Capitolo 1
Giustizia ed espropriazione oggi
1.1 La dominazione: una nozione liquida
La teoria critica, classica e contemporanea, ha contribuito all’individuazione e alla descrizione di diverse relazioni di potere e di dipendenza (Emerson 1962): dallo sfruttamento alla violenza – fisica, simbolica, psicologica o morale –, dall’alienazione alla manipolazione, dalla discriminazione al non rispetto, dal paternalismo alla pauperizzazione. Le vittime di queste oppressioni possono oggi riconoscere e dare un nome a quelle che altrimenti rimarrebbero sofferenze private.
Negli ultimi decenni, però, la critica sembra aver perso la propria forza argomentativa, come sostengono alcuni tra i suoi più noti esponenti. Rispetto ad un recente passato, le forme di oppressione denunciate nei paesi occidentali si sono oggi moltiplicate e riguardano sfere della vita ulteriori rispetto alla produzione e al consumo. Se seguiamo la recentissima analisi dello stato dell’arte offerta da Corcuff, Boltanski e Fraser (2014), il rilancio della teoria critica contemporanea dipende dal superamento di tre problemi maggiori.
Il primo è che la teoria critica manca di un concetto unificante per le diverse forme di oppressione contemporanee. Ad esse ci si riferisce più spesso come a forme di dominazione, o relazioni di dominazione, un’espressione già denunciata come vaga (Boltanski 2009), insufficiente a fare da trait d’union tra le molteplici forme di oppressione e ad articolarne le differenze interne.
La seconda impasse che ostacola il rilancio della critica è legata alla liquidità della nozione di dominazione che presta il fianco ad una sua totalizzazione e, per questa via, alle accuse di ideologia (Ibidem). L’idea veicolata da tanta parte della sociologia critica attuale che si richiama alla prospettiva foucaultiana è che ogni relazione sociale ineguale sotto qualche aspetto sia uno scontro di forze, il luogo della negazione dell’identità e della libertà dell’altro. La teoria critica, in questa prospettiva, si legittimerebbe grazie allo svelamento dell’oppressione che si può riconoscere in qualsiasi relazione sociale.
In tale concezione agonistica della vita sociale come campo di lotta senza quartiere, la critica tradizionalmente considerata di sinistra converge con il liberalismo, che dell’autorità marca l’aspetto di coercizione alla libertà personale. La moderna ermeneutica negativa dell’autorità (Bazious 2005) assolutizza la dominazione come unica possibilità nei casi di asimmetria di risorse e si basa sulla lotta tra un dominato e un dominante che intende preservare o accrescere il proprio potere, di qualsiasi natura esso sia (Arendt 1954-58; Pennock-Chapman 1987; Moreau de Bellaing 1990).
Tale ermeneutica prevede due sole possibilità per chi è in posizione di forza in una relazione: dominare l’altro, se gli è concesso, o aderire alla giustizia, se costretto dalle leggi o dalla morale. L’antropologia su cui essa si fonda, che si impone oggi con la forza di un’evidenza – tale per cui pare dimenticata la sua natura di ipotesi formulata nella storia del pensiero occidentale (Sahlins 2014 [2013]) –, disconosce il desiderio di contribuzione.
Da qui, il terzo scoglio che oggi la teoria critica si trova ad affrontare: individuare un polo opposto, positivo, rispetto alla dominazione. Alcuni propongono la nozione di auto-emancipazione dei dominati, che però si fatica ugualmente a definire in modo più preciso che come possibilità di superare la dominazione per i dominati (Corcuff, Boltanski, Fraser 2014). La nozione di emancipazione presenta l’ulteriore problema di spostare il focus dell’azione e dell’analisi dai dominanti ai dominati.
L’impossibilità di pensare che chi è in posizione di forza possa contribuire alle condizioni per un’auto-emancipazione dei dominati ha radici profonde nel pensiero occidentale – la lotta servo-padrone di Hegel (1807) ne è un emblema. Essa impedisce, dunque, la definizione di un polo opposto positivo alle azioni che violano la giustizia per difetto, il polo costituto dalle azioni che eccedono la giustizia. Eppure queste azioni sono diffuse, sia nella letteratura che nella vita quotidiana: ci occuperemo di modellizzarne alcune, a partire dal capitolo seguente, per articolare il polo che chiamiamo registro di dotazione.
Nel presente capitolo introduciamo la categoria dell’espropriazione e mostriamo come essa, offrendo alla critica un duplice ancoraggio – sia all’azione che a un riferimento alla giustizia – ne permetta un rilancio. Le azioni di espropriazione violano nel proprio corso uno o più principi di giustizia che costituiscono il minimo comune denominatore di alcune tra le più note teorie contemporanee della giustizia – Nozik (1987 [1981]); Rawls 2017 [1971] e 2011 [2001]; Dworkin 2010 [1977]); Sen e Nussbaum 1993 e Nussbaum 2007 [2006]). I principi – comune umanità, comune dignità delle persone, autonomia della persona, persona come fine in sé, unicità della persona – possono costituire un riferimento comune a patto di mantenerne il pluralismo interpretativo.
Rileggeremo le forme di dominazione individuate e modellizzate dalle teorie critiche come azioni di espropriazione, in cui A sottrae a B una capacità materiale o simbolico-identitaria, la sua acquisizione e/o il suo riconoscimento, violando uno o più principi di giustizia (paragrafo 1.3) secondo una certa interpretazione dello stesso o degli stessi.
Si tratta di principi di giustizia storicamente emersi, interpretati e articolati tra loro in modo diverso nelle diverse teorie in esame, formatesi negli ultimi decenni in un circolo di influenza reciproca tra filosofia del diritto, diritto stesso, teorie della giustizia, critiche di oppressione mosse dalle persone e pratiche sociali.
Oppressione e giustizia, lo vedremo, si co-definiscono; per questo arriveremo a definire l’espropriazione solo dopo aver rilegato la critica attuale alla filosofia del diritto e, più in generale, alle teorie della giustizia sociale contemporanee, con cui sta in un rapporto storico di reciproca influenza, spesso non tematizzato. Le diverse denunce di forme di oppressione fanno leva sulla violazione in azione di uno o più di questi principi di giustizia.
1.2 Quale giustizia?
L’individuazione e la descrizione delle forme di oppressione fornite dalla critica contemporanea emergono storicamente nel processo di influenza reciproca tra diversi fattori culturali, sullo sfondo dei cambiamenti avvenuti sul piano delle pratiche.
Tra questi fattori, menzioniamo le evoluzioni del diritto e della filosofia del diritto, le teorizzazioni riguardo la giustizia e l’oppressione, le denunce delle sofferenze sociali da parte delle persone comuni. Uno studio approfondito di tale influenza reciproca, su ogni punto, meriterebbe un libro a parte. Per i nostri obiettivi, segnaliamo i collegamenti più evidenti tra forme di oppressione e violazione di uno o più principi di giustizia che abbiamo detto costituire il minimo comune denominatore delle più note teorie contemporanee della giustizia. Su tali principi, nelle loro diverse interpretazioni, poggiano le denunce della teoria critica riguardo le forme di oppressione, vecchie e nuove, che descrive.
Denunciare una dominazione significa, infatti, in seno alla teoria critica, denunciare una violazione della giustizia. Ma di quale giustizia si tratta?
In mancanza di un riferimento esplicito e comune alla giustizia, la denuncia delle diverse forme di oppressione può essere tacciata di ideologia. Abbiamo detto che le teorie contemporanee della giustizia menzionate si differenziano per come articolano tra loro cinque principi – comune umanità, dignità delle persone, autonomia della persona, persona come fine in sé e unicità della persona – e per l’interpretazione che offrono di ognuno di essi.
Tale interpretazione può essere, innanzitutto, più o meno ampia, più o meno bilanciabile. Un esempio è l’arbitraggio tra dignità della persona e autonomia della persona riguardo questioni attualissime come la bioetica. I dilemmi che emergono sono gli stessi, per quanto declinati in termini diversi, nel dibattito politico e sociale e nella filosofia del diritto e, per rimanere all’esempio, si centrano su domande quali: la dignità umana è norma suprema dal contenuto massimo o minimo? O è norma bilanciabile? (eg. Azzoni 2012, Malvestiti 2013). E l’autonomia?
L’applicazione del diritto si divide essa stessa sulla risposta a questioni di questo tipo, che non sono chiuse dalle sentenze perché esse applicano i principi seguendo interpretazioni degli stessi che possono essere discordanti. Il dibattito su dignità umana e autonomia, ad esempio nell’alveo della teoria femminista, vede contrapporsi coloro che, riguardo le pratiche sessuali di oggettualizzazione consensuale della donna, come il sadomasochismo, sostengono che ci siano limiti all’autonoma disposizione del proprio corpo dati dalla dignità della persona e coloro che sostengono invece che l’autonomia sia suprema. L’autonomia che si esprima come libertà di consenso tra adulti in situazione, se considerata un principio non bilanciabile, legittima l’oggettualizzazione volontaria, fino a casi estremi come quello del cannibalismo consensuale (Sandel 2007).
Se, invece, si ritiene che le limitazioni all’autonomia siano giustificate dal principio di dignità, le diverse forme di oggettualizzazione consensuale sono c...