Crimini
e distorsione della realtà
1. Chi era Adolf Eichmann?
Quando i giudici emisero il loro giudizio su Adolf Eichmann apparve oltremodo chiara la distanza sul piano del riconoscimento della realtà tra la loro posizione e quella dell’imputato, che di essa restituiva una rappresentazione autoreferenziale e falsa.
Eichmann non disconosceva lo sterminio in quanto tale ma le responsabilità personalmente avute in esso, e di questa sua estraneità si mostrò convinto fino alla fine del processo: “[...] non ho avuto nulla a che fare con l’uccisione degli ebrei. Non ho mai ucciso un ebreo […]: non ho mai ucciso un uomo. Non ho nemmeno dato ordini di uccidere ebrei, né ordini di uccidere persone che non fossero ebrei”. La corte sottolineò come la sua resa della realtà non aderisse ai fatti documentati e ritenne impossibile – come Arendt ricorda nel suo saggio – che Eichmann non fosse in grado di distinguere il bene dal male. Ciononostante, proprio per essersi trovati di fronte a queste inflessibili e irriducibili negazioni della verità, ai giudici apparve strano e incongruente che comunque, durante gli interrogatori, Eichmann avesse però riconosciuto parte delle proprie colpe. La sua negazione della realtà non era quindi granitica. In tale aspetto si manifestava, dunque, una delle numerose contraddizioni relative al suo comportamento e alle sue dichiarazioni nel corso dell’interrogatorio e del processo. Proprio questi aspetti, infatti, avrebbero portato alcuni studiosi a sottolineare la sua volubilità, come se quest’uomo non fosse solidamente “integrato”, cioè coerente con sé stesso, apparendo piuttosto istrionico, non un mostro ma un “buffone”. In tal senso, questa condizione potrebbe aver contribuito a creare e a fomentare confusione intorno all’interpretazione del caso.
Come evidenziato dalla sentenza, secondo i giudici in più occasioni Eichmann aveva mostrato di essere consapevole della natura illegittima dei suoi atti ma vi si era adattato, non rivelando un tormento particolare quanto piuttosto gioia e soddisfazione. Egli si dichiarò “non colpevole” dal punto di vista giuridico, ma colpevole dal punto di vista “umano”, e solo relativamente ad un ruolo di collaborazione. Secondo Eichmann, la responsabilità dei crimini era da attribuirsi esclusivamente ai capi politici tedeschi che impartivano gli ordini, mentre sul piano etico egli esprimeva il suo rammarico per le attività di sterminio, sostenendo che a queste ultime non aveva potuto sottrarsi, dichiarandosi “sfortunato” per essere stato “uno strumento nelle mani di poteri più forti, di forze più potenti, e di un destino inesorabile”. Dal suo punto di vista, le sue competenze cessavano “con la consegna delle tradotte alle stazioni di destinazione secondo gli orari prefissati”, e nonostante i documenti ufficiali attestassero la centralità del suo ruolo nella “soluzione finale”, la sua tendenza durante l’interrogatorio e il processo fu quella di definirsi un semplice addetto all’organizzazione dei trasporti secondo gli orari definiti, una sorta di fattorino, un mero “esecutore di ordini”.
Le sue dichiarazioni a proposito di inderogabilità degli ordini furono considerate da Arendt pretestuose (“quando un adulto dice di obbedire, egli in effetti sostiene l’organizzazione, l’autorità o la legge che reclama ‘ubbidienza’”) e dunque rigettate. Tuttavia, come si vedrà nel corso della trattazione, è possibile che nella vita di Eichmann il principio di ubbidienza cui egli diceva di richiamarsi avesse acquisito un’importanza che t...