1.
CURAR(SI) PARLANDO
Chi cura e chi è curato
È possibile curare solo curandosi. La cosa vale soprattutto per quello strano mestiere dello psicoanalista per il quale, più che per altri interpreti della cura psicologica, vige la regola che prima di curare ci si cura. Nel senso di conoscere a fondo se stessi, di prendersi cura delle proprie ferite, di mettere in relazione le aree più oscure della propria psiche con quelle più consapevoli. E questo per non rischiare di vedere nel paziente l’immagine di sé stessi, rendendo le sedute di terapia uno specchio riflettente le fisionomie del terapeuta anziché una lente di ingrandimento dell’altro che gli sta di fronte, guardandolo per quello che veramente è.
Del resto, volenti o nolenti, ogni percorso di cura psicologica rinnova in primis per il curante il vecchio motto socratico “conosci te stesso”, per il continuo rimando che il dialogo terapeutico fa ai modi di essere della psiche che sono universali e quindi ci riguardano tutti, terapeuti e pazienti. È proprio il riconoscersi egualmente parte di questo universo che è la psiche, pur nella differenza di abitarvi con maggiore o minore consapevolezza, con maggiore o minore capacità di essere in contatto con sé stessi e con il mondo, a costituire la condizione che rende possibile la cura. Jung, il fondatore della Psicologia Analitica, la indicava come una delle questioni fondamentali della psicoterapia:
Lo psicoterapeuta avveduto sa da tempo che ogni trattamento complesso è un “processo dialettico” individuale nel quale il medico, come persona, è coinvolto tanto quanto il paziente. In un tale confronto, è ovviamente molto importante sapere se il terapeuta ha per i propri processi psichici quella stessa comprensione che egli si aspetta dal paziente. […] Si potrebbe dire senza esagerazione che ogni trattamento destinato a penetrare nel profondo consiste almeno per metà nell’autoesame del terapeuta: egli può infatti sistemare, riordinare nel paziente soltanto quello che riordina in sé.
Ma (ci) si può curare parlando? Sì, perché la parola, raffinata o grossolana, impulsiva o meditata, è il più veritiero affacciarsi al mondo della psiche. Sia quando l’affacciarsi è una inter-locuzione con un tu che ci sta di fronte in carne e ossa, sia quando è un silenzioso e interiore dispiegarsi di pensieri e di stati d’animo che, solo grazie alla parola, possono risiedere nella nostra coscienza. In ogni caso la parola è sempre al cospetto dell’altro: si tratti dell’altro al di fuori di noi, dell’altro dentro di noi che si presenta come voce alternativa a quella del nostro Io, o dell’Altro che trascende l’umanità e abita i cieli della nostra psiche.
Essere psicoterapeuti non è possedere una tecnica: è innanzitutto un modo di essere al mondo. E ogni terapeuta, nel suo curare, non mostra anzitutto una prassi o una teoria: egli mostra essenzialmente sé stesso. Senza tema di smentita, si potrebbe tranquillamente affermare: dimmi come curi e ti dirò chi sei.
Dunque, la cura cambia a seconda del terapeuta e del paziente? Spesso spaventa o incuriosisce dirlo, ma la risposta è sì, perché la sostanza della cura psicologica è il dialogo: quella parola che non è del paziente o del terapeuta ma della coppia terapeutica, che può costituirsi solo in relazione alla peculiarità e al momento storico delle due persone che si incontrano. La cura è una relazione, e nessuna relazione tra due persone è sovrapponibile a un’altra.
Ciò significa anche che, per il terapeuta, fondamentale non sarà la sua scuola di pensiero ma la sua personalità. Nel 1945, sempre Jung lo affermava già a chiare lettere:
Ogni psicoterapeuta non ha soltanto il suo metodo: “è egli stesso quel metodo”. […] In psicoterapia, il grande fattore di guarigione è la personalità del terapeuta: ed essa non è data a priori, non è uno schema dottrinario, ma rappresenta il massimo risultato da lui raggiunto. Le teorie sono inevitabili, ma come meri sussidi. Se sono elevate a dogmi, dimostrano che è stato represso un dubbio interiore.
Che cosa dicono i pazienti
Tommaso entra per la prima volta nello studio con sguardo perplesso. Inizia subito a parlare di sé, dei suoi conflitti coniugali, della sua fatica di vivere. Poi la parola si ferma, il corpo continua a comunicare e sceglie un’altra strada, più incerta ma più urgente. Tommaso piange e, singhiozzando, di nuovo parla. Forse dapprima per voler fermare il pianto che lo fa essere preda delle emozioni ma poi, cedendo al potere di queste, per tentare di dirsene il significato. O di dirsi l’incapacità di dare un significato. Lo dice a sé stesso dicendolo al terapeuta, il “compagno” del momento. Ha bisogno di piangere, ha bisogno di dire. E verso fine seduta arriva la domanda, dubbiosa e al contempo speranzosa: “ma come è possibile che, parlando, si possa star meglio?”.
Lucilla arriva in seduta cupa e al contempo decisa: è uno dei suoi primi appuntamenti in terapia. Parla molto, e la sua parola non vuol essere disturbata dalle emozioni per andare dritta ad argomentare la sua tesi. Sul lavoro tutti la prendono in giro e parlano male di lei. Dev’essere per quella sua simpatia di qualche tempo fa per il pakistano. Non le parlano apertamente, glielo fanno capire con sguardi, allusioni, frasi cifrate, silenzi improvvisi. Il dramma è che nessuno fuori dal lavoro le crede e che tutti le chiedono di non parlarne. Ne può parlare solo con il terapeuta, ma nemmeno lui le crede. Tuttavia, la ascolta. Ma il dubbio sull’utilità della parola si fa sentenzioso: “anche se ne parlo qui, il mondo non cambia!”.
Quelle di Tommaso e di Lucilla sono due tra le tante possibili scene che si incontrano in una stanza d’analisi dove, per eccellenza, si svolge la talking cure, la cura psicologica che avviene parlando. Due situazioni molto differenti: la prima, che la clinica annovera tra le depressioni, è avvertita dal terapeuta come appartenente a un mondo comune; la seconda, che la clinica inserisce nella paranoia, è avvertita dal terapeuta come appartenente all’ autre monde dell’alienità. La prima è disponibile a porsi domande e acconsentire alle emozioni, la seconda necessita di certezze ed esclude, almeno apparentemente, le emozioni. Ma entrambi i pazienti vengono in terapia per parlare: Tommaso perché vuole stare meglio, Lucilla perché vuol parlare e basta. La parola nel primo caso è più aperta e disegna curve metaforiche, nel secondo si chiude e scolpisce spigoli.
Sia Tommaso sia Lucilla, nel dire, interpretano. I fatti e gli stati d’animo narrati sono presi in consegna nelle braccia di un significato (cercato come possibile o dato per certo, condivisibile o privo di una visione comune) e non sono più meri accadimenti. Non più pietre cadute nella vita per caso o per colpa, ma fatti e stati d’animo “appropriati”, divenuti propri e inseriti nella tessitura dell’autoriflessione.
Viene anche alla memoria una terza scena, quella di Luisa. Protagonista è il corpo, con la scompostezza del movimento e l’inquietudine del volto. Un corpo colmo d’ira, bloccato nella protesta e chiuso alla intimità della relazione, unico modo per testimoniare che con il trauma subito, acuto e inatteso, non è più come prima. Il corpo si avvale dell’urlo della parola: senza di esso il movimento, da solo, non basterebbe a obbligare il compagno (terapeuta) a stare con lei, a fargli tendere le sue braccia per poi subito respingerle e confermare che la devastazione non è solo sua ma anche del mondo. Anche Luisa viene in terapia per parlare: non chiede di star meglio, rivendica il diritto di urlare, di scagliare quella parola che in lei non ha una meta ma solo un bisogno.
La cura al gerundio
Come noto fu la celebre paziente di Joseph Breuer, Bertha Pappenheim, a coniare l’espressione talking cure. Si era al tempo della nascita della psicoanalisi con i fondamentali Studi sull’isteria pubblicati nel 1895 da Freud e da Breuer, quando i due pionieri della cura analitica ebbero l’intuizione che la parola del paziente, prima ancora di rivelare significati nascosti da interpretare, fosse veicolo di catarsi. Una sorta di liberazione, mediata dalla coscienza, di quell’ingorgo energetico stagnante nell’inconscio, i cui echi erano solo visibili nei movimenti caotici del corpo interdetti alla logica del ragionamento.
Ma oggi sappiamo tutti che la parola non è solo catarsi. Anzi, nell’immediato a volte non lo è per nulla, perché può peggiorare lo stato emotivo e aumentare il caos del corpo. Siamo lontani dalla fede ottocentesca nella ragione e nella parola, ma sappiamo che quest’ultima è la vera urgenza avvertita dalla sofferenza. Perché allora curare (curarsi) con la parola, se non sempre solleva dal patire? Forse perché la sofferenza psichica chiede essenzialmente di esistere, di essere manifesta e avvertibile prima ancora che essere guarita. E la parola è il suo veicolo più appropriato: quella articolata nei suoni e quella rappresentata solamente nel loro silenzio, quella capace di significat...