Capitolo Nono
La rappresentanza politica moderna
La dubbia distinzione tra democrazia diretta e governo rappresentativo
La distinzione tra democrazia diretta e governo rappresentativo è sconosciuta a Hobbes, nonché estranea concettualmente alla sistematica di Leviathan.
Quella che noi ‘moderni’ definiamo come “democrazia degli antichi”, basata sull’autogoverno popolare, corrisponde a quella che Hobbes definisce come “democrazia o Stato popolare”, che è una delle tre forme che può assumere il Common-wealth, il Leviatano statale. Anche la “democrazia o Stato popolare” ha, perciò, una “persona sovrano-rappresentativa” e dei “sudditi”, un “attore rappresentante” e “autori rappresentati”: insomma, è anch’esso un regime rappresentativo nel medesimo senso in cui lo è la monarchia e l’aristocrazia.
Sul punto Hobbes non dà adito a dubbi: scrive infatti che
la differenza fra gli Stati consiste nella differenza del sovrano, o persona che rappresenta tutta la moltitudine e ciascun membro di essa. E poiché la sovranità può essere in un solo uomo, o in un’assemblea di più uomini; e all’assemblea possono avere diritto di accesso tutti, oppure non tutti ma solo determinati uomini, distinti dagli altri, è chiaro che vi possono essere solo tre specie di Stato. Il rappresentante infatti deve necessariamente essere un solo uomo, o più uomini; e se si compone di più uomini, allora può essere l’assemblea di tutti, o quella di una parte soltanto. Quando il rappresentante è un solo uomo, lo Stato è una monarchia, quando è un’assemblea di tutti coloro che si vogliono riunire, è una democrazia, o Stato popolare; quando è un’assemblea di una parte soltanto, è detto aristocrazia.
È un passo che non è mai valorizzato come meriterebbe e che, se letto con la mentalità gius-politica contemporanea, parrebbe celare una contraddizione: se il Leviatano si regge sempre e necessariamente sulla prestazione rappresentativa di un sovrano, grazie al quale la moltitudine disunita e dispersa degli individui diventa un popolo politicamente unito, come si può legittimamente ricondurre nel novero delle forme leviataniche la “democrazia o Stato popolare”, in cui parrebbe assente la distinzione tra rappresentante e rappresentati perché il sovrano è “l’assemblea di tutti”?
Alla domanda si deve rispondere senza troppi giri di parole: nella “democrazia o Stato popolare”, seppure basata sulla sovranità della “assemblea di tutti”, la distinzione tra attore rappresentativo e autori rappresentati, tra sovrano e sudditi, è presente nei medesimi termini che nella monarchia e aristocrazia. Nella grammatica concettuale della nozione di rappresentanza politica messa a punto da Hobbes l’autore/suddito è colui che ‘fa sue’ le parole e azioni dell’attore rappresentativo sovrano; e viceversa, l’attore è colui le cui parole e azioni sono riconosciute come proprie dagli autori. Nel caso della democrazia ciascun suddito fa sue le parole e azioni della “assemblea di tutti”, di cui egli stesso fa parte. Ritroviamo pure qui la distinzione tra autore che autorizza e attore autorizzato (e per ciò provvisto di auctoritas), dal momento che il singolo suddito autorizzante non è l’assemblea di tutti (di cui comunque fa parte): è quest’ultima, perciò, il rappresentante sovrano, così come un solo uomo lo è nella monarchia e l’assemblea di pochi lo è nell’aristocrazia. Lo “Stato popolare” realizza l’unità politica della moltitudine nellla “assemblea di tutti” (o “di tutti coloro che si vogliono riunire”), senza che venga meno la separazione tra attore e autore, sovrano e suddito: uti singulus, infatti, l’individuo è autore e suddito, pur essendo membro dell’assemblea che tiene la parte della persona sovrano-rappresentativa. Il singolo membro di un’assemblea sovrana – sia che si tratti della “assemblea di tutti”, come nella “democrazia o Stato popolare”, sia che si tratti della “assemblea di pochi”, come nella “aristocrazia” – non è “sovrano”, considerato che non sono le sue “parole e azioni” bensì quelle imputabili all’assemblea di cui fa parte a essere autorizzate, fatte proprie da tutti gli altri individui.
Rousseau e la “persona pubblica”
Seguendo la mia proposta ricostruttiva, sfumano le differenze tra il pensiero hobbesiano della rappresentanza e quanto si può trarre dall’opera di Jean-Jacques Rousseau, notoriamente ascritto tra coloro che criticano radicalmente il concetto di rappresentanza politica.
Di solito, per annoverare il pensatore ginevrino tra i critici della forma rappresentativa si fa leva sul noto passo del Contrat social in cui si afferma che “la Sovranità non può essere rappresentata” e che “il popolo Inglese pensa di essere libero, ma s’inganna parecchio, poiché non lo è che durante l’elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti esso è schiavo”. Si deve, però, tenere presente che il proposito di Rousseau era quello di “cercare se può esistere nell’ordine civile qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere”. Non offre perciò una teoria generale dello Stato, spendibile per ogni forma di sovranità immaginabile, come fa invece Hobbes nel Leviathan (sebbene in quest’opera la preferenza sia nettamente accordata alla sovranità monarchica); ma argomenta in favore di una specifica forma di sovranità statale, quella popolare, sostanzialmente corrispondente al tipo hobbesiano del “popular Common-wealth”, da preferirsi rispetto al sistema aristocratico inglese.
La proposta normativa rousseauviana si ricollega programmaticamente al diritto pubblico romano (e non solo), nel convincimento che gli antichi distinguessero correttamente tra sovranità e governo, affidando la prima al popolo e il secondo alle magistrature o al principe. Su questa distinzione, che ha un’importanza capitale anche per il corretto intendimento del diritto pubblico moderno, mi soffermerò a lungo nel Capitolo Decimo. Per ora m’interessa sottolineare come Rousseau considerasse insostenibile, dal punto di vista normativo dei “principi del diritto politico”, che la sovranità spettasse a un soggetto diverso dal popolo e che tale soggetto fosse, allo stesso tempo, definito come “rappresentante del popolo”: al massimo potrebbe essere un “commissario” del popolo, un suo “magistrato”, vincolato a un mandato e alla legge deliberata dall’assemblea popolare sovrana. Ecco perché nel Contrat Social si legge che “l’idea dei Rappresentanti è moderna”, ma con origini medievali, poiché “ci viene dal Governo feudale”. Infatti, “nelle antiche Repubbliche e anche nelle monarchie – è sempre Rousseau che scrive – il Popolo non ebbe mai rappresentanti; questo termine era ignoto”.
Delle tre forme di sovranità individuate da Hobbes – monarchica, aristocratica e popolare – Rousseau tiene solo la terza, reputando le altre due illegittime. E una volta posta la premessa secondo cui, in coerenza con i principi universali dei diritto politico, il solo sovrano legittimo debba considerarsi il popolo, l’obiettivo polemico diventa l’idea che questa sovranità possa essere rappresentata. Ma sul punto Hobbes non avrebbe alcuna obiezione da muovere: per definizione, la sovranità è sempre rappresentativa e mai è rappresentata. Il vero problema, allora, è se, come Hobbes, anche Rousseau ritenga che la sovranità dell’assemblea popolare sia anch’essa una forma di rappresentanza sovrana: l’assemblea popolare di tutti è persona rappresentativa?
Nel Contrat Social pare non esservi traccia esplicita della complessa distinzione hobbesiana tra autore e attore. E la ragione è facilmente intuibile. Il dispositivo dell’autorizzazione risponde alla finalità di spiegare, in chiave di teoria generale, quale condizione fondi la possibilità dello Stato: per Hobbes, se c’è uno Stato, è perché una pluralità di persone fanno proprie “le parole e azioni” di un rappresentante sovrano, cioè perché lo autorizzano, conferendogli appunto autorità sovrana. In Rousseau, invece, non c’è il proposito di mostrare cosa renda possibile lo Stato, quale che ne sia la forma e il tipo. C’è, piuttosto, il proposito di mostrare quale sia la sola forma statale legittima: e quindi, non si focalizza mai ...