Capitolo IV
Metafisica, differenza, gramma
Ogni singolo volume venne estratto dagli scaffali e sistemato
col dorso contro la parete. Soppesando tra le mani i suoi vecchi
amici – in fretta, naturalmente, senza interrompere il lavoro
– egli si sentì sopraffare dal dolore di doverli ridurre
all’anonimato di un esercito in assetto di guerra. Anni prima
nulla avrebbe potuto indurlo a commettere una simile crudeltà.
À la guerre comme à la guerre, si giustificò ora, e sospirò.
E. Canetti, Die Blendung
§ 11. Metafisica della presenza: un problema prima che una soluzione
È nella versione di Della grammatologia uscita su “Critique” (1965-1966) che l’espressione “metafisica della presenza” fa la sua prima comparsa. D’intorno a essa però, altre formule, altri sintagmi, ruotano sembrando imporsi a volte quali suoi sinonimi: il nostro compito allora, per lo meno quello che ci siamo imposti in questo primo paragrafo, sarà di ricostruire quei rapporti, quei movimenti, tutti quei passaggi che, uno di seguito all’altro, contribuiscono alla costruzione – lo anticipiamo da ora: comunque irrisolvibile e insolvibile nella semplicità di una causalità lineare – di un’architettonica argomentativa che non sempre si lascia abbracciare con lo sguardo.
Già immediatamente dopo le battute di apertura, commentando le citazioni apposte in esergo al saggio, il termine “metafisica” è chiamato in causa da Derrida per ben due volte: una prima per indicare il significato più proprio del termine “logocentrismo” – “logocentrismo, metafisica della scrittura fonetica (per esempio della scrittura alfabetica) (sott. nostra)”; e una seconda nel corso della formalizzazione di ciò che questo “logocentrismo” determinerebbe e comanderebbe “in un solo e medesimo ordine”: il “concetto di scrittura”, la “storia della metafisica” e il “concetto di scienza”. Specificando il secondo dei tre punti Derrida chiarisce approfondendo: “la storia della metafisica che, malgrado tutte le differenze e non solamente da Platone a Hegel (passando anche per Leibniz) ma anche, al di fuori dei suoi limiti apparenti, dai presocratici a Heidegger, ha sempre assegnato al logos l’origine della verità in generale”.
Volendo trarre anche solo da questi primi e parziali richiami una qualche comprensione del problema, ci si imbatte inevitabilmente nella difficoltà di dover articolare tra di esse queste due “metafisiche”. Da una parte abbiamo infatti la “metafisica della scrittura fonetica”, significato specifico di quell’enigmatico termine che è “logocentrismo”, il quale, dall’altra, è esso stesso l’“etnocentrismo più originale e potente” che ha determinato l’intera storia della metafisica. Il “logocentrismo”, che a quanto ci viene detto è una metafisica che si suppone essere tale tra altre possibili, è cioè una specifica metafisica, quella “della scrittura fonetica” per l’appunto, avrebbe, esso, determinato un’intera storia che proprio in quanto tale, proprio in quanto cioè totalità della storia, è anche ciò all’interno della quale solamente quella specifica metafisica rientra e trova la sua più propria collocazione. Già qui, forse, è possibile far sorgere un qualche imbarazzo, o per lo meno, magari pudicamente, avanzare un lieve sospetto: perché, o il “logocentrismo” è momento interno, e quindi, in quanto “metafisica della scrittura fonetica”, limitato e circoscritto, della “storia della metafisica” – è questa la posizione per la quale Derrida sembra più spesso pendere – ma allora irrisolvibile si fa qualsiasi comprensione del rapporto che tra di essi si intenderebbe stringere in termini di “determinazione” o “comando” del primo nei confronti della seconda, oppure il “logocentrismo” determina sì l’intera storia della metafisica ma solamente come ciò che, aprendo a questa stessa storia, di necessità non potendovi rientrare e ridurvisi, non lo si potrebbe dire metafisico, né la sua “metafisica della scrittura fonetica”. Almeno a questo punto dell’analisi – non ci si illuda però, siamo ancora fermi alle primissime righe – tertium non datur.
Avanzando di qualche pagina allora, è in un breve passaggio che quasi di sfuggita chiama in causa Heidegger che si evoca per la prima volta la “pre-senza” quale cifra più propria di “questa” metafisica: “Il logocentrismo è forse solidale con la determinazione dell’essere dell’ente come pre-senza e nella misura in cui non è del tutto assente dal pensiero heideggeriano, lo trattiene forse ancora in questa epoca dell’onto-teologia”. Che il “logocentrismo” sia “solidale [solidaire]” con la “pre-senza” non vuol dire, tutt’al contrario, che con essa si identifichi. Derrida inoltre, nel tentativo di circuire Heidegger, parla di “questa” epoca dell’“onto-teologia”, di una in particolare quindi, di un’epoca specifica che possa non confondersi, che non deve essere confusa, con altre “epoche” di questa medesima “onto-teologia” – che non ci è ancora chiaro, tra l’altro, in che rapporto stia con il “logocentrismo”, con la “metafisica della presenza” e con la sua determinazione dell’essere dell’ente.
Derrida ha già specificato di che epoca si tratti: “Essa [l’inflazione del segno ‘linguaggio’] indica suo malgrado che un’epoca storico-metafisica deve […] determinare infine come linguaggio la totalità del suo orizzonte problematico”. Secondo quella che potremmo definire una movenza tipicamente heideggeriana, e che abbiamo in parte già riconosciuta all’opera nel saggio su Artaud, Derrida sembra intenda parlarci qui di una determinazione dell’essere dell’ente come linguaggio – ma, “per un movimento lento la cui necessità si lascia appena ricevere, tutto ciò che […] tendeva e perveniva infine a raccogliersi sotto il nome di linguaggio comincia a lasciarsi deportare o per lo meno riassumere sotto il nome di scrittura”. Sembrerebbe addirittura, quindi, un’epoca della determinazione dell’essere dell’ente come scrittura.
È proseguendo oltre che incappiamo però finalmente, ed è la prima volta, nella fin troppo celebre espressione “metafisica della presenza”. Dopo aver richiamato il gesto heideggeriano di scrivere l’essere sotto barratura, Derrida afferma che questa cancellazione chiude un’epoca aprendo contemporaneamente su di un’altra: “Si cancella restando leggibile, si distrugge divenendo intelligibile l’idea stessa di segno. In quanto essa limita l’onto-teologia, la metafisica della presenza e il logocentrismo che ne è solidale, questa ultima scrittura è anche la prima scrittura (sott. nostra)”. Ci si ingannerebbe di certo qualora si ritenesse superfluo prestare attenzione al modo, alla sequenza nella quale Derrida ci restituisce i termini della questione: prima di tutto l’onto-teologia e le sue molteplici epoche, perché qui si discute di una, e in una, specifica epoca onto-teologica; poi la “metafisica della presenza” con la sua intera storia dai presocratici a Heidegger; infine il “logocentrismo”, “metafisica della scrittura fonetica” che, pur non identificandosi, o forse proprio per questo, con la determinazione “pre-senza”, è con essa comunque “solidale” al punto da “ordinarla” e “comandarla”, stando ai termini con cui si apre il saggio. Le molteplici e variegate epoche onto-teologiche affonderebbero le loro radici, traendo proprio da questa la loro vit...