Rappresentare la violenza di genere
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Rappresentare la violenza di genere

Sguardi femministi tra critica, attivismo e scrittura

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Rappresentare la violenza di genere

Sguardi femministi tra critica, attivismo e scrittura

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Nato dalla sinergia tra studiose/i, attiviste/i, scrittrici e scrittori, il presente volume si propone come spazio aperto a una riflessione interdisciplinare sulle modalità discorsive impiegate per la rappresentazione della violenza di genere nel contesto letterario, cinematografico, teatrale e mediatico dell'Italia del terzo millennio. Considerando la sfera della rappresentazione un campo d'indagine cruciale per ogni analisi di un fenomeno che trova le proprie radici in archetipi culturali veicolati attraverso particolari paradigmi discorsivi, il volume intende inquadrare i nuovi orizzonti di visibilità apertisi sul tema, adottando una prospettiva teorica di matrice femminista che armonizza il pensiero italiano della differenza sessuale con le più recenti teorizzazioni della corrente dei Gender Studies. Privilegiando un approccio di tipo interdisciplinare e olistico, il testo si articola in tre sezioni dedicate rispettivamente alla ricerca di stampo accademico, alla presa di parola da parte di attiviste/i interessate/i ad analizzare la rappresentazione mediatica del fenomeno e, infine, alla voce di affermate/i autrici/ autori che hanno portato avanti una riflessione teorica sulle strategie impiegate per narrare la violenza.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788857554266

Da vittima invisibile a sopravvissuta:
le registe italiane rispondono
alla violenza di genere

Barbara Zecchi341



Che cosa avete voluto? La parità dei diritti.
Vi siete messe voi in questa situazione.
E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato.
Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta
presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente.
Avv. Angelo Palmieri, arringa, Processo per stupro, 1979
Solo in Italia vengo considerata colpevole del mio stupro
perché non ne parlai quando avevo 21 anni.
Asia Argento, intervista, 2017

Mentre sto scrivendo queste pagine342, uno dei più poderosi capisaldi del patriarcato per la perpetuazione della discriminazione contro le donne – il cinema – è stato scosso da un’ondata senza precedenti di movimenti femminili – e femministi – contro la violenza di genere343 che ne ha incrinato il soffitto di cristallo (o meglio, di celluloide). La reificazione e sessualizzazione del corpo femminile sullo schermo e il potere di naturalizzazione e di convinzione dell’immagine visiva erano già da alcuni decenni sotto lo scrutinio della teoria filmica femminista, se non addirittura dei gruppi anti-porno. Da tempo, inoltre, i vari osservatori dell’audiovisivo segnalano la sistematica esclusione delle donne dai posti di responsabilità nell’industria cinematografica. E da più di due anni, le stelle di Hollywood, capitanate da Jennifer Lawrence, denunciano la differenza salariale tra attori e attrici. Ma mai come oggi, le accuse di violenza sessuale, che hanno fatto cadere uno dei più intoccabili simboli del potere del cinema, il produttore Harvey Weinstein – uomo, bianco, eterosessuale, cisgender, facoltosissimo e fisicamente imponente – avevano avuto così tanta trascendenza e visibilità mediatica. Azzarderei che – grazie ad una straordinaria proiezione tanto nei social network come nei mezzi di comunicazione “tradizionali” – si tratta di un fenomeno che ha suscitato conseguenze più ampie di quelle del suffragismo degli anni venti, che conquistò il voto femminile, o dell’attivismo femminista di fine anni sessanta, che produsse la rivoluzione sessuale, per aver svegliato, mosso e scosso individui (donne ed anche uomini) fino ad ora completamente estranei, se non addirittura ostili, al femminismo, gente che, in altre parole, contribuiva al fenomeno del “problema del non problema” studiato da Deborah Rhode344.
Le ripercussioni di questi movimenti sono percepibili, su diversi livelli345, anche in Italia, il paese in cui, fino a pochi decenni fa, gli uomini avevano il diritto all’uso della violenza per correggere le mogli (lo “ius corrigendi” del codice fascista Rocco), l’adulterio femminile era una circostanza attenuante per l’uxoricidio, e lo stupro era un crimine contro la decenza pubblica (e non contro la persona); il paese con ancora uno degli indici minori di donne ai vertici del business, della politica e della amministrazione pubblica del mondo occidentale; il paese delle passarelle, delle vallette e delle veline346; il paese in cui ogni due giorni una donna viene ammazzata dal suo compagno347.
In che modo il cinema italiano partecipa al discorso sulla violenza di genere e, in particolare, in quale maniera le donne dietro alla macchina da presa ne fanno parte? Ma soprattutto, come vengono rappresentate le vittime? Nelle seguenti pagine illustrerò le manifestazioni della violenza di genere nell’industria cinematografica, per poi concentrarmi sul modo in cui le registe italiane decostruiscono i discorsi filmici dominanti in risposta alle tipologie canoniche. Senza nessuna pretesa di essere esaustiva, in queste pagine individuerò, da un lato le pellicole che seguono le modalità di rappresentazione stabilite e, dall’altro, le pratiche cinematografiche che riescono ad incrinarle, in larga misura per mezzo della “testimonianza etica”. In particolare, prenderò in considerazione cinque paradigmi prevalenti nella rappresentazione della vittima della violenza di genere comparando il corpus filmico egemonico (hollywoodiano o italiano) con la riscrittura degli stessi parametri al femminile.

i. Violenza di genere: le manifestazioni nell’industria cinematografica

La violenza di genere, come qualsiasi forma di violenza, deve essere vista in un contesto più ampio di relazioni di potere e non come un evento isolato. Questo è evidente nel mondo del cinema in particolare, una poderosa macchina che muove milioni di dollari, mantenendo le donne in una condizione di subalternità a diversi livelli e in varie forme348. In primo luogo, i soprusi della cultura maschilista imperante, che le esclude dalle aree decisionali, relegandole a reparti storicamente femminili, come i costumi ed il make-up, e al campo della recitazione, caratterizzato da una disparità salariale. Si tratta di una discriminazione direttamente proporzionale al potere dell’industria: non è casuale che, per esempio, ci sia una maggiore partecipazione femminile nella regia in paesi in cui il cinema si muove con budget inferiori. Hollywood è il maggiore rappresentante di questa discriminazione (le donne hanno diretto solo il 7% dei film realizzati nell’ultimo decennio)349. Anche se leggermente migliore (16,3%), l’Osservatorio dell’audiovisivo del consiglio d’Europa denuncia una situazione analoga nelle sale europee, con agli ultimi posti l’Italia, che obbliga le registe ad avere “ancora bisogno di ‘padri’ e ‘padrini’”350. Solo il 10% dei film realizzati negli ultimi 15 anni, che equivale ad una media di poco più di 9 film all’anno, sono stati realizzati da donne, rispetto ai 90 film diretti da uomini)351.
Una seconda espressione della violenza di genere nel cinema è la discriminazione del canone (degli storici e critici cinematografici), che ha sistematicamente cancellato la produzione femminile dalla sua storia, che è ancora, in definitiva, la storia del cinema maschile (la his-story, per usare il conosciuto gioco di parole in inglese). Questa esclusione continua a persistere ancora oggi in festival, mostre, manuali, libri di testo, ed anche nel settore della distribuzione. Le registe non si citano, i loro film ricevono una pessima distribuzione, non si vedono, o si vedono molto poco, e finiscono per cadere inevitabilmente nel dimenticatoio. Recentemente352 tuttavia, si è potuto assistere ad un considerevole riscatto della presenza femminile alla regia negli esordi del cinema, che ha messo in luce figure fondamentali fino a poco tempo fa completamente sconosciute353. Sintomatico a questo proposito è il caso di Elvira Notari. In Storia del cinema muto (1956), studio fondamentale di Roberto Paolella, il critico cinematografico non solo attribuisce la regia dei suoi film al marito Nicola, ma li critica duramente senza menzionare mai il suo nome. Il figlio della regista tuttavia smentisce: “Contrary to what is written in the general histories, all misinformed, my mother directed all of the films we produced, from the first to the last, including the seventy features. Not only this, she was also the author of the original subjects and adaptations”354. L’assenza di questi modelli femminili alle origini del cinema è la causa dell’ansietà autoriale delle registe – teorizzata da Gilbert e Gubar a proposito della letteratura355. Ogni generazione si deve reinventare per l’inesistenza di madri da imitare o da superare.
Un terzo tipo di violenza è l’eliminazione simbolica del pubblico femminile. Il citatissimo saggio “Visual Pleasure and Narrative Cinema” di Laura Mulvey356, con premesse freudiane e lacaniane (ed una logica eteronormativa che verrà subito messa sotto accusa), definisce le dinamiche che governano lo sguardo egemonico, maschile per difetto, nel cinema: la scopofilia (il piacere visivo) attiva (voyeurismo) e passiva (narcisismo) reificano e frammentano il corpo della donna riducendolo ad un “to-be-looked-at-ness”, cioè ad un oggetto visuale, che ferma l’azione intrapresa dal soggetto (inevitabilmente maschile) in pause di contemplazione della donna. Non c’è quindi la possibilità di uno sguardo femminile nel cinema. La soggettività visiva della spettatrice viene condizionata dallo sguardo sia del regista che dell’attore (entrambi uomini), e la donna viene inesorabilmente obbligata a osservare, appunto, come un uomo. Un’altra approssimazione, di base etnografica357, studia le dinamiche di resistenza della spettatrice. Il cinema inganna gli spettatori costretti – o incatenati, per la lettura dell’allegoria di Platone secondo Jean-Louis Baudry358 – a testimoniare questa illusione della realtà. Se gli “spettatori” di Platone erano uomini (per difetto), questa forma di violenza riguarda in particolare il pubblico femminile: il gran po...

Indice dei contenuti

  1. Ringraziamenti
  2. Introduzione
  3. I Critica
  4. Donne violente e donne violate
  5. Il femminicidio e il genere della biografia testimoniale come pratica sociale e simbolica
  6. La memoria della violenza nell’opera di Elvira Mujčić
  7. Violenza di genere, mascolinità e punto di vista narratologico in La notte alle mie spalle di Giampaolo Simi
  8. Contro il silenzio e la violenza mediatica: Ferite a morte di Serena Dandini
  9. Da vittima invisibile a sopravvissuta: le registe italiane rispondono alla violenza di genere
  10. Primo Amore di Matteo Garrone: Il corpo femminile come campo di battaglia tra logos e materia
  11. Le “buone” ragioni
  12. II Attivismo
  13. Cambiare il giornalismo in ottica di genere
  14. I nuovi media come opportunità per raccontare la violenza di genere
  15. La legittimità della vittima trans
  16. Rappresentazione della violenza contro le donne in ambito mediatico e politico
  17. Il #MeToo di Hollywood e il #WeToogether di Non Una Di Meno
  18. Visioni a confronto: intervista a Lola López Mondéjar
  19. III Scrittura
  20. Intervista a Dacia Maraini
  21. La morte segreta delle cose
  22. Partiamo dalle parole. “Femminicidio”: un lessico necessario
  23. I maschi non piangono
  24. Autori e Autrici