su perché sia tanto importante una riflessione sull’eerie. Dato che l’eerie ruota in maniera cruciale intorno al problema di agentività, esso riguarda le forze che governano le nostre esistenze e il mondo. Specialmente a quanti di noi vivono in un mondo capitalista teleconnesso su scala globale, dovrebbe essere chiaro che simili forze non sono del tutto disponibili alla nostra comprensione sensoriale. Una forza come il capitale non esiste in nessun senso materiale, eppure è in grado di produrre praticamente qualsiasi tipo di effetto. A un altro livello, non è forse vero che Freud già molti anni ha fa dimostrato che le forze che governano la nostra psiche possono essere concepite come dei fallimenti di presenza – l’inconscio stesso non è forse pensabile in questo modo? – e dei fallimenti di assenza (le varie pulsioni o compulsioni che intervengono dove invece dovrebbe operare il nostro libero arbitrio)?
11. È un caso di «nave fantasma» che a suo tempo suscitò molto clamore. Il brigantino (prima canadese e poi americano) Marie Celeste, o Mary Celeste, venne ritrovato da una nave nel 1872 mentre andava alla deriva vicino alle isole Azzorre. La nave era pressoché intatta e aveva a bordo l’intero carico e parte dei beni di valore degli ufficiali, mentre erano spariti tutti i passeggeri e la scialuppa di salvataggio. [n.d.t.]

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QUALCOSA DOVE NON DOVREBBE ESSERCI NIENTE, NIENTE DOVE DOVREBBE ESSERCI QUALCOSA
DAPHNE DU MAURIER E CHRISTOPHER PRIEST

Testeremo ora le nostre osservazioni preliminari su due scrittori giustamente considerati vicini all’eerie, Daphne du Maurier e Christopher Priest. Le storie eerie di Daphne du Maurier ruotano spesso intorno all’influenza di entità o oggetti che dovrebbero essere privi di agentività riflessiva: animali, forze telepatiche, il fato stesso. L’effetto eerie presente in alcuni romanzi di Priest, per contro, fa leva sui vuoti di memoria, vuoti che minano fatalmente alla base il senso d’identità dei personaggi.
Il celebre racconto di Daphne du Maurier intitolato «Gli uccelli» (1952) rappresenta un caso praticamente paradigmatico di eerie. Come abbiamo visto, quando i dizionari devono fornire un esempio di eerie citano spesso l’eerie cry di un animale. «Gli uccelli» si sviluppa a partire dalla sensazione che nasce quando udiamo quel verso – il sospetto che un’entità a cui di solito non l’attribuiamo possieda invece un’agentività deliberativa. Nel racconto della Du Maurier gli uccelli cessano di essere parte del paesaggio e asseriscono un’agentività autonoma, anche se la natura di tale operato resta misteriosa. Invece di coesistere con gli uomini, gli uccelli si coalizzano per lanciare un sanguinoso attacco alla popolazione umana. Questa collaborazione tra specie di uccelli diverse è uno dei primi segni che sta succedendo qualcosa di strano e inaudito: «Gli uccelli stavano ancora volteggiando sui campi. Erano soprattutto gabbiani reali, ma c’erano anche alcuni mugnaiacci. Di solito se ne stavano separati, ma adesso erano insieme, uniti da qualche vincolo».
Per chi ha familiarità con l’adattamento cinematografico realizzato da Hitchcock, la lettura del racconto originale di Daphne du Maurier costituirà una sorpresa (si diceva che l’autrice detestasse il film realizzato da Hitchcock). Invece che in una California assolata, l’azione originale si svolge in una Cornovaglia grigia e burrascosa ancora nella morsa dell’austerità postbellica. Invece di una giovane coppia di freschi innamorati, qui abbiamo una famiglia – gli Hocken – impegnata a difendere la casa dagli attacchi degli uccelli. Da un certo punto di vista «Gli uccelli», con la sua attenzione puntata sulla famiglia assediata da entità anomale e asserragliata in casa dietro a porte e finestre sbarrate, sembra un’anticipazione della Notte dei morti viventi di George Romero (1968). La vicenda vede i personaggi strappati a una vita comunitaria pastorale e catapultati nel genere di atomizzazione survivalista che sarà più tardi descritta da Romero.
La forza inquietante del racconto deriva da due diversi livelli di minaccia: la prima è ovviamente il primitivo terrore fisico causato dagli attacchi degli uccelli. Ma è il secondo livello a condurci nell’eerie. Mano a mano che la storia si dipana, assistiamo alla disintegrazione progressiva delle certezze e delle strutture di autorità residue dei tempi di guerra. Gli uccelli minacciano le vere e proprie strutture di senso che in precedenza avevano conferito una spiegazione al mondo. All’inizio vediamo che l’interpretazione più comune del comportamento anomalo degli uccelli chiama in causa il tempo atmosferico. Quando l’attacco s’intensifica, emergono però altri discorsi: il coltivatore per cui lavora Hocken riferisce che in città si dice che i russi abbiano avvelenato gli uccelli (quest’utilizzo di spiegazioni preconfezionate prodotte dalla paranoia da guerra fredda presuppone una certa logica, se consideriamo che gli uccelli sembrano aver messo da parte le loro differenze per sviluppare una sorta di coscienza di specie, un analogo della coscienza di classe). Le trasmissioni radio della BBC assumono un ruolo cruciale nella vicenda. All’inizio rappresentano la voce fidata dell’autorità: quando la BBC comunica che gli uccelli si stanno ammassando ovunque, la situazione anomala acquista una sorta di validazione ufficiale. In questa fase la BBC è sinonimo di struttura di autorità che si presume «farà qualcosa» per respingere l’attacco degli uccelli. Ma quando le trasmissioni si fanno sempre più rade, diventa chiaro che in realtà non esiste alcuna strategia per affrontare gli uccelli, non più di quanto esista un’adeguata spiegazione del loro comportamento anomalo. Alla fine le trasmissioni della BBC tacciono del tutto, e questo silenzio significa che ormai siamo completamente entrati nello spazio dell’eerie. Non ci saranno spiegazioni, né per i personaggi né per i lettori. Né ci sarà alcuna tregua: alla fine del racconto l’assedio degli uccelli non sembra in alcun modo prossimo a una conclusione.
In «Non voltarti» (1971), altro celebre racconto della Du Maurier, il «qualcosa dove non ci dovrebbe essere nulla», le forze che operano dietro le comuni modalità d’interpretazione della realtà sono rappresentati dalla percezione extrasensoriale e dal fato. La vicenda rivela come la negazione e il disconoscimento del potere di preveggenza finiscano per contribuire proprio all’evento che era stato oggetto della preveggenza.
John e Laura sono una coppia inglese in visita a Venezia, dove si sono recati per tentare di riprendersi dal lutto per la morte della giovane figlia, da poco scomparsa per una malattia. Mentre i due sono seduti in un ristorante incontrano una strana coppia di sorelle, le quali sostengono di poter vedere la figlioletta che ride seduta tra i genitori affranti. Laura è felice, e inizia a essere ossessionata dalle due sorelle; John invece è scettico e ostile, convinto che le sorelle stiano cercando di sfruttare il dolore della moglie. Poco dopo la coppia viene a sapere che il loro figlio, che frequenta la scuola in Inghilterra, è malato, e decidono che Laura tornerà a casa per assisterlo. Mentre John passeggia da solo per la città, ha l’impressione di vedere Laura con le due sorelle su un vaporetto. Preso dal panico si rivolge alla polizia, convinto che le due abbiano rapito Laura. Invece scopre che Laura è tornata a casa come previsto: un John umiliato deve perciò spiegare alla polizia di essersi sbagliato e presentare le scuse alle due sorelle. Dopo averle riaccompagnate a casa, vede quella che gli sembra una bambina inseguita da un uomo. Venezia in quei giorni è sotto la minaccia di un serial killer, e John teme che la bambina sarà la sua prossima vittima. Quella che però credeva una bambina si rivela in realtà una nana omicida – probabilmente il serial killer – che uccide John. Nell’istante in cui muore, John capisce che la vista delle sorelle in compagnia di Laura era stato un caso di preveggenza, uno sguardo sul futuro prossimo, quando le tre donne avrebbero partecipato insieme al suo funerale:
Allora vide il vaporetto con Laura e le due sorelle che sbuffavano lungo il Canal Grande, non quel giorno, non l’indomani, ma l’indomani ancora, e capì perché erano insieme e per quale triste motivo erano venute. La creatura stava borbottando nel suo angolino; i colpi e l’abbaiare del cane si facevano sempre più deboli e «Oh Dio», pensò, «che stupido modo di morire...»
Da un certo punto di vista la struttura che emerge da questo racconto è simile al loop temporale discusso in precedenza, anche se qua il loop è meno serrato, e il registro si mostra eerie piuttosto che weird, perché l’enfasi della vicenda è su un agente oscuro, il fato stesso. Qui il fato appare certo terrificante, ma, come John intuisce negli ultimi istanti di vita, intreccia le sue trame con una maestria che alla fine si rivela ironica, e forse anche macabramente comica, oltre che atroce. Una delle ironie è che la preveggenza di John, proprio perché non è da lui riconosciuta come tale, non gli permette di prevedere i disegni del fato. John condivide questo disconoscimento dei propri poteri di percezione extrasensoriale con un altro personaggio maschile fatalmente definito dall’autoaccecamento, il Jack Torrance di Shining, di cui diremo più avanti. Come per Jack Torrance, la percezione extrasensoriale mette in pericolo il senso di autodeterminazione maschile di John. Come nel caso di Jack, il fatto di sottovalutare le forze che minacciano una (in definitiva illusoria) padronanza di sé alimentano il potere di quelle stesse forze, che alla fine lo conducono alla distruzione.
L’adattamento cinematografico del racconto realizzato nel 1973 da Nicolas Roeg (questa volta con il beneplacito di Daphne du Maurier) è una dimostrazione di poetica del fato. Come in molti altri suoi film, Roeg impiega qui parallelismi, prefigurazioni ed echi, invitandoci a guardare al tempo come a una struttura in rima. Il rosso della macchia di una diapositiva che John osserva rima con quello dell’impermeabile che sua figlia indossa quando muore; la morte della figlia non è però tanto una catastrofe conclusa, quanto piuttosto il momento iniziale di un sinistro motivo poetico che si chiuderà soltanto con la morte di John, per mano di una nana che veste un impermeabile rosso quasi identico. Accentuando la nostra reattività verso tali rime visive, Roeg allude ai contorni eerie di forze funeste che non emergono mai completamente alla vista. Le reiterazioni cromatiche sono rafforzate dall’elemento acustico. In carattere con il racconto, la resa di Venezia offerta da Roeg è intensamente eerie, e gran parte di ciò si deve all’uso del suono. Roeg ha sfruttato il particolare carattere della città come dedalo sonoro, dove l’architettura genera effetti «schizofonici» separando i suoni dalla loro fonte e producendo uno spazio sonoro ingannevole. John e Laura si perdono spesso nelle vie di Venezia, cambiando direzione, facendo dietrofront e tornando inavvertitamente al punto di partenza, vagando per una città che si rivela un labirinto ambiguo, l’immagine frammentata di un destino che riconosceranno soltanto troppo tardi.
Se i due racconti d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Introduzione. Weird e eerie (oltre l’unheimlich)
  4. Il weird
  5. L’eerie
  6. Postfazione di Gianluca Didino
  7. Bibliografia