Capitolo secondo
Il primo Novecento: la guerra,
la danza, la nazione, il leader
Abbiamo analizzato il ruolo svolto dai viaggiatori stranieri sette-ottocenteschi nella definizione formale del ballo. Si è anche visto che non è mancato chi, dall’interno della Sardegna, cercando di articolare un più generale discorso sulla sua cultura, abbia chiamato in causa anche la pratica del ballo. Resta evidente, tuttavia, la sproporzione di “rappresentazioni” del ballo a cui ci si trova davanti una volta che si arriva al Novecento, soprattutto in ambito letterario: per una serie di fattori la cultura sarda ritrova nella danza un tratto portante della sua identità, non solo rappresentata.
È proprio questa ripetizione – spesso stereotipizzata e un po’ autoindulgente – che da un lato rende evidente la centralità e la pervasività della pratica del ballo sardo nell’immaginario e dall’altro ci spinge a cercare altri terreni, meno ovvi, in cui il confronto fra costruzione (o distruzione) dell’identità e ballo non sia già stretto in una morsa quasi soffocante ma abbia ancora un qualche “spazio di gioco”, vale a dire chieda di essere ulteriormente pensato e offra spunti nuovi al nostro pensiero.
Per questo ci indirizzeremo al discorso politico. E più in particolare ad un discorso politico decisivo; un discorso che nel contesto sardo ha svolto il ruolo di interpretazione chiave di una fondamentale esperienza storica e, per il tramite di questa interpretazione, si è posto come atto di fondazione di una peculiare forma dell’identità sarda.
Come vedremo, all’interno di questo discorso storico-politico, su ballu appare attraverso accenni fugaci ma intensi che si configurano come luoghi aperti sulle potenzialità della storia. La memoria culturale ereditata svolge dunque in questi discorsi un ruolo non decorativo ma assolutamente performativo. In altri termini il richiamo al ballo fatto all’interno del discorso politico sardo proprio nei frangenti in cui questo è chiamato a decidere dell’esistenza della Sardegna in quanto nazione e a decidersi ad esistere in quanto sardo; la convocazione di questo “simbolo” fatta in modo fin troppo banale, circondato da un’aura di ovvietà, all’interno di un racconto di guerra e nel bel mezzo di situazioni imprevedibili, ci porta a pensare che ci sia poco da fidarsi e molto da dire, ma soprattutto da lasciarsi dire, da su ballu e dalla sua “rappresentazione politica”.
In tal senso il lungo excursus che andiamo ad affrontare è anche un esempio paradigmatico del modo in cui le pratiche che fanno parte della così detta cultura popolare vengono utilizzate e rese significative dall’agire sociale, discorsivo, nell’ambito generale della semiosfera.
Emilio Lussu e il momento dell’autocoscienza
La testimonianza che ci consentirà di gettar luce sugli eventi che segnano la prima metà del Novecento sardo è opera di Emilio Lussu, uno dei personaggi più importanti della storia della Sardegna e probabilmente il più importante in questo frangente storico. L’articolo del 1951 che prenderemo come punto di partenza della nostra trattazione appare su di un numero della rivista “Il Ponte” interamente dedicato alla Sardegna e porta il titolo di La Brigata Sassari e il Partito Sardo d’Azione. L’avvenimento di cui Lussu ci parla fa riferimento alla prima guerra mondiale e all’esperienza sul fronte austriaco della Brigata Sassari, quella brigata dell’esercito italiano inventata ad hoc per la prima guerra mondiale e composta quasi esclusivamente da sardi. Si tenga conto che è da questa esperienza che agli inizi degli anni Venti si originerà il così detto sardismo, movimento politico e intellettuale di cui Lussu fu il leader e che segnerà la vicenda storica della Sardegna contemporanea.
Teniamo a mente dunque – e ne vedremo più avanti le implicazioni – che quella offerta da Lussu è sia una rilettura retrospettiva di una determinata esperienza di vita che divenne fondamentale nel percorso esistenziale suo e dei sardi, sia un tentativo di usare questo momento di autocoscienza per giustificare il presente e costruire il futuro della Sardegna. Non a caso sullo stesso numero della rivista “Il Ponte”, che ospitava tutti i maggiori intellettuali e politici sardi dell’epoca e si poneva come sintesi in atto del discorso sull’identità politico-culturale dei sardi, compare anche un altro importante articolo di Lussu che apre la pubblicazione e porta il significativo titolo di L’avvenire della Sardegna. Dovremo farci i conti.
La “danza nazionale”, fra ovvietà e immaginazione
(…) Gli ufficiali non erano tutti sardi, ché non erano in numero sufficiente per sostituire quelli che cadevano. (…) Ma tutti si sardizzavano: l’abito fa il monaco. E ballavano anch’essi la danza nazionale sarda e anch’essi cantavano il duru-duru (Lussu 1951b, p. 1077).
Siamo praticamente all’inizio del racconto e dell’interpretazione dell’esperienza della prima guerra mondiale vissuta da Lussu e dai sardi quando appare, in modo quasi casuale, il riferimento al ballo e più in generale alla cultura popolare sarda a cui il canto del duru-duru si riferisce.
Il modo in cui questo si presenta, nonché il suo subitaneo eclissarsi, rafforzano l’effetto di senso di un richiamo a qualcosa di ovvio, come se ci si riferisse ad un fenomeno in qualche modo oggettivo, ad un dato culturale sedimentato e non discusso, ad una rappresentazione che ha il consenso della comunità a cui si parla.
In realtà, e non solo per motivi contestuali, la definizione del ballo come danza nazionale sarda, che appare qui come scontata, è già stata sottoposta ad una serie di trasformazioni, almeno nel discorso politico lussiano e per certi versi anche in quello sardo più in generale: essa dunque è molto più problematica di quanto non sembri e proprio per ciò la spiegazione del suo significato, che ci impegnerà in un lungo percorso, avrà bisogno di tutta la pazienza possibile da parte del lettore.
Certo è che se ci si lascia giocare dal meccanismo testuale l’accento si sposta dalla danza come fattore di nazionalità alla sua capacità inclusiva: laddove in molti hanno voluto riconoscere nel cerchio il simbolo di un’appartenenza ad una comunità che si chiude in maniera decisa verso l’esterno, appare qui invece quella peculiare inclusività che Anderson ritiene appartenga alla nazione. Essa infatti, pur nel suo considerarsi “limitata e sovrana” (Anderson 1983, p. 25), manterrebbe comunque quella doppia valenza di chiusura/apertura, per cui – principalmente tramite l’acquisizione della lingua – il non-appartenente può essere “invitato” a prendervi parte (ib., p. 149). La sardità consentirebbe dunque l’entrata nel cerchio della danza inteso come simbolo dell’intera comunità: contemporaneamente l’ingresso nel cerchio e nella pratica della danza, nel suo linguaggio, diviene il segno dell’avvenuta sardizzazione.
Tuttavia, ritornando ad Anderson, è lo stesso studioso a notare che il principio fondamentale dell’immaginazione comunitaria non sta nella lingua in sé – la lingua come “emblema” – ma in ciò che essa favorisce, ovvero la sua capacità di “generare comunità immaginate, costruendo, in effetti, rapporti particolari di solidarietà” (ib., p. 137). Vi è qualcosa in questo passo che ricorda il “vincolo sensibile” che la lingua costituisce per il “corpo dei nazionali”, come diceva Madau: l’oggetto culturale che è in gioco riesce a porsi come fattore sensibile che apre all’immaginazione di una comunità molto più ampia di quella in presenza. Detto altrimenti: la concretezza sensibile della lingua, di quel modo di parlare, dovrebbe rendere possibile pensare come presente tutta la comunità nazionale, anche se questa non sarà mai realmente riunibile in un unico luogo tutta in una volta e nessuno potrà mai dire di aver conosciuto tutti gli appartenenti alla propria nazione.
Ora, il meccanismo produttore di comunità immaginate – a dispetto di quanto dice Anderson – ha a che fare non solo con la lingua ma anche con le danze folkloriche: infatti il principio immaginativo della comunità è in azione anche nel rito come forma presente della narrazione di sé. Certo, al nostro senso comune logocentrico il ballo – ancorandosi maggiormente al corpo, essendo percepito come più fisso e meno astratto – risulta più facilmente considerabile come un emblema piuttost...