Logica
Forma logica del dilemma
Il dilemma è una forma di argomento il cui uso si perde nella notte dei tempi. L’uomo da sempre si trova in situazioni in cui deve decidere se agire o non agire in un certo modo, valutando le conseguenze prevedibili di ciascuna delle due (o più) opzioni che intravede. L’incontro inatteso con un animale feroce impone l’ardua decisione di scegliere tra la fuga (con il rischio di essere inseguiti o uccisi) e il tentativo di difendersi con l’arma che si ha a portata di mano (con elevata probabilità di essere sopraffatti). Esiste una terza via: cadere a terra e fingersi morti, soluzione che ha maggiori probabilità di successo, sebbene sia forse la più difficile da adottare concretamente. Il dilemma è tanto più stringente quanto minore è il tempo a disposizione per decidere. Il poco tempo a disposizione in una situazione d’emergenza rende drammatica l’assenza di via d’uscita. Il dilemma in cui l’uomo si trova a dover decidere, spesso con pochissimo tempo a disposizione per riflettere, non riguarda solo situazioni drammatiche d’emergenza. Chi non sa se cedere al desiderio di investire, nel gioco, una certa cifra, può tradurre in un dilemma tale incertezza: se gioco, ho qualche probabilità di vincere una somma importante; se non gioco, ho la certezza di aver già vinto la somma modesta che avrei speso se avessi giocato. La scelta di giocare o non giocare dipende dal temperamento del soggetto e dal grado di dipendenza dal gioco o di vera e propria ludopatia. Ma in entrambi i casi il tempo a disposizione per l’opzione è virtualmente illimitato. Le decisioni cruciali della vita presuppongono la valutazione attenta delle conseguenze caso per caso. Un figlio che vive ancora con i genitori, ma con un lavoro regolare e senza impegni sentimentali, può trovarsi in difficoltà nel decidere se andare a vivere per conto suo oppure continuare a godere dei benefici derivanti dalla permanenza nella casa dove può godere delle comodità messe a sua disposizione da mamma e papà. Nella stessa condizione interlocutoria può trovarsi un uomo che, raggiunta l’età in cui ogni scelta è ponderata meticolosamente, debba decidere se sposarsi o non sposarsi, prendendo in considerazione i pro e i contra di ciascuna alternativa. Può prendersi tutto il tempo che vuole, non deve affrontare alcuna emergenza e può continuare indefinitamente ad aggiungere le annotazioni su benefici e inconvenienti per il resto della sua vita senza mai giungere a una conclusione definitiva.
L’ambizione del dilemma vero e proprio è di persuadere l’avversario che le due opzioni sono le uniche possibili e che entrambe danno luogo alla stessa conclusione, sia essa positiva o negativa. Di qui il maggiore spazio dedicato al dilemma dai manuali di retorica, che lo affrontano come tecnica fondamentale di controargomentazione e confutazione. Elke Brendel porta come esempio di dilemma classico o semplice la situazione di crisi matrimoniale in cui uno dei due partner (o entrambi) si rende conto che sia la separazione, sia la non separazione darà luogo all’infelicità. Nec tecum nec sine te. Brendel illustra lo schema formale del dilemma lasciando implicita la premessa maggiore (A aut non A). Come esempio di dilemma composto riporta il caso dell’incendio di un palazzo, in cui un soccorritore sa che dovrebbe salvare due bambini piccoli, uno nell’ala est e l’altro nell’ala ovest, ma è anche consapevole che potrà salvarne solo uno. Come si vede dagli esempi riportati, occuparsi della forma del dilemma obbliga a farsi carico anche della sostanza tragica che ne rappresenta il fondamento e la ragion d’essere.
La riflessione sul dilemma riguarda invece la storia della logica e della retorica. Non è dimostrato che il termine διλήμματον sia stato usato nell’accezione moderna di “dilemma” prima del II secolo d.C. Cicerone, che ha per primo stabilito l’equivalente latino dei termini tecnici dei greci, usa complexio sia nel significato di “conclusione”, sia in quello di “dilemma”. In un passo del De inventione citato dai coniugi Kneale, Cicerone ricorre a un ragionamento dilemmatico tipico dell’ambiente forense, indicandolo come complexio: “Complexio est in qua, utrum concesseris, reprehenditur ad hunc modum: Si improbus est, cur uteris? Si probus, cur accusas?”. A Crisippo si deve la costruzione di un sistema di schemi di inferenza basato sui cinque anapodittici, o indimostrabili, schemi basilari e irriducibili, con i quali è possibile dimostrare una serie di teoremi: 1. Se il primo, allora il secondo; ma il primo; dunque, il secondo. 2. Se il primo, allora il secondo; ma non il secondo; dunque, non il primo. 3. Non: e il primo, e il secondo; ma il primo; dunque, non il secondo. 4. O il primo, o il secondo; ma il primo; dunque, non il secondo. 5. O il primo, o il secondo; ma non il secondo; dunque, il primo. La fonte degli anapodittici è principalmente l’opera di Sesto Empirico (Schizzi pirroniani e Contro i matematici). I retori latini studiarono e utilizzarono i ragionamenti condizionali e disgiuntivi affrontati da Crisippo e dai logici stoici posteriori. Tutti i ragionamenti secondo Crisippo sono riconducibili a dilemmi, nel senso di ragionamenti con due premesse. Un caso speciale del tipo di ragionamento esemplificato dal passo di Cicerone è il teorema con due premesse complesse: “Se il primo, allora il terzo; se il secondo, allora il terzo; ma o il primo, o il secondo; dunque, in ogni caso il terzo”, che i logici posteriori chiamano dilemma costruttivo semplice.
A differenza di Aristotele, il quale sostiene che un enunciato debba essere vero o falso – a eccezione degli enunciati che riguardano eventi futuri contingenti, perciò dipendenti dal libero arbitrio, i quali non possono essere né veri né falsi perché se fossero veri implicherebbero la necessità del verificarsi degli eventi enunciati, mentre se fossero falsi implicherebbero la loro impossibilità – gli stoici sostengono che il principio tertium non datur vale anche per gli enunciati che riguardano eventi futuri, i quali anch’essi devono essere veri o falsi, in linea con la difesa stoica del determinismo ontologico, in polemica con la metafisica aristotelica della libertà. Il dilemma è un enunciato che rappresenta parzialmente e in modo strumentale la realtà, pur assumendo una forma logica stringente. Il fatto che il dilemma sia confutabile sul piano sia teorico che pragmatico impedisce di attribuire un determinato valore di verità sia a ciascuno dei due asserti disgiunti, sia alla loro composizione. L’enunciazione del dilemma, cogente e incalzante, presuppone di ottenere la sua accettazione e la resa dell’interlocutore, come se ci fosse una perfetta coincidenza tra gli enunciati e lo stato di cose. Ma il destinatario del dilemma potrà sfuggire all’abbraccio mortale della necessità logica sia mediante controdeduzioni e contestazioni logiche, sia sperimentando praticamente la possibilità di rompere le maglie in cui rischia di rimanere prigioniero di una situazione a prima vista senza via d’uscita. Il dilemma pretende di imporre l’abito della necessità anche agli eventi futuri, che Aristotele vuole indeterminati, né veri né falsi. Ma si tratta di una pretesa per lo più facile da smontare. Infatti le opzioni concrete sono molto più numerose di quelle prospettate dalla semplificazione dilemmatica.
Il rapporto tra l’oscuro e misterioso stato di cose del mondo esterno e la ragnatela linguistica con cui vi facciamo riferimento per descrivere oggetti ed eventi del mondo si può intendere con Gregory Bateson come l’assegnazione delle cose a determinate classi. Dare un nome, classificare, tracciare una mappa sarebbero così essenzialmente dei sinonimi. La conoscenza che abbiamo del mondo non è diretta, ma dipende dalle nostre percezioni (che rinviano alla struttura nervosa) e dal linguaggio, secondo l’insegnamento dell’ingegnere e filosofo Alfred Korzybski, del quale Bateson riporta l’enunciato sintetico della sua gnoseologia: La mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata. Bateson ipotizza che la distinzione tra il nome e la cosa designata o tra la mappa e il territorio, sia fatta dall’emisfero dominante del cervello, il sinistro, mentre l’emisfero destro simbolico o affettivo potrebbe essere incapace di distinguere il nome dalla cosa designata, sarebbe perciò incapace di astrarre. A tale incapacità dell’emisfero destro potrebbero essere addebitati i ...