Capitolo VIII
L’arte
In questo Capitolo intendo riportare alcuni stralci riguardanti la concezione dell’arte nel pensiero di mio padre e in quello di Voghera. Poiché, come sappiamo, molte delle loro lettere riguardano la filosofia di Benedetto Croce, inizierò, per comodità del lettore, con un brevissimo riassunto sulle concezioni estetiche di questo filosofo che sono assai interessanti.
Abbiamo già detto nel Capitolo IV che per Croce vi sono due categorie della Pratica, una particolare (l’Utile) e una universale (la Morale), e due categorie della Teoria, una particolare (l’Arte) e una universale (la Logica). Quindi per lui l’arte è una delle quattro forme fondamentali dello Spirito. Ma che cosa è l’arte? A questa domanda Croce risponde (Croce 1966) che l’arte è visione o intuizione:
L’artista produce una immagine o fantasma; e colui che gusta l’arte volge l’occhio al punto che l’artista gli ha additato, guarda per lo spiraglio che colui gli ha aperto e riproduce in sé quell’immagine.
Il fatto che Croce individui quattro forme fondamentali, di cui una e l’arte, gli permette di dedurre alcune conseguenze su cosa non è l’arte:
1) L’arte non è un atto morale. In quanto atto teoretico, è opposta a qualsiasi pratica. Quindi la dottrina moralistica (l’arte deve indirizzare al bene) non è corretta; “Una immagine artistica ritrarrà un atto moralmente lodevole o riprovevole; ma l’immagine stessa, in quanto immagine, non è né lodevole né riprovevole moralmente”. Questa teoria ha un suo lato vero perché l’artista, in quanto uomo, ha dei doveri a cui non può sottrarsi (Croce 1966, p. 17).
2) L’arte non ha carattere di conoscenza concettuale. Quest’ultima distingue ciò che è reale da ciò che è irreale, mentre l’arte non fa questa distinzione. L’arte è stata paragonata al sogno rispetto al quale la conoscenza concettuale (la filosofia) sarebbe la veglia. Croce rivendica così il carattere alogico dell’arte (l’esprit mathematique e l’esprit scientifique sono i nemici più dichiarati dell’esprit poetique).
3) L’arte non è un atto utilitario, ossia non deve mirare a procurare piacere o dolore. Quindi è erronea la teoria che definisce l’arte come il piacevole (estetica edonistica). Essa è originata dal fatto che l’arte suscita piacere. Ma ciò non basta. Un qualsiasi piacere non è di per sé artistico: non è artistico il piacere di una bevuta d’acqua che ci disseta, non è artistico l’erotismo (naturalmente fine a sé stesso).
4) L’arte non è ritratto o copia o imitazione della natura, perché l’immagine non è la pura percezione.
Croce cerca poi un qualche principio che animi, unifichi le varie immagini, che altrimenti costituirebbero solo una vuota fantasticheria. Egli ritiene di aver trovato tale principio nel sentimento. Esso è ciò che dà coerenza e unità all’intuizione (Croce 1966, p. 33). L’arte è sempre lirica. In definitiva l’arte è sintesi a priori di sentimento e immagine.
Secondo mio padre, le dottrine moralistiche, edonistiche, concettualistiche dell’arte, pur criticabili, accennano a qualcosa di vero. Se si domanda delle varie sintesi, estetica, logica, pratica, ecc., quale è reale, la risposta è: sola reale è la sintesi delle sintesi, lo Spirito che è il vero assoluto, l’actus purus. A causa dell’unità dello Spirito, nell’arte ci sono anche le altre forme, se non altro come presentimenti.
Interessante è anche la teoria di Croce sul linguaggio. Segue dalla definizione dell’arte come intuizione ed espressione, che vi è identità tra linguistica ed estetica. Un libro fondamentale del Croce si intitola Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (Croce 1965). L’uomo parla come il poeta, come il poeta esprime le sue impressioni e i suoi sentimenti. Ciò che essenziale nel linguaggio non è il segno convenzionale delle parole, ma l’espressione, l’immagine prodotta dalla fantasia. Dice il Croce (Croce 1965, p. 165):
I linguisti o glottologhi filosoficamente dotati, che hanno meglio approfondito le questioni sul linguaggio, si trovano [...] nella condizione dei lavoratori di un traforo: a un certo punto debbono sentire le voci dei loro compagni, i filosofi dell’Estetica, che si sono mossi dall’altro lato.
Quindi per Croce la Linguistica deve fondersi con l’Estetica.
E veniamo ora alla concezione estetica di mio padre. Sappiamo già (vedi il Capitolo IV) che per lui l’intuizione è sintesi di due momenti inferiori, la sensazione e la memoria. Pertanto, egli critica il Croce che non aveva dato un ruolo così fondamentale alle sensazioni, così importanti nella nostra vita animale. A questo proposito, egli scrive (Fano, G. 1946, pp. 114-115):
L’intuizione è per Croce il primo gradino dello spirito conoscitivo, e il concetto è il secondo. Anche per Vico la poesia è anteriore alla scienza ed egli si figurò un’età favolosa in cui l’immaginazione predominava sull’intelletto. Ma, per il Vico, quegli uomini primitivi prima di essere barbari furono selvaggi, prima di vivere con l’immaginazione vissero col senso: non si esprimevano con parole e canti, ma tremavano di freddo o si stendevano beati al sole.
Per il Croce la favella dovrebbe essere il primo grado del nostro sviluppo, ma i bambini non parlano appena nati, e tuttavia vivono e hanno una loro coscienza, per cui sentono il tepore delle coltri o il sapore del latte.
L’arte ci dà delle immagini, che noi giudichiamo col criterio del bello e del brutto; ma che cosa sono i sapori, gli odori, le sensazioni di caldo e di freddo? La considerazione estetica ci dirà se una intonazione di colori o di suoni è armonicamente espressiva, cioè se è stata perfettamente contemplata; ma non ha niente a che fare con l’arte lo splendore dei fuochi d’artificio di cui si deliziano i ragazzi. Il piacevole non è il bello, ma che cosa è? Che cosa è quella coscienza sensibile per cui un animale si distingue da un sasso?
Come abbiamo visto nel Capitolo IV, per mio padre la sensazione è una categoria spirituale fondamentale, distinta dall’intuizione. Egli afferma (Fano, G. 1946, p. 127): “[...] altra cosa è l’impressione sgargiante che riceviamo dai vestiti chiassosi di una danzatrice, e altra la contemplazione pittorica di quei colori”.
E Voghera commenta: “Ma quel ‘sgargiante’ non è già un giudizio estetico, sia pure di un’estetica primitiva e rozza?”. Prosegue mio padre:
Le impressioni sensibili, considerate in sé, sono pura intensità senza estensione. Questo che è il loro carattere peculiare è espresso con molta evidenza da Kant quando osserva che le sensazioni non sono grandezze estensive ma puramente intensive, e aggiunge: “l’apprensione sensibile, quando si prescinda dalla successione di molte sensazioni, non occupa che un attimo”.
Infatti, per conoscere un lavoro scientifico o un’opera d’arte, noi impieghiamo un certo tempo, apprendiamo prima un particolare e dopo un altro, e in un certo senso possiamo dire: “quest’opera io non la conosco ancora tutta, ma solo in parte, e mi riservo di darne un giudizio quando la conoscerò meglio”. Ma nessuno direbbe: non so ancora se questo liquore sia dolce o amaro perché non ne ho bevuto che mezza bottiglia.
La sensazione è tutta immediatamente presente, oppure non è. Perciò quello scettico greco disse: quando sento freddo o caldo, io non dubito di sentire quello che sento. Egli non dubitava di ciò che è immediato ma di ciò che è universale; egli non negava la sua animalità, ma non si capacitava di essere anche uomo. Però, ammessa che sia la sensazione, si può e si deve mostrare la impossibilità di fermarsi a quella determinazione e la necessità di risalire ai momenti superiori. Senza le impressioni del senso non v’è conoscenza. La statua di Condillac, privata di ogni sensibilità, non può essere che un sasso. [...] Bisogna domandarsi: che cosa è il sentire? Quella spontaneità spirituale affermata da Kant come condizione di giudizio, è già richiesta dalla sensazione, la quale non è mera ricettività, ma è produttiva né più né meno delle altre “categorie formanti”.
Per Kant le impressioni sensibili sono la materia o il contenuto dei fenomeni, materia che non sarebbe un prodotto della spontaneità spirituale, ma che verrebbe accolta dalla ragione come qualcosa di dato. È questa una delle prime oscurità che colpiscono nella filosofia kantiana, oscurità che è stata causa di equivoci e contradizioni e ha prodotto l’idea della cosa in sé inconoscibile. L’oscurità non si toglie se non riconoscendo nella sensibilità una categoria necessaria come tutte le altre.
Naturalmente in questa delicata e sdrucciolevole materia Voghera non è d’accordo; egli obbietta:
Ma per il filosofo idealista assoluto non è forse ogni cosa frutto della spontaneità spirituale? Che cosa può essere per lui pura ricettività, se nulla esiste all’infuori dello spirito? Donde potrebbe quindi lo spirito “ricevere” alcunché?
[...] E del resto il confronto tra la teoria kantiana e quella di Giorgio mi sembra metta assai bene in luce che il concetto di sensazione è inusabile, se non si distingue fra ciò che è interno e ciò che è esterno alla nostra psiche, distinzione che il filosofo moderno ...