L'era del cuore
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L'era del cuore

Come trovare il coraggio per essere felici

  1. 208 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'era del cuore

Come trovare il coraggio per essere felici

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Siamo all'inizio di una nuova epoca, quella in cui abbiamo la facoltà di prendere in mano la nostra vita e di trasformarla per ottenere una realtà più felice, produttiva e soprattutto coerente con i nostri valori. Come? Grazie alle emozioni, le armi più potenti che ognuno di noi possiede. La rabbia, l'amore, la paura, il dolore, la gioia, l'insicurezza non sono solo spie che si accendono per parlarci di noi, dei nostri bisogni e dei nostri obiettivi, ma sono anche strumenti preziosi da conoscere e usare per creare cambiamenti positivi, sia nel quotidiano sia a lungo termine. Questa è l'era del cuore: il momento in cui essere è più importante di avere; dare vale più che ricevere; lavorare su sé stessi con impegno, passione e fiducia diventa un'abitudine vincente. È il tempo di trovare il coraggio, anche quello nascosto nelle nostre fragilità, e di usarlo per trasformare i nostri fallimenti in successo. L'era del cuore è una terapia al contrario. Non è più, infatti, lo psicologo ad ascoltare la narrazione di vita dei suoi pazienti, ma è lui in prima persona a mettersi a nudo. Luca Mazzucchelli racconta i propri errori, fragilità, intuizioni e apprendimenti in modo da donare al lettore potenti rivelazioni sulla sua stessa vita.

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Informazioni

Editore
Giunti
Anno
2020
ISBN
9788809900462

Terza vita

Lo psicologo e psicoterapeuta

5

La psicologia: tra formazione e pratica

Le mie vite non sono a compartimenti stagni. Il mio attuale lavoro da imprenditore si è sovrapposto per un periodo a quello da psicoterapeuta, la mia figura di psicologo si è intrecciata con quella del comunicatore e, diciamolo, il comunicatore-psicologo va ormai a braccetto con l’imprenditore. Sono convinto che il mio lavoro da psicoterapeuta mi abbia in qualche modo reso unico nel mondo dell’imprenditoria, e di questo sono molto felice. Credo di potermi oggi avvicinare al mercato, ai clienti e ai collaboratori con una sensibilità che forse altri imprenditori non hanno. Soprattutto sono grato a tutte quelle persone che si sono affidate a me come professionista della psiche per capirsi di più – perché è anche merito loro se oggi ho una maggiore comprensione di me stesso e di come posizionarmi nei confronti degli altri.
La mia prima esperienza in questo ambito è stata come educatore all’interno di un progetto della Caritas Ambrosiana chiamato “Progetto Diogene”1. Ci occupavamo di persone senza fissa dimora, italiani o stranieri, uomini e donne che non avevano un tetto e dormivano dove capitava: per strada, alla stazione, al parco. In particolare, io lavoravo al Parco Nord di Milano. La notte, con il freddo, il buio e la nebbia, mi aggiravo fra gli alberi in compagnia di due colleghi, uno psichiatra e un assistente sociale, uno scenario così spettrale che ero molto felice di non essere da solo. Portavamo con noi una coperta, una bottiglietta d’acqua e un panino. Cercavamo di avvicinarci ai senzatetto sdraiati sulle panchine per entrare in contatto con loro. Ma non tutti smaniavano dalla voglia di vederci, anzi, alcuni scappavano, alcuni ci insultavano, altri ancora ci facevano chiaramente capire che la nostra presenza non era gradita: la strada era il loro spazio e lì volevano rimanere, senza di noi.
Se qualcuno ci mostrava uno spiraglio di apertura, allora ci sedevamo vicino a loro, gli offrivamo le coperte per resistere al freddo della notte e un panino e ci trattenevamo a fare due chiacchiere insieme. L’incontro poteva ripetersi anche la notte successiva, quella dopo e quella dopo ancora, e solo a un certo punto, quando si era creato un legame, li invitavamo a lasciare il parco per trasferirsi alla Casa della Carità, una struttura della Caritas dove avrebbero potuto ricevere accoglienza: un letto per la notte, pasti caldi, compagnia, assistenza di un medico e di uno psicologo. Non tutti accettavano il nostro invito, ma alcuni sì. E a quel punto, cambiando il setting, cambiavano anche le dinamiche, sia per noi che per loro. Magari mi ritrovavo con i senzatetto in cucina a pelare patate o sbucciare cipolle e, in quel contesto non convenzionale, si instaurava un dialogo: loro dicevano qualcosa, io rispondevo, poi mi facevano nuove domande, così anche un luogo tutt’altro che clinico diventava trasformativo, uno spazio in cui si rendeva possibile il cambiamento. Questa esperienza mi ha ribadito ancora una volta l’importanza dell’andare verso e mi ha fatto scoprire come sia possibile aiutare le persone anche in contesti non ufficiali. Ho capito che spesso il setting2 in cui ci si incontra non ha a che vedere solo con il paziente, ma anche e soprattutto con il terapeuta e i suoi preconcetti su come debba essere organizzato. Forse prima di quel momento non avrei immaginato di poter individuare delle opportunità di cambiamento grazie a una semplice chiacchierata davanti ai fornelli, mentre si è impegnati a tagliare le zucchine. E invece ci sono, eccome.
Le scintille che possono dare il via a una trasformazione si trovano ovunque. Ci sono libri che mi hanno cambiato la vita3; film che mi hanno regalato emozioni tali da farmi muovere in una direzione fino a quel momento inesplorata; speech di colleghi che mi hanno dato spunti per nuove idee. A volte, un semplice scambio di battute con uno sconosciuto su un treno mi ha lasciato frasi potenti, che hanno contribuito ad accendere nuove parti di me. Per questo rimango scettico quando mi viene detto: «Guarda che i tuoi video su YouTube non possono cambiare le persone!». Non è vero: anche un piccolo filmato visto sullo smartphone può aprirti nuove prospettive e spronarti verso una trasformazione, se tu glielo permetti, proprio come tagliare le zucchine in cucina.
Finito il Progetto Diogene, tra il lavoro con i bambini e le altre esperienze di quel periodo, ho avuto un momento di crisi. Mi guardavo intorno, facevo video, proponevo progetti, mandavo curriculum, ma mi sentivo invisibile. Nessuno si accorgeva di me. Sembrava che non ci fossero opportunità nella città di Milano e, come tanti, cominciavo a progettare la fuga. Avevo trascorso un paio di settimane a Londra con Giulia, la ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie, per migliorare il mio inglese, e pensai seriamente di trasferirmi là e propormi come psicologo per gli italiani all’estero (sarebbe stato un buon bacino di utenza, visto che solo a Londra abitano circa 250 000 italiani). Avevo in mente di creare un sito (che naturalmente si sarebbe chiamato www.psicologo-londra.uk) per avere un presidio online dal quale cercare i primi pazienti. Insomma, stavo progettando un futuro all’estero e mi ero dato tempo un anno per vedere se in Italia sarebbe cambiato qualcosa.
Ma poi qualcosa in quell’anno è accaduto: sono stato “adottato” da Enrico Molinari, il mio principale mentore di questa terza vita, oltre che il primo a credere in me e a vedere qualcosa che gli altri non vedevano. Docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed ex presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, Molinari mi ha scoperto quando, insieme ad alcuni colleghi, creai l’associazione Giovani Psicologi della Lombardia. Mi vedeva attivo, con mille idee e con l’entusiasmo di chi vuole fare, e per questo mi ha dato fiducia: quasi come un padre, mi ha preso sotto la sua ala e mi ha fatto crescere, trasmettendomi valori sani e positivi.
Nel 2009 Enrico ha ideato un progetto straordinario, tanto che poi è stato premiato anche con l’Ambrogino d’Oro: lo Psicologo in farmacia. La sua idea era che, laddove vengono distribuiti farmaci, lo psicologo avrebbe potuto dispensare parole, non per sostituire i medicinali, ma come complemento ad essi. Il progetto è partito con il supporto di varie associazioni di categoria e, per un certo periodo, anche con quello del Comune di Milano e ha coinvolto una ventina di farmacie e dieci psicologi. Io, nella fattispecie, avevo tre farmacie di competenza, dove mi recavo un pomeriggio alla settimana a tenere aperto uno sportello di ascolto, un piccolo spazio di consultazione psicologica per intercettare un potenziale bisogno e farlo emergere. Si trattava di capire le richieste degli utenti e di farle maturare nell’arco di tre o quattro incontri, per poi creare un punto di snodo verso altre strutture pubbliche, o verso professionisti privati. Ricordo che ai tempi qualche psicologo ci accusò di voler “rubare i clienti”, non comprendendo che il nostro avamposto tra i cittadini di Milano non era un servizio in competizione con i centri specialistici, ma l’esatto contrario. Il nostro scopo era andare incontro a determinate necessità e dirottarle poi nei luoghi dove potessero essere soddisfatte. Ancora una volta si trattava di andare verso.
Il lavoro in farmacia mi ha permesso di mettere a fuoco un metodo d’azione che poi è lo stesso che mi spinge nella creazione dei video. In entrambi i casi l’obiettivo è diffondere una cultura, ascoltare e far maturare i bisogni, e poi smistarli. I miei video non possono sostituire un percorso di terapia, ma, proprio come la mia attività in farmacia, possono divulgare e creare un terreno adatto per la circolazione della psicologia nel quotidiano. Grazie a questo lavoro, ho capito che servivano dei punti di collegamento fra le esigenze che si potevano incontrare in farmacia, al parco, nei cortili di periferia o su Internet, e le strutture preposte per la cura delle problematiche psicologiche. Soprattutto, ho capito che uno di questi snodi potevo essere io.
Dopo l’esperienza in farmacia, ce ne sono state molte altre nel campo della psicologia. Per un po’ ho collaborato con l’Auser, un’associazione che cura l’invecchiamento attivo delle persone. Il mio compito era quello di interfacciarmi con piccoli gruppi di anziani, dai 75 ai 90 anni, che sentivano il bisogno di confrontarsi con uno psicologo. Affrontavamo temi importanti come il fine vita e in quel contesto informale cercavo di far passare concetti fondamentali come l’importanza di guardarsi indietro e di dare un significato a ciò che si è fatto.
Ho anche lavorato presso un consultorio a Milano frequentato da un’utenza molto varia: c’erano persone in gravi condizioni di indigenza e altre invece estremamente facoltose, coppie o famiglie che avevano bisogno di un piccolo aiuto sulla loro relazione e individui che, invece, necessitavano di cure più approfondite.
Al lavoro in consultorio erano collegate altre attività, fra cui una molto interessante che si svolgeva nelle scuole medie del centro e dell’hinterland milanese, la Media education. Erano gli anni in cui iniziavano a emergere i disagi legati all’uso delle nuove tecnologie, e il mio compito era quello di andare nelle classi e sensibilizzare i ragazzi a un utilizzo più sano della Rete, partendo dall’insegnare loro l’uso dello strumento. Ma, già ai primi incontri, risultò evidente che avevo poco da insegnare: erano loro a spiegare il mondo di Internet a me. Per quanto sia sempre stato attratto dall’utilizzo di questi media, ho capito ben presto che, data la velocità di cambiamento nel mondo online, era impossibile padroneggiare tutte quelle innovazioni tecnologiche che i ragazzi invece testavano di continuo, ogni giorno. Ero andato lì per trasmettere delle nozioni, ma in quel campo i veri professori erano loro. Allora, forte dell’esperienza con i bambini dei cortili, mi sono imposto di stare zitto e ascoltarli, finché non fosse arrivato il mio turno. Mi sono calato nella figura del parcheggiatore e ho chiesto ai ragazzi di spiegarmi tutte le novità digitali che conoscevano. E più mi parlavano e io li ascoltavo con interesse, più si creava fra noi una relazione che poi mi ha consentito di usare le tecnologie come pretesto per veicolare loro altri messaggi: i rischi del cyberbullismo, la sicurezza online, i pericoli della Rete, l’eventualità di impegnarsi maggiormente per costruire relazioni dal vivo e non solo su Internet. Sono convinto che sarebbe stato utile affiancare a questo percorso in classe una formazione parallela rivolta ai genitori e agli insegnanti, non tanto per istruirli su come usare il social network di turno, ma perché imparassero a fare nel quotidiano quello che facevo io con quei ragazzi: usare la tecnologia come pretesto relazionale. Da parte degli adulti è diffuso l’atteggiamento di demonizzare la Rete e gli strumenti che essa offre. Sarebbe molto più utile, invece, incuriosirsi e fare domande, cercando per esempio di capire perché a un ragazzo piace un determinato videogioco, quali emozioni gli procura, quali sono le regole del mondo virtuale davanti al quale passa ore ogni giorno, perché si affeziona più a un personaggio che a un altro e così via. In questo modo si verrebbe a creare un ponte sul quale possono passare non solo informazioni su tecnologia e videogiochi, ma anche concetti comportamentali, valori, norme e suggerimenti che devono sempre essere bidirezionali: l’insegnante (o il genitore) al ragazzo, il ragazzo all’insegnante.
Quando racconto la storia della mia terza vita, a questo punto di solito c’è sempre qualcuno che mi interrompe per dirmi: «Sì, Luca, bello tutto, i cortili, il Parco Nord, le farmacie, l’Auser, le scuole… ma lo psicologo vero l’hai mai fatto?», intendendo con quel “vero” il lavoro tradizionale in studio. Sì, contemporaneamente a tutto il resto ho fatto anche quello.
Ho incontrato i primi pazienti durante i tirocini, i primissimi alla fine degli studi universitari4, quando ancora non ero iscritto all’albo degli psicologi, e poi anche durante la formazione della scuola di psicoterapia. Ho scelto di specializzarmi in psicoterapia sistemico-relazionale, approccio il cui fondamento sta nell’assunto che il problema non risiede nelle persone, ma tra le persone. Questo implica che davanti all’insorgere di un disturbo il terapeuta indaga non soltanto dentro l’individuo che lo presenta, ma soprattutto nelle relazioni fra l’individuo e il suo ambiente familiare, perché chi ha il sintomo potrebbe essere il portavoce di un malessere che ha radici in un sistema più allargato. Un classico esempio: l’iperattività che colpisce il bambino di una coppia può essere una “soluzione” a un altro problema del nucleo familiare, per esempio le liti furiose che costantemente avvengono fra i genitori, o tra loro e i suoceri5. In questo modo i dissidi precedenti vengono risolti, o almeno accantonati, mentre insorge una nuova problematica.
La mia mentore in campo clinico è stata Valeria Ugazio. Con lei ho appreso un modo di guardare il mondo, quello tipico dell’approccio sistemico-relazionale, che prevede l’adozione di un setting terapeutico atipico rispetto a quello tradizionale: gli utenti vengono fatti accomodare in uno studio in cui una delle pareti è occupata da uno specchio unidirezionale, all’interno della stanza c’è il terapeuta ufficiale con i pazienti (singoli individui, coppie, famiglie); all’esterno, dietro lo specchio, un co-terapeuta o un’equipe di professionisti assiste alla seduta e può poi fornire una serie di spunti ulteriori. Quando ho aperto il mio studio privato, ho cercato di portarvi lo stesso approccio, ma con una differenza sostanziale: dal momento che lo specchio unidirezionale costa una marea di soldi, e io ovviamente non li avevo, ricevevo i pazienti insieme a un collega. Quindi eravamo due terapeuti davanti al paziente, e non solo perché il modello teorico su cui mi ero formato mi suggeriva di procedere in questo modo, ma anche perché allora ero piuttosto insicuro e la presenza di un altro professionista al mio fianco mi faceva sentire più protetto, come se avessi meno possibilità di sbagliare. Infatti, se c’è un’emozione provata durante le prime sedute tenute nel mio studio, e di cui ho un ricordo nitido, questa è la paura. Come tutti i terapeuti, so bene che il cambiamento nel paziente non dipende strettamente da noi: non abbiamo la bacchetta magica e le persone, come vedremo meglio più avanti, cambiano quando sono loro a decidere di farlo. Ciononostante, l’idea che qualcuno venisse spontaneamente ad affidarmi il suo benessere e la sua salute, se da una parte mi lusingava, dall’altra mi spaventava. Era una responsabilità enorme.
Ci sono voluti tempo ed esperienza per trovare il coraggio di affrontare la mia paura e trasformarla in valore da generare a beneficio degli altri. I passaggi fondamentali sono stati due. Il primo ha a che vedere con il mio modo di lavorare. Essendo alle prime armi, all’inizio dedicavo un’attenzione maniacale a ogni seduta: ero ossessionato dai minimi particolari. D’accordo con i pazienti...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il libro
  3. L'autore
  4. Collana
  5. Frontespizio
  6. Colophon
  7. Indice
  8. Introduzione
  9. Prima vita – LA GAVETTA
  10. Seconda vita – IL COMUNICATORE
  11. Terza vita – LO PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA
  12. Quarta vita – L’IMPRENDITORE
  13. Promessa del lettore
  14. Ringraziamenti
  15. Letture consigliate
  16. Non finisce qui
  17. Il tuo aiuto al libro
  18. Intervista a Luca Mazzucchelli ai tempi della pandemia
  19. Esercizi per allenarsi nell’era del cuore