Potere e desaparición
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Potere e desaparición

I campi di concentramento in Argentina

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Potere e desaparición

I campi di concentramento in Argentina

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Pubblicato per la prima volta a Buenos Aires nel 1998, il volume prende corpo dalle testimonianze – a cominciare da quella dell'autrice – dei sopravvissuti alla Guerra sporca per denunciare le atrocità commesse dal potere argentino negli anni della dittatura militare. I campi di concentramento, i centri di detenzione e di tortura, le sofferenze e la morte pianificate in ogni minimo dettaglio: in Potere e desaparición Pilar Calveiro passa al setaccio meccanismi di spersonalizzazione e annullamento del singolo che vanno ben oltre il "banale" – per quanto vile e brutale – assassinio e assumono le proporzioni di un infame progetto politico, di un delitto di massa, di un orrore programmato.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788857570211
I campi di concentramento
L’esperimento di dominio totale nei campi richiede che questi siano ermeticamente chiusi agli sguardi del mondo di tutti gli altri, del mondo dei vivi in genere. Tale isolamento spiega la peculiare irrealtà e incredibilità che caratterizza tutti i resoconti su di essi […] perché [i campi di concentramento e sterminio] sono la vera istituzione centrale del potere totalitario.
Chi parla o scrive sui campi di concentramento è ancora considerato con sospetto; e se è decisamente ritornato dal mondo dei vivi, egli stesso è talvolta assalito dai dubbi sulla sua veridicità, come se avesse scambiato un incubo per la realtà.
Hannah Arendt16
Potere e repressione
Il potere, individualizzante e totalitario a un tempo, i cui segmenti molari – seguendo l’immagine tratteggiata da Deleuze – sono immersi nel brodo molecolare che li alimenta17, è innanzitutto uno sfaccettato meccanismo di repressione.
I rapporti di potere che vengono intessuti in una qualsiasi società, quelli che sono andati stabilendosi e rafforzandosi in Argentina nell’arco del XX secolo e ai quali si è accennato all’inizio sono il risultato di una serie di scontri, nella maggior parte dei casi violenti e sempre caratterizzati da una marcata componente repressiva. Senza repressione non c’è potere ma, andando oltre, si potrebbe affermare che la repressione è l’anima stessa del potere. Le forme da essa adottate lo mostrano nella sua più profonda intimità, quella che, proprio in virtù della sua possibilità di palesarlo, di renderlo ovvio, viene mantenuta segreta, occulta, negata.
Nel caso argentino, la presenza costante dell’istituzione militare nella vita politica è sintomo di una difficoltà nell’occultare il carattere violento della dominazione, che viene mostrata, esibita come una minaccia perpetua, come un monito costante destinato alla società nel suo insieme. “Eccomi qua, con le mie colonne di uomini e d’armi: guardatemi”, afferma il potere a ogni golpe, ma anche in ogni parata patriottica.
Nondimeno, le uniformi, la retorica rigida e autoritaria dei militari, gli algidi comunicati diffusi via radio e via televisione a ogni tumulto, altro non sono se non il volto più presentabile del loro potere: quello che potremmo azzardarci a definire il suo “vestito della domenica”. Mostrano un’espressione rigida e autoritaria, sì, ma ricoperta anche da uno strato di pulizia, onestà e splendore di cui sono privi nell’esercizio quotidiano del potere, nel quale assomigliano più a crudeli e avidi burocrati che non ai crociati dell’ordine e della civiltà che pretendono di essere.
Tale potere, il cui nocciolo duro è l’istituzione militare ma che comprende altri settori della società, che dal momento stesso della fondazione della nazione viene esercitato da governi sia civili sia militari, che è capace di trasformarsi e al tempo stesso di riprodursi eguale, si vuole totale. Tuttavia, questo intento di totalizzazione non è altro che una delle tante pretese del potere. “C’è sempre una foglia che fugge e vola via, verso il sole”. Le linee di fuga, i buchi neri del potere, sono innumerevoli in qualunque società e circostanza, perfino nei totalitarismi più capillarmente insediati.
Per questo, al fine di poter descrivere l’indole specifica di qualunque potere è necessario fare riferimento non soltanto al suo nocciolo duro, a ciò che esso stesso accetta come costitutivo di sé, ma anche a tutto ciò che esso esclude e che sfugge al suo controllo, a ciò che si sottrae al suo complesso sistema, che è centrale e frammentario al tempo stesso.
Ed è qui che acquista significato la funzione repressiva messa in atto per controllare, catturare, agglutinare tutto ciò che evade da questo modello presuntamente totale. L’esclusione non è altro che una forma di inclusione: inclusione in un preciso orizzonte di quanto è disfunzionale. Per questa ragione i meccanismi e le tecnologie di repressione rivelano l’indole stessa del potere, le forme con cui si autorappresenta, le modalità attraverso le quali pretende di includere, rifunzionalizzare e collocare ciò che evade dal suo controllo, che non è integrato al suo sistema.
La repressione, il castigo, rientrano tra i procedimenti adottati dal potere e ne riproducono le tecniche e i meccanismi. Ecco perché le forme della repressione vanno modificandosi a seconda dell’indole del potere. Ed ecco perché intendo fare di ciò l’oggetto della mia indagine.
Mentre questo nocciolo duro mette in luce una parte di sé, quella “mostrabile” alle parate, nel sistema penale, nell’esercizio legittimo della violenza, allo stesso tempo ne nasconde un’altra, quella “vergognosa”, che si cela nel controllo illecito delle corrispondenze e delle vite private, negli omicidi politici, nelle pratiche di tortura, negli affari illeciti e nelle truffe.
Sempre il potere mostra e nasconde, e svela sé stesso tanto per mezzo di ciò che esibisce quanto per mezzo di ciò che nasconde. In ciascuna di queste sfere si manifestano aspetti all’apparenza tra loro incompatibili, ma tra i quali si possono instaurare strani collegamenti. Mi interessa qui trattare del volto negato del potere, quello che esiste da sempre ma che ha adottato via via caratteristiche diverse.
In Argentina la forma più brutale del potere, l’assassinio politico, è da sempre una costante; dal canto suo, dopo il colpo di Stato del 1930, la tortura si instaurò in maniera sistematica e istituzionale nel corso del XX secolo per i prigionieri politici, e venne esercitata in maniera sistematica e addirittura accettata dalla società come normale nei riguardi dei cosiddetti “delinquenti comuni”. Il sequestro e il successivo assassinio con aparición del corpo della vittima furono praticati soprattutto a partire dagli anni Settanta, sebbene in maniera occasionale.
Ciò malgrado, tutte queste pratiche, per quanto crudeli nel loro svolgimento, si differenziano in modo sostanziale dalla desaparición, che merita invece una riflessione a sé. La desaparición, lungi dal costituire un eufemismo, è un’allusione letterale: una persona che a partire da un dato momento sparisce, si volatilizza senza che rimanga prova alcuna della sua vita o della sua morte. Non c’è corpo della vittima né del delitto. Possono esserci testimoni del sequestro e si possono avanzare ipotesi circa il successivo assassinio, ma non esiste un corpo fisico in grado di attestare il fatto.
La desaparición come metodo di repressione politica fece la sua comparsa dopo il golpe del 1966. All’epoca ebbe carattere sporadico e, in molti casi, gli esecutori materiali furono gruppi legati al potere ma non necessariamente gli organi incaricati della repressione istituzionale.
Questa modalità cominciò a divenire una prassi a partire dal 1974, durante il governo peronista, a breve distanza dalla morte di Perón. In quel momento le desapariciones avvenivano per conto della AAA e del Comando Libertadores de América, gruppi che potrebbero essere definiti come parapolizieschi o paramilitari. Erano composti da membri delle forze di repressione e godevano dell’appoggio di organi governativi quali il Ministero per lo Stato Sociale, ma operavano in maniera indipendente rispetto a dette istituzioni. Erano sostenuti da e col...

Indice dei contenuti

  1. Enrico Passoni, Emilia Perassi e Laura Scarabelli Nota dei Traduttori
  2. Juan Gelman Prologo
  3. Considerazioni preliminari
  4. I campi di concentramento
  5. Bibliografia