Terza parte
Acquisizione
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D. (3A)
«Ostacoli», allora, si rivela essere un’apologia delle inevitabili semplificazioni in cui ogni analisi dall’esterno è destinata a incorrere. Consideriamo la situazione in questa estate dell’89: il rap genericamente inteso, quello che merita di convolare a giuste nozze con la Grande Massa del Pubblico – e quantomeno il corteggiamento è in corso – è esploso con tanta rapidità e potenza che ormai non esiste nemmeno più come genere o categoria unitaria... se non come somma di pochissime caratteristiche che accomunano, e forse comprendono, tutti i diversi sottogeneri e le ramificazioni che abbiamo dovuto cercare in qualche modo di tenere insieme anche solo per poterne parlare.
Grosso modo, ciò che contraddistingue il rap in quanto tale, secondo noi, è il fatto di essere una forma musicale/antimusicale con:
a) nessuna melodia tranne frammenti canonizzati senza progressione;
b) un krush groove in 4/4 incalzante e irresistibilmente ballabile, una struttura piramidale di ritmi-dentro-ritmi che deriva sia dai tappeti sonori della disco anni Settanta alla Tony Manero che dal rinascimento danzereccio con cui il funk si ribellava al 4/4 anti-fisico del jazz: il rap, così come il funk, si appropria dell’energia ipnotica e del 4/4 adrenalinico delle melodie di basso del jazz, ma ne restringe l’ampia gamma di schemi ritmici in 4/4 a quello staccato in quattro tempi che rende tutti i grandi pezzi rock facili da ballare;
c) parole dette o gridate, spesso in rima o in assonanza, ma sempre scandite metricamente, che vanno a complicare e a completare l’unione di bassi in sottofondo, scratch e batteria, creando una densa stratificazione diacronica di tipo ritmico, invece delle sincronie armoniche o contrappuntistiche che hanno contraddistinto la maggior parte della musica occidentale da Haydn ai Talking Heads;
d) una costanza nell’impiego di una mezza dozzina di temi o giù di lì, che vanno da un nazionalismo nero aggiornato (Public Enemy, Schoolly D, Boogie Down Productions, Just-Ice), a una generale agiografia del rapper e della sua crew (L.L. Cool J, Kwame, Slick Rick e di tanto in tanto praticamente tutti), alla mancanza di iniziativa politica e artistica della comunità nera in generale e dei capi delle etichette discografiche e delle radio locali in particolare (Ice T, 2 Live Crew, Kool Moe Dee, Public Enemy), all’inutilità delle donne a qualunque altro scopo che non sia fungere da ricettacolo di organi (N.W.A. e L.L. Cool J, e specialmente Slick «Trattala Come Una Prostituta» Rick), a un rabbioso disprezzo per tossicodipendenti e spacciatori (Schoolly D, N.W.A.), un disprezzo che è tanto più commovente dei mercatini di beneficenza a favore delle campagne «No Alla Droga» organizzati da signore in zibellino (o delle compilation antidroga a cui le superstar del pop e i loro consulenti di immagine partecipano rinunciando al compenso) in quanto il punto di vista del rap è chiaramente quello della strada, senza alterazioni dovute alla prospettiva o all’altezza, ed è un disprezzo sempre e udibilmente reale: non c’è traccia di deus ex machina nei testi che condannano certe sostanze non perché siano agenti del male, o socialmente sconvenienti, ma perché stupefanno, debilitano lo spirito e rammolliscono, prima di uccidere;
e) un’estetica complessiva che i critici e gli artisti del pop tradizionale (in particolare Stanley Crouch e Mark Jenkins, e quei luminosi esempi di ascetismo e profondità musicale che sono Paul McCartney e Sting) disdegnano come superficiale, materialistica e autoreferenziale. Ma che è probabilmente (secondo la nostra opinione) il movimento più rivoluzionario degli ultimi dieci anni di musica rock arida e stereotipata, un movimento non privo di somiglianze con il postmodernismo nell’arte, nella narrativa, nella musica colta, nella poesia. È un tipo di mimesi nuovo e carnivoro che di fatto rende piuttosto interessante la vecchia, abusata «autoreferenzialità», perché il sé a cui ci si riferisce passa a essere, dalla soggettività rock più standard – un fastello di emozioni zuppe di ormoni e strettamente legate a una laringe e a un bacino – una «grossa capocciona nera», una sorta di «angolo della strada» visivo, un monadico Fratello Qualunque, un occhio stremato e arrabbiato su un paese senza centro pervaso dalla cultura pop, pieno di subnazioni emarginate che sono a loro volta postmoderne, ripiegate su se stesse, ossessionate da se stesse, autoreferenziali, voyeuristiche, passive, imbambolate, degradate e fonti di un bombardamento di dati e segnali tanto prodigioso che sembrano muoversi più in fretta di quanto possa vedere lo stesso occhio arrabbiato; una Vastità in espansione nel vuoto che si può descrivere, ma molto meno trasfigurare, solo ricorrendo all’immagine di una bocca abbastanza capiente e maleducata da cercare di ingoiare ogni cosa. Da quarant’anni i vitalisti vanno affermando che l’espressione ultima e definitiva dell’arte del dopoguerra sarà una specie di enorme escremento psicosociale. La vera estetica, consapevole o meno che sia, che sta alla base della migliore musica rap di oggi potrebbe non essere altro che la prima onda di questa Grande Peristalsi...
Comunque, tutto ciò rappresenta un’altra caratteristica distintiva del rap, così come, ovviamente
f) una totale mancanza di strumenti musicali. E persino, in effetti, un’assoluta mancanza di note originali, temo.
La tecnologia del montaggio digitale, offrendo all’utente il massimo controllo sui byte e la loro combinazione, rivoluzionerà l’home entertainment alle soglie del nuovo millennio. Potremo vedere un episodio campionato di Lucy ambientato nella nostra città natale, o in cui nei panni di Ricky ci siamo noi, o in cui, cazzo, siamo addirittura nei panni sia di Lucy che di Ricky, se vogliamo; potremo mixare e montare Mr. Ed su Brivido caldo e vedere un cavallo in groppa a Kathleen Turner. Tuttavia, le case private non vedranno l’avvento della vera tecnologia digitale per almeno un altro decennio: al momento è troppo costosa per chiunque, fatta eccezione per i professionisti che lavorano in studio (mentre strumenti, amplificatori, televisori e persino sintetizzatori sono, proprio come certi termini estetici particolarmente di moda, più o meno alla portata di chiunque li voglia abbastanza).
Al momento, le apparecchiature digitali sono al massimo della loro potenza nel campo del sonoro: nella produzione di dischi il loro impiego è di gran lunga più esteso di quanto lo sia nel montaggio di video e film (perfino quelli di Lucas o Spielberg). Ma, con le rare eccezioni di classici sperimentali, realizzati completamente in studio, come My Life in the Bush of Ghosts di David Byrne e Brian Eno, il rap/hip hop è stata la prima forma di rilievo, nel panorama pop americano, a utilizzare le tecniche digitali di registrazione e missaggio nella composizione dei pezzi, nella loro anima, invece che solo come gesto deliberatamente, pesantemente, «artistico».
In altre parole, il rap degli anni Ottanta è la prima «musica» composta interamente di note create e suonate, depositate e vendute da artisti precedenti. Qui il nervo scoperto della critica tradizionale è la questione «originalità vs. necessità». Il fatto che dischi e nastri fossero l’unica fonte di suoni di qualità professionale a disposizione di gente che non poteva comprare altro che musica preregistrata e le apparecchiature per ascoltarla... questa va bene come spiegazione storica della nascita del rap e della pratica del campionamento. Oggi, però, è ovvio che un gran numero di gruppi rap, come testimoniano la loro posizione nelle classifiche di Billboard e gli stessi testi esuberanti delle loro canzoni, sono in grado di permettersi non solo gli strumenti musicali che un tempo non potevano acquistare, ma anche attrezzature digitali molto più costose, quelle che prima dovevano imitare con surrogati fatti in casa. Questo enorme balzo da un estremo all’altro, dall’unica fonte di suoni disponibile a buon mercato alla fonte più costosa che esista sul mercato, questo completo aggiramento della fase intermedia – vale a dire, un qualche tipo di performance originale – richiama surrealmente l’ascesa al successo dei personaggi dei romanzi di Horatio Alger: straccioni o ricchi; è il vivido riflesso, per l’estraneo di passaggio, di una cultura che sembra aver ormai completamente accantonato gli impliciti presupposti piccolo borghesi alla base dell’imperativo dell’«ascesa sociale dei neri» propagandato dalla Great Society di Lyndon Johnson.
I critici affermati della musica pop, tuttavia, vedono ancora questa storia dei campionamenti solo per quello che è: un elemento piuttosto forte di ipocrisia e pigrizia (e quanto la odiamo, la loro pigrizia...) nei rapper neri di successo, che ora usano tecnologia all’avanguardia che non hanno inventato loro per tagliare e incollare pezzi di musica che non hanno creato loro – nonché numerosi grumi di cultura pop bianca che loro hanno assorbito tanto passivamente quanto Noi – per realizzare quel genere di pretenziose «rivendicazioni» cui erano soliti riferirsi in termini vaghi e compiaciuti gli pseudoartisti degli anni Sessanta che tiravano manciate di vernice sulla tela come palle da baseball. Agli occhi della critica tradizionale, questi rapper stanno cercando di «legittimarsi» artisticamente attraverso il loro limite storico di non poter che acquistare, ascoltare e riprodurre, attraverso il proprio confinamento nel duro mondo del ghetto da cui, il critico si affretta a sottolineare, sono ormai riusciti a comprarsi una via di fuga, a evadere, che sono riusciti a trascendere attraverso una forma d’«arte» che incoraggia a prosperare esattamente quanto c’è di peggio nel mondo nero metropolitano. E dunque, di fatto, il rapper non ha nessuna legittimazione artistica: non «crea», si limita a rigurgitare l’arte e i prodotti pop che il suo mondo ha assunto, o che al suo mondo sono stati imposti, come unica parte visibile dell’identità personale. Molti critici, specialmente attraverso quel supremo disprezzo che è il silenzio, dirigono contro i rapper la stessa distanziante massima con cui i critici stroncavano la letteratura post-beat e postmoderna fitta di «campionamenti» negli anni Settanta, quando il rap sembrava solo una scintilla, destinata a esaurirsi spontaneamente, nell’occhio del funk: cfr Morris Lurowitcz a proposito di Chimera di John Barth: «La mancanza di originalità è tanto priva di originalità [...] quanto la spossatezza è spossante».
Senonché, ci sono modi più interessanti di criticare l’uso ossessivo che un genere musicale consapevolmente «chiuso» fa dei campionamenti, che devono per loro natura essere «aperti»:
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M. (3B)
Campionamento libero n. 2
Gli inni del rap più duro alla Supremazia Nera si muovono spesso su un terreno incerto. I Public Enemy hanno sfruttato ogni fonte possibile di militanza non-bianca, senza accorgersi che, per dirla con le campagne anti-AIDS degli anni Ottanta, quando vai a letto con una fonte vai a letto anche con tutti quelli con cui è andata a letto la tua fonte. Chuck D non si rende conto del rischio che corre. Ammetterebbe con orgoglio il debito verso un pioniere del rap come Afrika Bambaataa, un figlio del Bronx che fondò all’inizio degli anni Sessanta un gruppo di autocoscienza afro, la Zulu Nation. Ma Bambaataa, a quanto dice lui stesso, fu ispirato da Zulu, un film di guerra inglese con Michael Caine. Non è che le Pantere Nere non sparassero alla polizia; è che fra una sparatoria e l’altra ascoltavano musica folk, stendendo manifesti di «Potere al Popolo» con «Ballad of a Thin Man» di Bob Dylan in sottofondo sull’hi-fi. Dylan, in realtà, potrebbe essere il padre non riconosciuto dei Public Enemy, perché, quando Lyndon B. Johnson era l’anticristo e Ed Koch un giovane riformista affamato, lui era lì a rappare.
Le parole deliberatamente offensive dei Public Enemy (vedi l’ignominiosa intervista sul Washington Times di Professor Griff, «Why do you think it’s called jewelry?») devono qualcosa ...