Il Nomos, come canto,
pascolo e legge
Cogliamo qui, attraverso l’ampia ed articolata citazione delle intense argomentazioni della Ferrando, che la coppia concettuale physis/nomos acquista un rilievo notevole, perché in essa è in gioco sia l’articolarsi dell’agire umano, della stessa «natura umana», sia la modalità con cui «natura» e nomos interagiscono e possono interagire. Ma vedremo più compiutamente, nelle pagine seguenti, l’articolarsi di questi temi. Certamente, neppure quest’ampia, articolata citazione in cui abbiamo provato a comporre un’estrema sintesi dell’esegesi della studiosa, riesce a restituire l’integrale bellezza delle riflessioni da lei svolte in queste parti così ricche del saggio. Semmai, l’iniziale annuncio di quel senso profondo del Nomos Basileus è in grado di introdurci ai temi decisivi su cui si svolgerà la successiva e straordinaria ermeneutica del Nomos – nel capitolo “Il canto e il Nomos”, che con i temi riguardanti il plesso “Virgilio-Arcadia-Bucoliche” e Diotima/Simposio, rappresenta il cuore decisivo e il compendio più significativo in cui confluisce l’epilogo della sua ampia e colta ricerca.
Qui, attorno al Nomos, la studiosa mette a fuoco un serrato confronto, filologicamente rigoroso, convocando e coinvolgendo Esiodo e Pindaro, la forma-di-vita arcadica e Platone, Cicerone e Proclo, Solone e Aristotele, Eraclito ed Eschilo. Vedremo pertanto lo snodarsi della “triplice” natura del Nomos, nella sua simultanea e plurale stratificazione di senso di canto/musica, legge, pascolo, così come proveremo ad offrirne, nelle pagine che seguono, la straordinaria composizione armonica, con citazioni tratte dal testo, a conferma di come la Ferrando riesca a dipanarne il ricco multiversum. Ma non si arresta qui la sua intensa ricostruzione su uno dei concetti più pregnanti e affascinanti della cultura greca: quel Nomos che, insieme al corredo delle sue implicazioni genealogiche, filologiche e poi concettuali e filosofiche, oltre ad aver arrovellato i grammatici antichi, ha scandito le tappe di una interminabile controversia lungo i secoli, pervenendo sino alla nostra contemporaneità giuridico-filosofica.
Non è un caso che, dopo un excursus di ampio spettro, a cospetto con l’esperienza arcadica e il contesto filologico e culturale greco, la studiosa giunga a compiere un balzo temporale inimmaginabile e al tempo stesso impareggiabile, con sorprendente effetto sorpresa, lasciandosi alle spalle l’Arcadia, per approdare direttamente al secolo scorso, spingendosi in una radicale “decostruzione” – udite, udite! – della trama attorno a cui Carl Schmitt, tra i più grandi giuristi e filosofi del secolo scorso, è venuto imbastendo ed elaborando il suo «tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale, a partire dal “nomos”» – qui, nel corsivo, citiamo le intenzioni dell’illustre e controverso giurista tedesco. Finalità che fa da sottotitolo al «trittico» Appropriazione/divisione/produzione, come recita il famoso saggio schmittiano del 1953, compreso nella traduzione italiana del 1972, Le categorie del «politico». Temi, quelli relativi al Nomos, che impegnarono il grande e controverso giurista tedesco lungo gli anni ’40/’50, nella sua fase “internazionalista”, e che in lingua italiana hanno trovato dapprima nel suo opus magnum del 1953, Il Nomos della terra, e poi nella recente, organica pubblicazione, Stato, grande spazio, Nomos un dittico imprescindibile, che ci consente di cogliere l’itinerario del controverso giurista di Plettenberg sulle diverse «stazioni del «calvario» del Nomos» (Cacciari).
Ma prima che la Ferrando svolga il suo serrato duello, il suo “corpo a corpo”, con e contro Schmitt e la sua ermeneutica del Nomos, la sua ricerca si sofferma, come anticipato sopra, nel ripescaggio dei tre “sensi” che hanno intessuto l’area semantica del termine Nomos, lungo una trama che da Omero a Pindaro, da Esiodo a Platone a Proclo, si snoda attraverso l’ambito della drammaturgia greca, sino a pervenire alle importanti letture novecentesche che hanno avuto nel classico lavoro di Marcello Gigante sul Nomos Basileus uno dei punti più alti della ricerca contemporanea. È così che la studiosa riesce ad offrire prospettive ermeneutiche poco frequentate ed anche inedite, disvelando i profondi limiti della lettura proposta dal giurista tedesco, contribuendo in modo innovativo ad arricchire il campo di risposte alla cosiddetta Nomosfrage. Infatti, anticipando da subito la stratificazione di senso che emerge dalla seducente e filologicamente fondata analisi condotta dall’autrice nel capitolo in questione, con le sue stesse parole possiamo dire che «la sfera semantica di questa parola [Nomos]…raccoglie insieme i significati di pascolo, legge e musica». Non solo, ma vi è di più, al punto che «solo quando questa essenziale solidarietà fra i tre significati sarà stata indagata e compresa, sarà possibile intendere che cosa un orecchio greco percepiva nel vocabolo nomos» (ivi, p. 67, c. n.).
Ora, dal momento che è da sempre acquisito, dentro una tradizione di senso largamente consolidata – è all’opera di Esiodo, Opere e giorni, che si fa risalire per la prima volta la parola Nomos –, che il significato di «pascolo» e di «legge» appartengano all’area semantica del Nomos, è attraverso un serrato confronto con un’ampia costellazione poetica, letteraria e filosofico-politica della grecità, con al centro la riflessione platonica, che la Ferrando può risalire con grande dovizia di argomentazioni fondate e persuasive ad inscrivere la “musica” – dove canto, voce/parola e poesia ne articolano il senso profondo e ritmato in un intreccio davvero inestricabile –, quale terzo significato del concetto di Nomos. E come tale significato essenzialmente derivi, anzi scandisca la stessa «vita politica di questa impervia e selvaggia regione», al punto che l’intimo riverbero della musica nella forma-di-vita degli Arcadi sia stato tale da far «risuonare l’eco di quel singolare paradigma, poetico e politico insieme, destinato a divenire, col nome di “Arcadia”, un unicum tanto indiscusso quanto incompreso» (ivi, p. 73). Che i nomoi musicali, nell’antica Grecia, attestati non solo dalle pratiche e ritualità devozionali, attraverso gli inni in omaggio agli dei, innervassero la forma di vita in comune è un’esperienza consolidata, secondo una ricca ed articola differenziazione di tali nomoi musicali che afferiva ora all’autore, ora allo strumento musicale, ora all’effetto emotivo, ora all’inventio dell’artista, ora all’etnia di provenienza – nomos dorio, lidio, frigio, ecc. –, ora al culto del dio cui era destinato, al punto che «il nomos musicale rappresenta l’articolazione di un principio formale capace di scandire, con la sua ramificata distribuzione, il ritmo molteplice della vita» (p. 76, c. n.).
Abbiamo peraltro fatto già riferimento, all’inizio di questo ampio commento, al fatto che «musica» e «canto» siano stati nutrimento della paidèia degli Arcadi, sin dalla fanciullezza, articolando in tal guisa la loro «forma-di-vita». Ma di più, va detto come la musica fosse stata caratteristica radicata nell’esperienza di vita di tutta la Grecia, facendo di essa quel luogo elettivo dentro cui il logos mitico afferente ad un tempo immemoriale – «anteriore sia ad Omero che allo stesso Orfeo» – stagliasse il Nomos sulla «soglia» di un legame permanente e musicale tra divini e mortali, “legge” e giustizia, physis e Dike, natura umana e comunità, alla ricerca di quella armonia in grado di assicurare alla polis la connessione dell’ethos dei suoi abitanti. E non potendoci qui soffermare sulla raffinata e complessa articolazione offerta dalla studiosa, relativa alle differenti espressioni musicali, oscillanti tra il timbro “orgiastico” della musica dionisiaca e il timbro musicale frigio, più consono ad esercitare una funzione etica di neutralizzazione degli eccessi della passione, vale la pena, tuttavia, accennare a quei riferimenti che la Ferrando offre, chiam...