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Indicatori globali e politiche di valutazione dello Stato neoliberale

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Indicatori globali e politiche di valutazione dello Stato neoliberale

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Nel corso degli ultimi decenni, lo Stato vede profondamente mutate le proprie funzioni, i propri obiettivi, il proprio ambito di azione. Si vota all'efficienza, utilizza l'innovazione come leva del cambiamento, enfatizza la logica della competizione per giustificare scelte politiche ed economiche che ridefiniscono le coordinate della cittadinanza sociale, si fa promotore di un'idea di libertà saldamente ancorata alla dimensione economica. In breve, in un processo che lo vede al tempo stesso veicolo e oggetto della sua trasformazione, lo Stato si neoliberalizza. Enfatizzando il ruolo svolto dalla valutazione delle performance statali in questo processo, il volume analizza come gli indicatori globali, sfruttando un'apparente neutralità tecnica, contribuiscano a ridefi nire politicamente lo spazio entro cui gli Stati si trovano a operare. Per essere in perfetto stato, occorre che essi adeguino politiche e programmi a quelli del perfetto Stato, costruito, legittimato e diffuso dagli indicatori: lo Stato neoliberale.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788857563220
Categoria
Sociology

1
Lo Stato neoliberale

“Any critical analysis of neoliberalism
as a historical period, composed of
specific political and economic institutions,
must also draw on an interpretation
and genealogy of neoliberal ways of
thinking, measuring, evaluating,
criticizing, judging and knowing”

(Will Davies, 2014)

1.1. Il liberalismo e il problema del governo
Di quanto governo ha bisogno la società? E l’economia? Come si definisce il rapporto tra pubblico e privato? E quello tra individuo e società? Questi interrogativi, oltre che essere alla base della nascita dello Stato moderno in Europa, costituiscono anche il filo conduttore per inquadrare gli sviluppi novecenteschi della forma statale, sia nei suoi aspetti teorici che nelle sue concrete manifestazioni storiche. Sul piano teorico, già a partire dall’Ottocento gli intellettuali liberali hanno provato a fornire una risposta a tutte queste domande. L’obiettivo era individuare la giusta dose di governo, e la corrispettiva forma di Stato, in grado di garantire un più o meno duraturo equilibrio tra istanze contrapposte. Le istanze della classe operaia, ad esempio, portatrice di interessi politici e economici contrapposti a quelli della borghesia industriale; o le istanze dell’individuo che, nel desiderio di affrancarsi dal potere del sovrano e di vedersi riconosciute una serie di libertà individuali, si vedeva contrapposto allo stesso Stato, il quale, nella sua veste di detentore della sovranità, doveva farsi garante anche dell’interesse generale, dell’ordine e della sicurezza; o, ancora, le istanze contrapposte dei vari Stati nello scenario internazionale.
Ma è nel corso del Novecento che il liberalismo, nelle sue diverse correnti teoriche e politiche, ha avanzato i tre tentativi di risposta più importanti a tali interrogativi, sviluppando in fasi successive tre diverse configurazioni idealtipiche dello Stato, che hanno trovato anche un loro specifico sviluppo storico: lo Stato liberale, collocabile approssimativamente tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento; lo Stato welfarista, che ha avuto nel trentennio 1945-73 la sua “età dell’oro” e lo Stato neoliberale, che rappresenta la configurazione dominante dagli anni Settanta ad oggi e che è forse anche quella più soggetta a equivoci o interpretazioni fuorvianti.
Proprio con l’intento di definire in maniera più chiara cosa rappresenta sul piano teorico lo Stato neoliberale, questo capitolo ricostruisce innanzitutto le diverse possibili interpretazioni del neoliberalismo (par. 1.2), soffermandosi in particolare su quella neo-marxista e quella post-strutturalista. Enfatizzandone punti di convergenza e di rottura, si sosterrà la necessità e l’utilità di adottare un approccio analitico che sia capace di integrare le diverse visioni. Quindi, nel paragrafo 1.3, verranno presentate le principali politiche neoliberali e tracciato un quadro riassuntivo delle differenze tra queste e le politiche welfariste-keynesiane. Infine, l’ultimo paragrafo affronterà, sempre sul piano teorico, la questione dello Stato neoliberale, mettendo in evidenza le specificità di questa configurazione statale rispetto ai suoi antecedenti storici (Stato liberale e Stato welfarista) e, soprattutto, rimarcando come la forma di Stato neoliberale si caratterizzi non per il mancato intervento in economia, come una certa vulgata continua ancora a sostenere, ma per la qualità di questo intervento, in termini di obiettivi e di politiche da attuare. Naturalmente, il discorso teorico sullo Stato neoliberale, per essere correttamente inteso, va inserito nel dibattito interno al liberalismo novecentesco e ai concreti sviluppi storico-istituzionali da esso derivati. Ripartendo, quindi, dalla tripartizione poc’anzi avanzata, bisogna ricordare che la configurazione dello Stato liberale, che ha visto la sua massima espressione nel primo ventennio del Novecento, ha manifestato, sin dalla fine del Primo Conflitto Mondiale, una serie di fragilità strutturali, culminate nella Grande Depressione del 1929 e nell’ascesa di regimi dittatoriali e totalitari. Sul piano teorico lo Stato liberale, esito di un fragile compromesso tra le ragioni del liberalismo e quelle della democrazia, fonda la sua esistenza sulla garanzia di alcuni diritti fondamentali (prevalentemente quelli civili, relativi al rispetto dello Stato di diritto e alla garanzia di alcune libertà individuali) e sulla progressiva estensione del suffragio a fasce della popolazione sempre più ampie. La regola generale che ne indirizza l’azione con riferimento all’economia e alla società è ben racchiusa nel duplice invito di Bentham (1843) a “stare tranquillo” (be quiet) e a “non fare ombra” (stand out of my sunshine), lasciando libero gioco agli individui nella loro veste di attori economici e sociali. Dunque uno Stato cui è attribuita, secondo i teorici della Scuola di Manchester, la funzione minima di “guardiano notturno”, e i cui compiti riguardano il mantenimento dell’ordine, l’applicazione dei contratti, l’eliminazione della violenza, la protezione della proprietà privata e delle persone e la difesa del territorio da attacchi esterni. Sulla base di una concezione individualistica della vita sociale ed economica, il governo liberale vincola la sua capacità di intervenire entro i meccanismi di mercato al rispetto del principio sacro del liberismo classico: il laissez-faire. Il quale significa “rispetto assoluto del diritto naturale e, in primissimo luogo, rispetto assoluto del diritto di proprietà e di libertà di commercio” (Dardot e Laval, 2013, 52). Lo Stato liberale non deve nuocere, deve essere cauto, non deve intervenire nel “corso delle cose”1: più che fare le leggi, suo compito è riconoscerle come conformi alla razionalità della natura e esprimerle in un codice positivo, facendole applicare.
La crisi del liberalismo classico, intesa come crisi della dottrina, della forma di Stato e del modello di democrazia liberale, è naturalmente legata a molteplici fattori, sia interni che esterni. Di fondo, vi è una incapacità dell’arte di governo liberale di fronteggiare gli sviluppi del capitalismo legati all’industrializzazione e all’urbanizzazione, con la nascita del movimento operaio e dei sindacati e con le conseguenti spinte verso una maggiore democratizzazione della società. Si tratta, secondo Polanyi (1944), di una debolezza intrinseca alla stessa teoria del laissez-faire, che ipotizzava che i mercati, lasciati liberi da interferenze esterne, avrebbero consentito di raggiungere i massimi livelli di efficienza nella allocazione delle risorse. Invece, argomentava lo studioso ungherese, i mercati deregolamentati si sarebbero rivelati distruttivi per la società in generale, producendo una serie di squilibri sistemici che avrebbero trovato, come effettivamente accadde in molti Paesi europei a partire dagli anni Venti, uno sbocco reazionario o autoritario.
Per dirla con Foucault (2005), quella del liberalismo è una crisi di governamentalità che riguarda essenzialmente il problema pratico dell’intervento politico nella vita sociale ed economica e la sua giustificazione teorica. Come scrivono Dardot e Laval (2013, 132-3), “a mettere in crisi il liberalismo dogmatico è […] la necessità pratica dell’intervento governativo per far fronte alle mutazioni dell’organizzazione del capitalismo, ai conflitti di classe che minacciano la ‘proprietà privata’, ai nuovi rapporti di forza internazionali”. La fine della “pace sociale”, quale esito del Primo Conflitto Mondiale, la presenza di un modello politico ed economico, quello sovietico, alternativo al connubio “democrazia liberale – economia di mercato”, la crisi economica del 1929 e l’avvento, in rapida sequenza, di regimi autoritari, dittature militari e totalitarismi (tra gli altri: Italia, 1922; Spagna, 1923; Portogallo, 1926; Austria, 1932; Germania, 1933) sono al contempo causa ed espressione della crisi dello Stato liberale.
In che modo lo Stato deve ricostruirsi un proprio ruolo, come e se deve intervenire nella vita economica e sociale, in che modo si possono garantire fondamenta più solide alla democrazia liberale, sgretolata dall’avanzata di regimi dittatoriali e totalitari e minacciata esternamente dalla presenza di sistemi politici ed economici alternativi: sono alcune delle questioni decisive attorno a cui i liberali di diverse correnti si confrontarono nel corso degli anni Trenta del Novecento. Il “nuovo liberalismo”, che ebbe in John Maynard Keynes la sua massima espressione, e il “neo-liberalismo”, legato soprattutto alla figura di Friedrich Von Hayek, pur divergendo in maniera profonda rispetto alle soluzioni prospettate per uscire dalla crisi, condividevano la stessa preoccupazione circa il destino del capitalismo, che bisognava salvare dalla crisi del liberalismo, dall’avvento del totalitarismo e, soprattutto, dai fallimenti del laissez-faire. Allo Stato, secondo l’impostazione keynesiana, sarebbe dovuto spettare un ruolo di regolazione del mercato e di redistribuzione delle ricchezze da esso prodotte: due compiti che richiedevano l’intervento pubblico in economia. Quel che emergeva con forza dalle posizioni del “nuovo liberalismo” (cui facevano capo, oltre a Keynes, anche intellettuali e politici come John A. Hobson e Leonard Hobhouse) era una nuova concezione della libertà, non più semplicemente ancorata alle garanzie formali stabilite dalle costituzioni liberali, ma una “forma reale di libertà”, una “libertà sociale” che consentisse anche ai più deboli la partecipazione alla realizzazione delle regole che sanciscono la libertà effettiva per tutti. “Il vero consenso – scriveva Hobhouse – è libero, e la piena libertà del consenso implica un’uguaglianza delle due parti impegnate nella transazione” (1994, 43). Il tema nuovo era quello delle diseguaglianze sostanziali, di ordine economico e sociale, e di quanto esse avessero messo in pericolo, fino a farla precipitare, la democrazia liberale. Per fronteggiarle era necessario ampliare lo spazio semantico e politico della parola “libertà”, che andava declinata al plurale, non solo, come nella formulazione classica, come libertà di “espressione” e di “religione”, ma includendo anche la libertà dal “bisogno” e la libertà dalla “paura”. Sono queste la basi su cui il Presidente degli Stati Uniti, F.D. Roosevelt, il 6 gennaio 1941 pronunciò il “Four Freedoms Address”, il discorso allo Stato dell’Unione che ridefinì i pilastri su cui la società mondiale avrebbe dovuto rifondarsi alla fine del Secondo Conflitto Mondiale. Queste nuove libertà imponevano un’azione positiva da parte dello Stato, il quale, in una accezione più inclusiva della cittadinanza e della democrazia, doveva farsi carico di fronteggiare quelli che, nel 1942, William Beveridge definì come i “cinque giganti da abbattere”: l’Ignoranza, la Malattia, la Miseria, il Degrado e l’Inattività. Nel suo “Rapporto”, pubblicato nel dicembre del 1942, lo studioso britannico si proponeva l’intento di riformare il sistema delle assicurazioni sociali del Regno Unito attraverso una politica della piena occupazione (esplicitata in un volume del 1944 dal significativo titolo Full Employment in a Free Society) e una concezione più inclusiva della cittadinanza, che aveva il suo perno nel concetto di sicurezza sociale, obiettivo ben più impegnativo per la funzione pubblica del suo antecedente storico, l’assistenza sociale. Gli Stati democratici nati con le costituzioni del dopoguerra avrebbero istituzionalizzato e costituzionalizzato questi principi attraverso la nascita del Welfare State, una forma di Stato che, attraverso il riconoscimento dei diritti sociali (primi tra tutti l’istruzione e la salute) come diritti democratici fondamentali e l’implementazione di specifiche politiche pubbliche, avrebbe avuto come sua missione di promuovere e proteggere il benessere della sua popolazione “dalla culla alla tomba”. Per salvare il liberalismo, questa in sintesi la proposta del “nuovo liberalismo”, era necessario “utilizzare dei mezzi apparentemente estranei o perfino opposti ai principi liberali stessi […]: leggi di protezione del lavoro, imposta progressiva sugli stipendi, assicurazioni sociali obbligatorie, attivazione della spesa pubblica, nazionalizzazione” (Dardot e Laval, 2013, 163).
Lo Stato del welfare, frutto del compromesso socialdemocratico emerso alla fine della Seconda Guerra Mondiale, rappresenta dunque la seconda configurazione progettata dal pensiero liberale per rispondere al dilemma della giusta dose di governo necessaria alla società. Benché caratterizzato anch’esso da specifiche varianti nazionali, le caratteristiche idealtipiche della forma statale welfarista sono sintetizzabili nella formulazione proposta da Jessop (2002) dello “Stato nazionale welfarista keynesiano”, ciascun termine della quale enfatizza gli elementi fondamentali del modello. Innanzitutto un insieme di politiche economiche basate sul pieno impiego, la gestione della domanda aggregata e la realizzazione di infrastrutture a supporto della produzione e del consumo di massa (l’elemento keynesiano). Quindi, un insieme di politiche sociali basate sulla contrattazione collettiva e l’espansione dei diritti sociali (l’elemento welfarista). Infine, una relativa primazia della scala nazionale rispetto a quella internazionale quanto all’efficacia delle decisioni in materia di politiche economiche e sociali prese dallo Stato sovrano (l’elemento nazionale). Questa primazia coincideva anche con “il primato della politica”, vale a dire con la convinzione che dovessero essere le forze politiche, piuttosto che quelle economiche, le forze guida della storia (Berman, 2006). Sul piano socio-economico, gli elementi del compromesso socialdemocratico possono essere così sintetizzati: 1) piena occupazione garantita dalla politica, 2) contrattazione salariale a tutto campo tramite i sindacati, 3) controllo statale sulle industrie di rilevanza strategica, 4) cooperazione dei lavoratori sul luogo di lavoro, 5) diritti sociali universali salvaguardati dalla competizione e 6) di...

Indice dei contenuti

  1. MIMESIS / CARTOGRAFIE SOCIALI
  2. Introduzione
  3. 1 Lo Stato neoliberale
  4. 2 La governance neoliberale
  5. 3 La valutazione neoliberale
  6. 4 Tra competitività e innovazione: costruire lo Stato della competizione
  7. 5 Tra mercato ed efficienza: costruire lo Stato della libertà
  8. Conclusioni
  9. Bibliografia
  10. CARTOGRAFIE SOCIALI