Capitolo 1
Imprecare, provocare, predicare
La cifra principale di Houellebecq sembra essere la rappresentazione di individui da un lato del tutto invischiati – e non certo in posizione di vantaggio – nelle fenomenologie del contemporaneo, dall’altro terribilmente sofferenti per l’incapacità di prenderne le distanze, e impegnati nel tentativo, impossibile ma struggente, di emanciparsene. Questo è forse anche ciò che spiega il suo successo di pubblico e il suo enorme impatto mediatico: molti hanno denunciato i meccanismi alienanti della società dei consumi, ma di solito le denunce arrivano da chi per un verso o per l’altro riesce a tenersene alla larga, e può parlarne da qualche roccaforte alternativa. Nel caso di Houellebecq, invece, la critica arriva da una voce, quella dei narratori, spesso in prima persona, che nella società dei consumi sono immersi fino al collo, ne subiscono tutti i richiami e i ricatti, irridendo chi pretende di criticarla e distinguersene sul piano ideologico o morale. Ma anche se ne sono vittima, non si fanno mai incantare dal mondo che hanno intorno, di cui pure sono clienti seriali, ne soffrono fino alla fine e gli riservano parole di condanna. La critica impietosa che proviene da chi è allo stesso tempo schiavo e fruitore compulsivo del contemporaneo è forse la lezione più potente del nostro autore: nell’adesione c’è la radice della demistificazione più impietosa.
Houellebecq è da più parti considerato uno scrittore dallo stile piatto, dall’inventiva linguistica poco sviluppata, semplicistico dal punto di vista concettuale, troppo incline a schematismi nella rappresentazione della realtà. Il mio obiettivo è mostrare come tutto questo sia vero, ma proprio perché risponde a una precisa strategia: portare agli estremi un certo tipo di discorso, rendendolo polarizzato e irricevibile così com’è; poi accreditare per contraccolpo contenuti inaspettati e sorprendenti, che devono essere estratti dal lettore, desunti sulla base dello scioglimento di alcuni impliciti. I suoi personaggi infatti quasi mai parlano, quasi sempre sproloquiano – tagliando, con le loro argomentazioni improbabili, il ramo su cui sono seduti. I loro discorsi si presentano sempre come una sfida, smisurata e iperbolica, a quella che potremmo definire la doxa democratico-progressista-edonista dominante nella contemporaneità, di cui si denuncia la falsità, l’ormai totale incapacità di rendersi davvero discorso critico sul mondo, il suo rendersi piuttosto funzionale alle dinamiche di perpetuazione della sofferenza e della disuguaglianza tra gli individui. La denuncia non è peraltro portata avanti sulla base di qualche principio filosofico, politico o religioso astratto – com’è invece spesso il caso degli antimoderni otto-novecenteschi – bensì assumendo la posizione di un soggetto solitario, irragionevole, in molti sensi marginale. Il modello è l’uomo del sottosuolo dostoevskiano, che inveisce contro il mondo, i suoi falsi splendori democratico-consumistici e le sue reali miserie economiche e spirituali, mettendoci tutto il risentimento, la parzialità e la disperazione di qualcuno che pure avrebbe voluto partecipare alla festa.
Davanti a tutto questo il lettore implicito, mediamente equilibrato e ragionevole, è chiamato nello stesso tempo a prendere coscienza delle ragioni che muovono la critica iperbolica, ma anche a mantenere le necessarie distanze proprio in quanto – almeno, così com’è – essa risulta sproporzionata e irricevibile. Si tratta di una sfida, che domanda a chi legge di misurarsi e riposizionarsi in continuazione rispetto a quelle che devono essere percepite a tutti gli effetti come provocazioni intellettuali e morali, che non possono essere accolte in toto, né soprattutto in modo diretto – e che tuttavia non possono neanche essere liquidate come semplici boutades di cattivissimo gusto. Se le posizioni dei narratori sono così disperatamente e irritantemente assolute, se sono apodittiche e senza misura, è perché provengono – e questo la strategia testuale ce lo mostra apertamente – da personaggi feriti, delusi e dolenti, già in partenza posizionati dalla parte del torto; soggetti imperfetti che non temono di rivelarsi per quello che sono e che proprio per questo possono, insieme alla necessaria dose di cautela e con tutte le ambivalenze del caso, indurci a esaminare se nel loro discorso non ci sia, ben nascosto da qualche parte, anche un portato di verità.
Dal punto di vista tematico i romanzi di Houellebecq illustrano la traiettoria di un soggetto da un momento saliente della vita fino a una crisi che culmina con la morte, reale o metaforica. Alla vicenda personale si intrecciano digressioni di carattere para-saggistico sui destini generali della società occidentale tardocapitalistica. Com’è noto, le dinamiche del sesso e dell’economia, così come i fenomeni storico-sociali di ampia portata, rivestono un’importanza cruciale nel mondo di questo scrittore: il comportamento del singolo è sempre dato come risultante di forze che trascendono il piano individuale per coinvolgere quello collettivo e antropologico; quelle che crediamo le nostre libere scelte, i nostri desideri più autentici, sarebbero in realtà potentemente condizionati dal contesto sociale e naturale. I protagonisti sono sempre uomini fra i trenta e i cinquant’anni, appartenenti alla media borghesia, in possesso di un buon livello di istruzione e adeguate risorse economiche. Hanno una vita priva di legami stabili, sono in generale single, divorziati o in una coppia infelice, e rendono conto del mondo con una voce che mescola anestesia, disperazione e rabbia. La loro caratterizzazione oscilla tra due poli: da un lato la depressività e l’inazione, dall’altro una sorta di agitazione smaniosa che li porta a peregrinare, agire, muoversi, darsi da fare senza mai davvero poter comprendere qual è lo scopo di tutto questo.
Di questa oscillazione sono esempio i fratellastri Michel e Bruno di Les Particules élémentaires. Il primo, ascetico e introverso, vive tra gli uomini come un estraneo. In lui prevalgono i caratteri del distacco, dell’anestesia, del ritiro dal mondo. L’unica via all’espressione del sé è l’astrazione intellettuale e scientifica che assumerà, nel finale, tratti marcatamente mistici. Il secondo, Bruno, è costruito in modo antitetico: ipercinetico, freneticamente impegnato in una competizione sessuale che lo vede perdente, eccessivo nei modi e nelle opinioni, finirà per impazzire, soccombendo alle pulsioni conflittuali che lo abitano. E già solo questa caratterizzazione polare dei protagonisti ci fa comprendere come Houellebecq prediliga le opposizioni marcate alle sfumature. Le vicende di Bruno e di Michel sono infatti da intendere come paradigmatiche delle traiettorie di vita dei nati in Occidente negli anni ’50 e ’60 del Novecento. In questo, volutamente, entrambi risultano tratteggiati con un notevole grado di stereotipia: sono pensati per essere incarnazioni estreme di due forme di esistenza, e infatti Baroni nota che “scindendosi in due personalità antagoniste, Houellebecq riesce ad articolare un duplice punto di vista sulla storia, che oscilla tra esperienza incarnata, invischiata nell’empiria – che forma la trama principale del racconto –, e uno sguardo più neutro, distanziato, che mira a trarne un valore esemplare” (2017 – online). I personaggi di Houellebecq non vogliono e non chiedono di essere considerati come realistici: sono, programmaticamente, delle funzioni, e come tali devono essere trattati. Il che non significa che siano dei meri portavoce ideologici dell’autore, come spesso è stato affermato, bensì che sono pensati – dal primo protagonista anonimo di Extension fino al Florent-Claude del recentissimo Sérotonine – come prodotti esemplari di un certo tipo di società. Prodotti estremi, poiché terminali e perché certe loro caratteristiche sono portate alle estreme conseguenze.
Siderale distacco e parossismo sono due fondamentali chiavi di lettura per comprendere il soggetto houellebecquiano, e l’oscillazione tra questi poli può riguardare sia il sistema dei personaggi sia il singolo: in Particules Bruno incarna i tratti di iperattivismo e frenesia che fanno da contraltare alla depressività di Michel; il protagonista di Extension du domaine de la lutte li esprime entrambi a turno. Man mano che si manifesta la crisi che lo condurrà alla follia, il suo iniziale distacco dal mondo, venato di disperazione e sarcasmo, si trasforma in uno stato di frenesia che culmina nella follia del finale. Il che ancora una volta non è caratteristica solo sua, ma di tutti coloro con cui entra in contatto, e questo perché – il testo ci suggerisce – davanti alle richieste sempre più contraddittorie della contemporaneità ognuno resta intrappolato tra senso di sconfitta e disperati tentativi di resistenza. Non è dunque solo una questione che riguarda tale o talaltro personaggio: queste istanze attraversano il testo a tutti i livelli e, almeno secondo l’autore, caratterizzano il sistema di vita occidentale nel suo complesso. In questa cornice, la resistenza sarebbe per definizione votata allo scacco, il percorso inesorabilmente in discesa, l’entropia inarrestabile e il disastro definitivo. Se vogliamo, il fatalismo è una delle cifre più evidenti dei nostri romanzi, in cui le vicende e i protagonisti cambiano ma lo schema di fondo resta sempre lo stesso.
Nel caso di La possibilité d’une île il conflitto crescente tra soggetto e mondo è declinato mediante l’immaginario apocalittico di una post-umanità in cui gli eredi degli uomini sopravvivono regrediti allo stato bestiale, mentre una nuova razza di esseri, migliorati geneticamente, sperimenta la cessazione del dolore e non è più in grado di amare o godere. Mentre i bruti vivono in uno stato di natura che è il trionfo della crudeltà e del dolore, i neo-umani – che sulla carta dovrebbero aver raggiunto un livello di esistenza superiore, pacificato e privo dei tormenti del desiderio – si lasciano morire in preda a un’...