Capitolo uno
La filosofia del tragico
scenografie rapsodiche, panorami
insoliti
1. Al cuore della filosofia del tragico: etica come filosofia prima e vita filosofica.
Immaginatevi qualcosa al cui confronto la musica delle Nozze di Mozart sembri fiacca, e sgraziato baccanale sorto dal pennello di Rubens. Immaginatevi una danza, un’autentica danza, inventata secondo un piano di deliziosa sapienza – e tutto quanto nella vostra lingua viene chiamato “scena” altro non sia che momenti e figure di una danza, il mondo intero messo in maschera mentre balla con gesti esuberanti e incontrollati, l’intero fardello della vita trasformato non in sogni oscuramente scintillanti, come in Shakespeare, ma in movimento vorticoso, persino l’insolenza più insolente nobilitata da uno slancio senza nome, immaginatevi tutto questo e su di esso luccicare la rugiada del primo mattino, e passare il vento del mare greco, il respiro dello zafferano e del croco, il polline delle api dell’Imetto. Tutto ciò è nato, ma da quale mondo! Immaginatevi questo mondo: le lance sanguinanti della guerra del Peloponneso, la tazza avvelenata di Socrate, i delatori che di soppiatto strisciano nel buio, l’assemblea con diecimila teste, le etère di Alcibiade, variopinte ed alate come leggeri uccelli sfacciati, e sopra tutto ciò l’aureo scudo di Atena. Immaginatevi tutto questo in ogni aspetto: nel vortice di un simile mondo questa commedia danzante come una trottola frustata da bimbi sfrenati.
Il paesaggio della memoria dipinto a parole in questo esergo ci chiama a considerare il tragico prima di tutto come lo sforzo immaginativo di un paesaggio d’anima, un grande gioco scenico della vita nella vita, una grande possibilità esplorativa della vita per la vita stessa che, non solo nella tragedia ma soprattutto in essa, trova un’eco sacra, misteriosa e malinconica. Il tragico, in quanto esperienza immaginale, si offre come possibilità esplorativa della vita, poiché conserva in sé tanto la capacità di scandaglio e di affondo nelle trame delle esistenze che tocca, dei suoi personaggi e protagonisti, quanto l’apertura e lo slancio erotico alla comunanza, al raccontare per immagini la collettività, la condizione umana degli uomini e delle donne che siamo, tutti e tutte. E dunque, nel teatro così come nella vita, si presta come esperienza collettiva: ci accomuna in un comune sentire, chiama in causa la nostra ricerca di senso. Esso è legato all’azione della contemplazione, all’opera dello sguardo, e dunque al teatro, ma sollecita i sensi e mette in piazza le passioni di ciascuno, le sofferenze e le fatiche di un percorso di ricerca per diventare umani. Nella tragedia l’uomo riesce a rappresentare se stesso, a forgiare e a dare forma e spazio alle sue paure, mostrando allo stesso tempo le ferite aperte di una disposizione all’umanità indiscutibilmente meticcia, spuria, bastarda, paradossale, irrisolvibile e in definitiva incomprensibile per ciascuno di noi.
Se siamo sinceri, dobbiamo riconoscere di non capirla. La filologia non ha ancora sufficientemente preparato i nostri organi ad accogliere in sé la tragedia greca. Forse non esiste creazione artistica più fortemente intrisa di motivi puramente storici, transeunti. Non dimentichiamoci che ad Atene la tragedia era un’azione di culto, e dunque si svolgeva non tanto sulla scena quanto nell’animo degli spettatori. Un’atmosfera extra-poetica, la religione, avvolge teatro e pubblico. Quanto di tutto ciò si è salvato ed è giunto fino a noi può essere paragonato al libretto di un’opera di cui non abbiamo mai sentito la musica; è il rovescio di un tappeto: estremità di fili colorati che provengono dal diritto, che è stato tessuto dalla fede. Ma nella ricerca sulla fede degli Ateniesi entrano in campo purtroppo i grecisti: a loro non riuscirà di ricostruirla. E fino a quando essi non faranno progressi, la tragedia greca resterà per noi un testo scritto in una lingua di cui non possediamo il vocabolario.
La difficoltà nel comprendere che cosa davvero sia la tragedia sta nell’incapacità di discernere una sua specificità fenomenologica che la distanzi dalla vita vera e propria, nella sua complessa e intricata totalità. Anche l’appartenenza all’aspetto religioso, sacro e rituale non fa altro che rendere la tragedia un oggetto estetico molto misterioso: essa si presenta come un’esperienza teatrale e artistica ma raccoglie in essa il mondo, e tenta di rappresentarlo, e di prenderne le distanze pur facendone parte.
Per facilità di trattazione e per l’interesse specifico di questo lavoro, tratteremo la tragedia come spazio privilegiato, come contenitore principale del sentimento tragico. Tuttavia, è importante sottolineare, come del resto è stato più volte fatto, che il tragico non sia possesso esclusivo della tragedia, ma piuttosto un elemento che accomuna a più riprese la totalità dei linguaggi artistici, da quelli antichi a quelli contemporanei. Infatti, si parla tanto e spesso di miti e di tragedie greche, ma molto meno della loro dimensione profondamente filosofica e tragica, che appartiene al campo tanto etico quanto vocazionale e che contempla una spinta, per così dire, genealogica. È vero che i personaggi mitologici così come tragici sono spesso stati oggetti di ricerca psicanalitica e simbolica, eppure manca una vera e propria definizione di campo e l’assunzione di questo materiale nel campo filosofico dell’etica, dell’ermeneutica, della poetica. Il tracciato di questa ricerca si muove verso una filosofia del tragico che vuole avere il compito di sviscerare quale sia il ruolo del sentimento tragico nelle vite umane, senza negarlo, tenendo insieme, inevitabilmente e in maniera rapsodica, i campi del sapere e della conoscenza che pure tocca – artistico, filologico, psicanalitico, antropologico. Inoltre la filosofia del tragico avrà il compito di lasciar parlare il materiale letterario greco-antico, senza utilizzarlo o finalizzarlo alla propria tesi, ma invitando il lettore a una ricerca personale; invitandolo, cioè, a una rigorosa operazione di investigazione che “rumini” il testo in maniera meditata e vigile – la cosiddetta ruminatio del monachesimo medievale, per cui i testi sacri venivano letteralmente “masticati” e ripetuti lentamente per comprenderli e renderli generativi, trasformativi e così digeriti e metabolizzati dal pensiero. Predisporsi alla filosofia del tragico significa detronizzare la ragione dal suo primato epistemologico, per accogliere una certa illogicità e irrazionalità delle forme della conoscenza: entrambe appartengono in maniera naturale al pensiero mitologico e tragico e agli argomenti di cui andremo trattando. Ciò nondimeno significa ritrovare una certa capacità di contenimento: una disponibilità all’accettazione lenta e amorevole di quanto analizzeremo e alla meditazione sui limiti di ciascuno di noi e sui limiti del discorso in sé. La filosofia del tragico tenterà di abitare il terreno minato che sta tra genealogia e ricerca di senso: se la prima rimanda abbastanza intuitivamente e inequivocabilmente all’idea di un percorso a ritroso, la seconda fa pensare a un ritorno in sé, a una ricerca su di sé e verso il proprio centro. L’intento è capire se possa effettivamente esserci più di una soffusa permeabilità tra le due, vale a dire, una reciproca necessità, e se questa possa essere compresa in uno specifico campo filosofico-etico che si occupa dell’analisi del sentimento tragico. Prima di entrare nel merito, voglio già avanzare l’ipotesi che genealogia e ricerca di senso condividano un cuore pulsante, un elemento profondo e primordiale che muove entrambe: si tratta di μελέτη (meletē). Questo termine, comunemente tradotto meditazione, rimanda a una certa applicazione – o anche a un certo tentativo di sospensione – del pensiero inteso come vita contemplata e nell’atto di contemplare, ossia come θεωρία (theōrìa), come attività o πρᾶξις (praxis) intellettuale: uno sguardo che, scendendo nelle profondità della corporeità e del divenire, si fa apertura. Il θεωρεῖν (theōrèin) sarebbe dunque qualcosa di inevitabilmente radicato nell’umano, non sganciato dalle operatività, dalle arti e dalle tecniche che a vario titolo gli appartengono e lo connotano.
In altre parole, theo...