1.
Introduzione alla pratica
della filosofia
Basta che incontrino un malato o un vegliardo o un cadavere,
perché dicano “la vita è confutata!”.
Ma soltanto loro sono confutati e il loro occhio,
che dell’esistenza vede solo quell’un volto.
Friedrich Nietzsche
1.1. Il laboratorio della mente
La complicità tra il tema del senso e quello del canto, la difficoltà di parlare dell’uno senza sconfinare nell’ambito dell’altro, si è imposta sin dalle prime battute di questa riflessione, in un continuo scambio tra arte filosofia e psicologia, ciò che chiamerò il laboratorio della mente; una riflessione dedicata a coloro che sentono il bisogno di praticare unitariamente l’umano: trascendere i confini dei singoli saperi, gli steccati epistemologici che condannano ogni disciplina all’autoreferenzialità, e trascendere il confine, comunque relativo, tra il sapere, la vita e la cura della vita.
Quando la vita, che per l’uomo significa consapevolezza individuata, chiede al sapere di ricongiungersi a lei, chiede un sapere sperimentale: ispirato e destabilizzato dalla vita ogni volta che stia incancrenendosi in se stesso, e a sua volta capace di ispirare e destabilizzare la vita quando questa perda il senso della propria realtà. Quando la vita chiede al sapere di ricongiungersi a lei, chiede un sapere unificante e al tempo stesso pluridimensionale, che attinga la visione dell’insieme: l’unità differenziata di quel campo esperienziale qui identificato quale orizzonte di incarnazione, il mitologema portante di questa ricerca, la rivelazione di una realitas che, giorno dopo giorno, si è presa cura problematicamente della mia vita, ovvero senza alcuna assicurazione sulla vita, come sempre accade per quelle storie aperte che sono le storie umane.
Parlando di “realtà” ci inoltriamo in un ambito terribilmente semplice e altrettanto terribilmente complesso. La realtà è multi-prospettica eppure condivisa, permanente eppure evolvente, culturalmente condizionata eppure trans-culturale, prossima a noi eppure numinosa. Per avvicinarla conviene esercitarsi ad essere “realisti”, nel senso più ovvio del termine, pragmatici, concreti e al tempo stesso visionari, surrealisti, capaci di praticare anche quella “istruzione anarchica atta a produrre un prodigioso volo di forme […], a rimettere organicamente in discussione l’uomo, le sue idee sulla realtà, la sua posizione poetica nella realtà”, il compito che Artaud attribuiva al suo Teatro della crudeltà.
Il principio di realtà, che alcuni pensano confliggente con il soggettivo principio di piacere, mentre potrebbe riservare la migliore palestra del piacere, è oggi particolarmente sollecitato dal sorprendente incremento tecnologico, come è rilevato da tutti quegli osservatori che pongono al centro del dibattito la “filosofia della tecnica”. La tecno-scienza, ormai più avanzata di ogni tradizionale fanta-scienza, è responsabile delle principali rivoluzioni che hanno modificato il quadro del mondo esterno e conseguentemente di quello interno. Ciò che è, uomo compreso, è tecnologicamente ottimizzabile quanto degradabile. La possibilità di discriminare in questo ambito rimanda a una pre-scienza dell’uomo nel quadro di realtà, tanto più necessaria a fronte di una manipolazione diretta e invasiva dell’umano mai tentata prima d’ora: una manipolazione decisamente mutazionale, che va a sfidare ogni nostra certezza. “La cultura del nostro tempo [...] chiede appunto perché non si debba fare ciò che si riesce a fare; sicché ‘naturale’ è tutto ciò che si riesce a fare”. Una simile argomentazione, riportata da Severino, oltre a coinvolgere in modo equivoco il concetto di natura, esclude ogni considerazione di opportunità che non sia la mera possibilità tecnica.
La ricomposizione di sapere e vita, e quella tra i vari saperi della nostra logos-sfera, non può eludere oggi il confronto con questioni del genere. Tale ricomposizione soddisfa forse una richiesta del profondo: l’ancestrale movimento che spinge vita e reflexio ad amarsi, attraverso l’occasione che l’uomo rappresenta. Nella comunione tra sapere e vita il senso di ognuno può iniziare a manifestarsi attraverso la ricerca del senso del tutto: e il tutto, in quanto tutto, chiede di essere esperito, assaggiato, fiutato, tastato, amato e odiato, pensarlo soltanto è già esserne fuori. Ma non pensarlo lo è altrettanto. Attratta nell’ambito della reflexio ogni esperienza dà luogo a una nuova esperienza, sorta dal nuovo passo di danza che la reflexio imprime alla sua materia, trasformata nell’atto stesso dell’accoglierla. L’incubazione dell’esperienza è a sua volta uno snodo epistemologico, un elemento di trasformazione della postura riflessiva.
La crescente patologizzazione della vita, e la relativa terapia ad oltranza, intercettano istanze che sarebbero naturalmente destinate alla latitante forza della cultura, l’originario discorso dell’uomo sull’uomo – che continueremo a chiamare classicamente “filosofia” – sorto da un millenario e appena albeggiante progetto di civiltà. Come scrive Romano Màdera:
[...] quel che viene vissuto patologicamente e che viene portato come richiesta t...