Da vittima invisibile a sopravvissuta:
le registe italiane rispondono
alla violenza di genere
Barbara Zecchi
Che cosa avete voluto? La parità dei diritti.
Vi siete messe voi in questa situazione.
E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato.
Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta
presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente.
Avv. Angelo Palmieri, arringa, Processo per stupro, 1979
Solo in Italia vengo considerata colpevole del mio stupro
perché non ne parlai quando avevo 21 anni.
Asia Argento, intervista, 2017
Mentre sto scrivendo queste pagine, uno dei più poderosi capisaldi del patriarcato per la perpetuazione della discriminazione contro le donne – il cinema – è stato scosso da un’ondata senza precedenti di movimenti femminili – e femministi – contro la violenza di genere che ne ha incrinato il soffitto di cristallo (o meglio, di celluloide). La reificazione e sessualizzazione del corpo femminile sullo schermo e il potere di naturalizzazione e di convinzione dell’immagine visiva erano già da alcuni decenni sotto lo scrutinio della teoria filmica femminista, se non addirittura dei gruppi anti-porno. Da tempo, inoltre, i vari osservatori dell’audiovisivo segnalano la sistematica esclusione delle donne dai posti di responsabilità nell’industria cinematografica. E da più di due anni, le stelle di Hollywood, capitanate da Jennifer Lawrence, denunciano la differenza salariale tra attori e attrici. Ma mai come oggi, le accuse di violenza sessuale, che hanno fatto cadere uno dei più intoccabili simboli del potere del cinema, il produttore Harvey Weinstein – uomo, bianco, eterosessuale, cisgender, facoltosissimo e fisicamente imponente – avevano avuto così tanta trascendenza e visibilità mediatica. Azzarderei che – grazie ad una straordinaria proiezione tanto nei social network come nei mezzi di comunicazione “tradizionali” – si tratta di un fenomeno che ha suscitato conseguenze più ampie di quelle del suffragismo degli anni venti, che conquistò il voto femminile, o dell’attivismo femminista di fine anni sessanta, che produsse la rivoluzione sessuale, per aver svegliato, mosso e scosso individui (donne ed anche uomini) fino ad ora completamente estranei, se non addirittura ostili, al femminismo, gente che, in altre parole, contribuiva al fenomeno del “problema del non problema” studiato da Deborah Rhode.
Le ripercussioni di questi movimenti sono percepibili, su diversi livelli, anche in Italia, il paese in cui, fino a pochi decenni fa, gli uomini avevano il diritto all’uso della violenza per correggere le mogli (lo “ius corrigendi” del codice fascista Rocco), l’adulterio femminile era una circostanza attenuante per l’uxoricidio, e lo stupro era un crimine contro la decenza pubblica (e non contro la persona); il paese con ancora uno degli indici minori di donne ai vertici del business, della politica e della amministrazione pubblica del mondo occidentale; il paese delle passarelle, delle vallette e delle veline; il paese in cui ogni due giorni una donna viene ammazzata dal suo compagno.
In che modo il cinema italiano partecipa al discorso sulla violenza di genere e, in particolare, in quale maniera le donne dietro alla macchina da presa ne fanno parte? Ma soprattutto, come vengono rappresentate le vittime? Nelle seguenti pagine illustrerò le manifestazioni della violenza di genere nell’industria cinematografica, per poi concentrarmi sul modo in cui le registe italiane decostruiscono i discorsi filmici dominanti in risposta alle tipologie canoniche. Senza nessuna pretesa di essere esaustiva, in queste pagine individuerò, da un lato le pellicole che seguono le modalità di rappresentazione stabilite e, dall’altro, le pratiche cinematografiche che riescono ad incrinarle, in larga misura per mezzo della “testimonianza etica”. In particolare, prenderò in considerazione cinque paradigmi prevalenti nella rappresentazione della vittima della violenza di genere comparando il corpus filmico egemonico (hollywoodiano o italiano) con la riscrittura degli stessi parametri al femminile.
i. Violenza di genere: le manifestazioni nell’industria cinematografica
La violenza di genere, come qualsiasi forma di violenza, deve essere vista in un contesto più ampio di relazioni di potere e non come un evento isolato. Questo è evidente nel mondo del cinema in particolare, una poderosa macchina che muove milioni di dollari, mantenendo le donne in una condizione di subalternità a diversi livelli e in varie forme. In primo luogo, i soprusi della cultura maschilista imperante, che le esclude dalle aree decisionali, relegandole a reparti storicamente femminili, come i costumi ed il make-up, e al campo della recitazione, caratterizzato da una disparità salariale. Si tratta di una discriminazione direttamente proporzionale al potere dell’industria: non è casuale che, per esempio, ci sia una maggiore partecipazione femminile nella regia in paesi in cui il cinema si muove con budget inferiori. Hollywood è il maggiore rappresentante di questa discriminazione (le donne hanno diretto solo il 7% dei film realizzati nell’ultimo decennio). Anche se leggermente migliore (16,3%), l’Osservatorio dell’audiovisivo del consiglio d’Europa denuncia una situazione analoga nelle sale europee, con agli ultimi posti l’Italia, che obbliga le registe ad avere “ancora bisogno di ‘padri’ e ‘padrini’”. Solo il 10% dei film realizzati negli ultimi 15 anni, che equivale ad una media di poco più di 9 film all’anno, sono stati realizzati da donne, rispetto ai 90 film diretti da uomini).
Una seconda espressione della violenza di genere nel cinema è la discriminazione del canone (degli storici e critici cinematografici), che ha sistematicamente cancellato la produzione femminile dalla sua storia, che è ancora, in definitiva, la storia del cinema maschile (la his-story, per usare il conosciuto gioco di parole in inglese). Questa esclusione continua a persistere ancora oggi in festival, mostre, manuali, libri di testo, ed anche nel settore della distribuzione. Le registe non si citano, i loro film ricevono una pessima distribuzione, non si vedono, o si vedono molto poco, e finiscono per cadere inevitabilmente nel dimenticatoio. Recentemente tuttavia, si è potuto assistere ad un considerevole riscatto della presenza femminile alla regia negli esordi del cinema, che ha messo in luce figure fondamentali fino a poco tempo fa completamente sconosciute. Sintomatico a questo proposito è il caso di Elvira Notari. In Storia del cinema muto (1956), studio fondamentale di Roberto Paolella, il critico cinematografico non solo attribuisce la regia dei suoi film al marito Nicola, ma li critica duramente senza menzionare mai il suo nome. Il figlio della regista tuttavia smentisce: “Contrary to what is written in the general histories, all misinformed, my mother directed all of the films we produced, from the first to the last, including the seventy features. Not only this, she was also the author of the original subjects and adaptations”. L’assenza di questi modelli femminili alle origini del cinema è la causa dell’ansietà autoriale delle registe – teorizzata da Gilbert e Gubar a proposito della letteratura. Ogni generazione si deve reinventare per l’inesistenza di madri da imitare o da superare.
Un terzo tipo di violenza è l’eliminazione simbolica del pubblico femminile. Il citatissimo saggio “Visual Pleasure and Narrative Cinema” di Laura Mulvey, con premesse freudiane e lacaniane (ed una logica eteronormativa che verrà subito messa sotto accusa), definisce le dinamiche che governano lo sguardo egemonico, maschile per difetto, nel cinema: la scopofilia (il piacere visivo) attiva (voyeurismo) e passiva (narcisismo) reificano e frammentano il corpo della donna riducendolo ad un “to-be-looked-at-ness”, cioè ad un oggetto visuale, che ferma l’azione intrapresa dal soggetto (inevitabilmente maschile) in pause di contemplazione della donna. Non c’è quindi la possibilità di uno sguardo femminile nel cinema. La soggettività visiva della spettatrice viene condizionata dallo sguardo sia del regista che dell’attore (entrambi uomini), e la donna viene inesorabilmente obbligata a osservare, appunto, come un uomo. Un’altra approssimazione, di base etnografica, studia le dinamiche di resistenza della spettatrice. Il cinema inganna gli spettatori costretti – o incatenati, per la lettura dell’allegoria di Platone secondo Jean-Louis Baudry – a testimoniare questa illusione della realtà. Se gli “spettatori” di Platone erano uomini (per difetto), questa forma di violenza riguarda in particolare il pubblico femminile: il gran po...