ALFABETO GRILLO
Marco Fratoddi
AMBIENTE
Tra decrescita, km 0, slogan e contraddizioni
Le scelte in campo ambientale aiutano come poche altre a comprendere la fisionomia del MoVimento 5 Stelle. Perché l’obiettivo ultimo di questo soggetto – che sarebbe ingeneroso concepire soltanto come una forza politica di nuova generazione, quanto piuttosto come un indicatore sociale di bisogni che tengono insieme le aspirazioni dei singoli, il conflitto territoriale ed un repertorio di valori che guarda all’orizzonte globale – sta innanzitutto nel rivendicare il principio della democrazia diretta. Nonché nel sovvertire l’ordine costituito che deriva, anche a causa di una pessima legge elettorale, dalle dinamiche ingessate della rappresentanza. In qualche modo (qui si riconosce un primo principio d’efficienza) nell’accorciare la filiera del cambiamento irrompendo a suon di curriculum e pseudo-primarie via internet, come di fatto è avvenuto durante le ultime elezioni, nelle aule frequentate troppo a lungo dai politici di carriera. C’è di più, forse. C’è la conferma, per riprendere quanto sostiene al riguardo Carlo Galli, che il “disagio della democrazia” nel nostro paese è profondo, che la malattia aggredisce le relazioni istituzionali e la febbre di M5S ne rappresenta il sintomo più evidente. Al punto da giustificare come terapia estrema (ci riferiamo alle ipotesi circolate all’inizio di questa legislatura) un parlamento senza esecutivo, una governance senza governo.
Ma quando si passa sul piano dei contenuti, quando si scende nel merito della narrazione d’insieme che scaturisce da questo fenomeno a metà strada fra l’attivismo di base e l’organizzazione confessionale, dove si evidenziano nelle performance del suo leader gli stili della predicazione avventista, l’ecologia appare come la metafora più significativa delle ambizioni che animano l’onda gialla. Non sarà un caso che la costellazione di cui si compone il simbolo del partito sia monopolizzata dalle tematiche ambientali (la prima stella, lo ricordiamo, rappresenta l’acqua pubblica, la seconda la mobilità sostenibile, la terza lo sviluppo e le ultime due rispettivamente la connettività e l’ambiente). La conseguenza è in qualche modo già pubblicamente condivisa: nella voce “ambientalismo” della Wikipedia, simulacro del sentire comune, il MoVimento 5 Stelle è presentato come l’erede dei Verdi e il credito fra gli elettori sensibili a questi temi, in mancanza di altri riferimenti, è di fatto assai elevato. Già, ma quale ecologia? E quale ambientalismo?
Qui la parzialità del grillismo, o quantomeno la dimensione evolutiva del patchwork d’istanze che ne compone la linea, emerge in tutta la sua evidenza. La sfera protezionista, tanto per cominciare, sembra collaterale nel background di M5S, come se la biodiversità non costituisca un bene comune al pari degli altri che affiorano a più riprese fra le comunicazioni degli esponenti di primo, secondo e terzo livello (vale a dire Grillo in persona affiancato dal suo altero ego neo-mediale Gianroberto Casaleggio, poi la comunità degli eletti e la base elettorale). Lasciamo da parte il programma con cui il MoVimento si è presentato nella competizione del 2013, fatalmente viziato dal bisogno di sintesi, guardiamo alle manifestazioni generali del “credo” grillino. L’approccio conservazionista, intorno al quale ha messo radici l’associazionismo ambientale in Italia, sulla scorta della cultura risorgimentale e poi della lezione di Wwf e Italia Nostra (su questo concordano Roberto Della Seta e Giovanni Della Valentina), esorbita dalla percezione – e dunque dal lessico – degli ideologi pentastellati. Il valore assoluto della wilderness emerge assai di rado anche su scala locale: le azioni di 5 Stelle in difesa dei Parchi, sopravvissuti all’estinzione degli organi amministrativi d’area vasta dopo l’abolizione delle Comunità montane e delle Province, si contano sulle dita di una mano. Anzi, c’è il rischio che nella visione propugnata a livello nazionale possano finire prima o poi nella lista degli enti inutili, delle strutture “sprecone” e sottoposte (come qualche volta in effetti accade) al giogo dei partiti. Salvo difendere a spada tratta la Legge 394/91 che sul tramonto della Prima Repubblica istituiva le aree protette: guai a toccarla, specialmente se a proporne la riforma sono i due partiti della maggioranza che ha accompagnato il governo Letta con la “complice astensione di Sel”. Verrebbe meno la tutela delle specie – è la tesi del gruppo parlamentare – e soprattutto, con la scusa di controllare la fauna selvatica, si aprirebbero i confini dei ...