Capitolo 1
Essere indulgenti con Lombroso o della ragionevolezza dell’irrazionalità
Ogni tipo di indulgenza nell’esercizio del pensiero critico manifesta un vizio di metodo presente in chi la pratica. Quando non si tratti di un’espressione di paternalismo, essa denota senz’altro pigrizia o limitatezza dello sguardo riflessivo rispetto ai propri presupposti e convinzioni. Si indulge da parte di molti nei confronti di ciò che dovrebbe essere oggetto di più severa attenzione: ciò avviene o per quieto vivere, o per noia, o per la mancanza di un autentico interesse o, infine, per la propria utilità, in quanto non è da tutti porre seriamente in discussione ciò che può coincidere con le fonti sotterranee delle proprie forme argomentative, soprattutto quando queste ultime sono diventate forze cognitive produttive di valore economico e fanno parte dei sostegni di una vita ordinata e serena. È preferibile (e più sicuro) fare le glosse a un’opera, ricercare in essa i punti fermi di più semplice comprensione e comunicazione presso un pubblico che vorrà condividere con lo studioso il medesimo atteggiamento indulgente, la stessa complicità semplificatrice. Quel che conta non è tanto capire, quanto giustificare, tollerare, salvare, sia pure nella forma di una riflessione condotta in “modo scientifico”, ciò che invece, se adeguatamente indagato, consentirebbe di porre domande diverse, forse eccessivamente radicali e rischiose per le certezze dello studioso e soprattutto per le “scienze” cui egli si richiama e che alimenta con un lavoro di autorevole commentatore.
Tuttavia non è nemmeno possibile pensare di mantenere troppo a lungo l’atteggiamento di “tutti gli operai della filosofia, tutti i soggiogatori del passato” quando sotto la lente della ricerca appaiono tali e tanti difetti e imperfezioni che, reiterati e costituenti l’intima struttura di quell’opera che si intende studiare, giungono quasi a offendere l’intelligenza di chi vi si accosti con scrupolo e rispetto e chiamano, quindi, a una posizione disincantata e priva di pigrizia e movenze reverenziali.
A distanza di poco più di un secolo dalla morte, la persona e l’opera di Cesare Lombroso continuano a essere oggetto di numerosi studi e analisi. La bibliografia critica conta ormai decine, se non centinaia di contributi e basterà ricordare qui soltanto alcuni fra i lavori più recenti usciti in Italia e all’estero, anche in concomitanza con il centenario della scomparsa, per dimostrare come Lombroso costituisca tuttora un vero e proprio “caso” che merita di essere ancora studiato, analizzato, interpretato. Lungi dall’essere un argomento concluso, infatti, l’ambigua eredità di Lombroso, del suo pensiero e di quella che è senza dubbio un’originale impresa intellettuale e politica di cui non si sono ancora spenti gli echi, può costituire ancora un fertile terreno di prova per chiunque vi si accosti con interesse critico.
Sul piano del giudizio storico-culturale più recente, i pareri sul medico veronese tendono ormai a essere abbastanza concordi nel rilevare, accanto a una strutturale debolezza dell’impianto argomentativo e teoretico, la preminente funzione di catalizzatore di problemi del suo tempo che egli seppe introdurre in un più ampio dibattito nazionale e internazionale. In altri termini, secondo molti, sebbene siano ravvisabili palesi incongruenze e contraddizioni in un’opera che, come è stato osservato, sembra procedere per accumulazione (Mangoni, ١٩٩٥) e non tanto in accordo ai principi di una onnipotente scienza cui pure a ogni passo si richiama quasi ossessivamente, la valutazione del pensiero di Lombroso deve tenere conto del ruolo da egli svolto nel “cogliere” lo spirito del tempo e nel porre in luce, presso la comunità scientifica così come presso l’opinione pubblica, tematiche centrali nel sentire comune fra le quali, e in primis ovviamente, il problema della criminalità (Mangoni, 1985; Frigessi, 2003). Accanto a tale funzione che potremmo definire di “agitatore culturale”, e che costituisce misura non indifferente del valore autenticamente politico della sua opera, Lombroso conferì ampiezza al filone di studi e di ricerche sulle molteplici forme della “devianza”, contribuì a definire lo statuto di indirizzi applicativi come la psicopatologia forense e diede origine a originali discipline “scientifiche” fra le quali la criminologia, che non a caso lo riconosce stabilmente fra i propri padri fondatori (Gibson, 2011). Le attività che egli seppe conciliare in un profilo complesso e sfaccettato di studioso si estesero dall’impegno di ricerca sperimentale all’applicazione delle scoperte e dei metodi, per congiungersi con una visione più ampia della società, per la quale egli nutriva dichiarati intenti riformatori sul piano politico ed economico che promosse anche nelle sedi istituzionali.
In altri termini, leggendo molti dei più autorevoli studi, Lombroso è indicato come un interprete acuto della sua società e una figura di studioso che, non meno di altri noti e meno noti scienziati e intellettuali, ritenne di individuare e indicare nelle forme di una nuova Scienza, che in molte delle sue più importanti formulazioni il Positivismo elevò ai ranghi di una religione civile, un percorso ermeneutico e operativo all’interno di una contemporaneità complessa, caotica addirittura, contradditoria e in forte, magmatico mutamento qual è quella italiana ed europea della seconda metà dell’Ottocento.
Non deve peraltro sottovalutarsi in questo quadro, ma è una posizione non troppo seguita negli studi, l’accentuato aspetto egotistico del personaggio: ansia di protagonismo, passione da polemista, desiderio di essere riconosciuto come fondatore di una scienza innovativa e risolutrice di annosi e complessi problemi sociali, ambizione di essere un “grande” del tempo e di costituire un faro per il tempo a venire. Tutti aspetti senza i quali non si può interpretare correttamente l’opera di Lombroso: non diversamente da quanto correnti estetiche coeve postulavano nel campo artistico e letterario, in lui opera e vita tendono a saldarsi in un’entità indissolubile ed egli stesso ebbe un ruolo tutt’altro che trascurabile in questa configurazione. Si può anzi giungere a dire che non si comprende larga parte della teoresi del medico veronese se non la si legge anche nella chiave di una personalità istrionica e teatrale per la quale la dimensione della spettacolarità costituisce un terreno di espressione privilegiato (Forno, 2011).
Questo tipo di articolato giudizio però, che si avrà modo di riprendere e illustrare, pur non essendo in sé sbagliato, contiene qualcosa di falso. Quando dalle pagine dei suoi critici ed esegeti si passa infatti a quelle dell’autore, si prova la sensazione che i conti non tornino. Appare subito uno sbilanciamento di razionalità discorsiva dalla parte della critica, mentre un alone di approssimazione e stramberia argomentativa promana prepotentemente dall’opera. Si cercano i passi citati dal critico di turno per avere contezza delle interpretazioni proposte ma, riletti all’interno del loro proprio contesto, quelli assumono una tonalità grottesca e inquietante, dotata a tratti di quella ingenuità crudele che è propria delle azioni infantili, e queste sembrano mancare per difetto o per eccesso il reale punto critico, la questione che Lombroso incessantemente pone in ogni scritto, in ogni postura, in ogni rappresentazione.
Accade così che, una volta che ci si accosti direttamente ai testi di Lombroso, li si leggano e li si provino a seguire nelle argomentazioni prodotte, molti dei risultati critici su di essi assumono le parvenze di sofisticherie metodologiche e raffinatezze ermeneutiche. La luce opaca emanante dalla letteratura lombrosiana ritorna malignamente sulla letteratura critica a essa dedicata. Si giunge a sospettare della liceità dell’operazione esegetica, si dubita della sua necessità, si pone in questione la sua fondatezza. Si osserva il triste fenomeno, e niente affatto raro, per il quale l’immagine e la forza della suggestione di un personaggio e di un pensiero, irradianti contenuti di potente impatto simbolico ed emotivo, fanno trasfigurare la realtà testuale dell’opera in cui tali immagini e contenuti albergano, sino a magnificarne il significato storico e la sotterranea coerenza, in verità assai poveri e in definitiva miserabili.
Il “caso” Lombroso sembra essere una prova della potenza dell’attività interpretativa capace di scovare perle ove non c’è che misera argilla, e talvolta indicare la pietra preziosa dove non c’è nemmeno la terra.
Non si pensa qui soltanto a quell’impasto di razzismo, sessismo e classismo che l’opera diffonde in grande abbondanza, pure bilanciati apparentemente da un’attenzione critica volta alle deprecabili e tragiche condizioni di vita di larga parte della popolazione italiana della seconda metà dell’Ottocento: ciò che costituisce una palese contraddizione interna del suo pensiero da tutti i commentatori rilevata e sovente giustificata, ma la cui ragion d’essere va individuata più nello spirito di polemista e dell’ “essere contro” che in un’autentica vocazione riformatrice. Un aspetto la cui spiegazione più pertinente va ricercata sul piano biografico piuttosto che su quello del pensiero.
Ci si riferisce, più specificamente, a quelle debolezze strutturali del ragionare sopra richiamate che, a un più attento sguardo, sono indice di gravi errori di ragionamento che inficiano alle fondamenta tutto l’impianto lombrosiano e, addirittura, si configurano talora come scorrettezze, come imbrogli, come cialtronerie intellettuali deliberatamente e pervicacemente diffuse con ogni mezzo e a dispetto di qualsiasi criterio seriamente scientifico già del suo tempo, per non dire di quello successivo.
E nonostante, come presto vedremo, tutte le scorrettezze di metodo e di merito che li permeano, il suo argomentare, il tenore del suo discorso, la qualità delle dimostrazioni addotte possono apparire ragionevoli: ed è questo l’autentico e profondo problema che pone ancora oggi Lombroso. Per quali motivi, secondo quale logica culturale i suoi argomenti, la sua teoresi, il suo discorso sono potuti apparire e tuttora appaiono dotati di una certa ragionevolezza, tale da averne fatto adottare le tesi come dirimenti questioni difficilissime e gravi e come configurazioni utili alla definizione di nuovi rami di saperi teorici e applicati?
In tal senso si può forse dire che a gran parte della critica è sinora mancata l’attenzione non per ciò che è irragionevole e claudicante del pensiero lombrosiano, che è stato volta a volta deliberatamente ignorato, o maliziosamente nascosto, o addomesticato e giustificato riconducendolo nelle coordinate e nei limiti più generali del pensiero scientifico coevo, o ancor più raramente analizzato nella struttura interna, e in molti casi adottando più spesso di quanto non si pensi posizioni oltremodo indulgenti; ma al contrario per il suo fondo di oscura sensatezza, per il suo cupo nucleo di espressione di un senso comune che arriva a sovrapporsi e a coincidere con forme di bruta mistificazione e di menzogna sistematica all’interno di una discorsività a pretesa scientifica.
Si tratta quindi di provare a leggere direttamente Lombroso e di misurarsi anche da profani, anche da non studiosi, con i suoi testi per vedere se e pour cause i suoi argomenti suonino anche su questo fronte ancora famigliari, ancora accettabili, ancora ragionevoli o piuttosto siano divenuti estranei, inaccettabili, irragionevoli, e in che misura e in quali casi e per quali motivi. Il problema della ragionevolezza posto dall’opera lombrosiana deve così essere inteso primamente nella relazione che in essa si istituisce tra senso comune e razionalità scientifi...