Parte Prima
Auschwitz come antimondo:
la Gegenrealität dello sterminio
Ma ormai non c’era più nulla da fare. Rimasero un po’ lì, gridando e bestemmiando, poi si accorsero che veniva tardi; c’era l’appello, e dovevano tornare al lager. Rabbiosamente ci ordinarono di riprendere il cammino.
“Presto, presto, avanti!” gridavano irritati mentre la pioggia cominciava a cadere fitta.
Le file si ricomposero ed Hermine cominciò a segnare il passo. Prima di allontanarmi mi voltai: Bruna e Pinin erano ancora là, strettamente abbracciati e la testa della madre posava su quella del figlio come volesse proteggerne il sonno.
L. Millu, Il fumo di Birkenau
Introduzione
Era un inferno, ossia un passaggio nell’aldilà dopo atroci sofferenze. Immediatamente gli uomini vennero separati dalle donne e dai fanciulli, ordinarono loro subito di mettersi in fila ed in cammino e altrettanto fecero con noi che sfilavamo dinanzi a quelle canaglie. Alle mamme vennero subito strappati i bambini dalle braccia.
Due sono gli elementi di rilievo che caratterizzano la descrizione dell’arrivo ad Auschwitz dell’ebrea-italiana Frida Misul: 1) la connotazione dell’entrata in lager come passaggio dall’aldiquà all’aldilà («era un inferno, ossia un passaggio nell’aldilà»); 2) la separazione delle famiglie («gli uomini vennero separati dalle donne e dai fanciulli»), e più in particolare l’insistenza sulla sorte riservata alle madri e ai figli: alle donne che entrano in campo «vengono strappati i bambini dalle braccia».
Questi elementi suggeriscono da un lato l’idea del campo della morte come un mondo situato fuori dal mondo e, dall’altro lato, attirano l’attenzione sulla delicata questione del genere, dato, quest’ultimo, non esente da controversie quando si parli del genocidio ebraico e su cui bisognerà ritornare.
La Gegenrealität di Auschwitz: varcare la soglia
Si è visto come il lager, per Frida Misul, rappresenti un «aldilà». La scelta del termine suggerisce, nella sua sostanziale ambiguità semantica, il superamento di un limite contemporaneamente fisico e metafisico: una volta varcati i cancelli siamo oltre, abbiamo valicato un confine che, se nella testimonianza di Misul non è meglio specificato, è però caratterizzato dalla nozione di sofferenza («atroci sofferenze»). Un concetto molto simile è espresso anche da Giuliana F. Tedeschi, ebrea di origini milanesi deportata ad Auschwitz-Birkenau nel 1944:
C’è un punto della terra che è una landa desolata, dove le ombre dei morti sono schiere, dove i vivi sono morti, dove esistono solo la morte, l’odio, il dolore.
Di notte lo circondano e separano dalla vita le fitte pareti dell’oscurità, di giorno l’infinità dello spazio, il sibilo del vento, il gracchiare dei corvi, il cielo tempestoso, il grigio delle pietre. Ci si arriva fiduciosi in treno, dopo una corsa attraverso i verdi boschi della Baviera e lungo le fresche rive della Moldava, ancora contemplate con occhi da turista. Ma quando il cancello si è chiuso e i fili spinati sono oltrepassati, si è nell’abisso.
Il campo di sterminio, qui, non è più soltanto superamento di un confine (un «aldilà») bensì anche il capovolgimento di una norma: Auschwitz è «un punto della terra» isolato dal mondo («separat[o] dalla vista [da] fitte pareti di oscurità») e fondato su una grottesca anti-trinità di «morte, odio, dolore». Tedeschi rileva la profonda distanza, ma forse più preciso sarebbe parlare di opposizione, tra il mondo esterno, il mondo dei vivi, e l’«abisso» di Auschwitz: esso è il luogo del «gracchiare dei corvi», del «grigio delle pietre», delle «fitte pareti di oscurità» che si contrappone ai «verdi boschi» e alle «fresche rive» del mondo dei vivi. Il locus horribilis è esasperato dal ricorso alla forma impersonale («ci si arriva»; «il cancello si è chiuso»; «si è nell’abisso»), che amplifica l’isolamento e l’inumanità di un luogo segregato in una dimensione spazio temporale innaturale in cui si realizza un sovvertimento dell’ordine delle cose. Così, rispetto all’«aldilà» di Auschwitz, persino il viaggio in treno, pur nelle sue condizioni disumane, finisce col configurarsi come momento di transizione in cui è ancora possibile scorgere uno spiraglio di umanità e di speranza, tanto che l’aspro paesaggio polacco, se confrontato con l’aldilà del campo, arriva ad assumere i toni e le tinte del locus amoenus («i verdi boschi», «le fresche rive»). Non è certo un caso, allora, che la narrazione dell’entrata in campo sia introdotta tramite un’avversativa in incipit di periodo: «Ma quando il cancello si è chiuso e i fili spinati sono oltrepassati, si è nell’abisso». Il paesaggio polacco scompare, inghiottito dalle «fitte pareti di oscurità» che isolano il campo della morte in un «aldilà» che è «unico,...