Non ho mai ucciso un ebreo
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Non ho mai ucciso un ebreo

Distorsione della realtà e devozione all'ubbidienza in Adolf Eichmann

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Non ho mai ucciso un ebreo

Distorsione della realtà e devozione all'ubbidienza in Adolf Eichmann

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Attraverso l'analisi di una serie di documenti, questo testo dimostra come una condizione di distorsione della realtà e di devozione all'ubbidienza permisero a Adolf Eichmann di organizzare le deportazioni degli ebrei europei verso i campi di sterminio senza considerarsi responsabile della loro morte. Sostenuto da un processo di distanziamento e di negazione della realtà, infatti, Eichmann riuscì a neutralizzare le proprie incertezze e i propri conflitti di coscienza rispetto al genocidio ebraico, una condizione che confermerebbe l'idea di Hannah Arendt secondo cui Eichmann non era presente a se stesso nel compiere i propri crimini. Ciò spiegherebbe perché egli fu sempre convinto di non aver mai ucciso nonostante l'evidenza dei fatti. Questa condizione di distorsione della realtà avallerebbe dunque la tesi arendtiana sull'incapacità di Eichmann di pensare alle conseguenze delle proprie azioni e confuterebbe le varie tesi volte a decostruire il concetto di "banalità del male".

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788857561929
Argomento
Historia
Crimini
e distorsione della realtà
1. Chi era Adolf Eichmann?
Quando i giudici emisero il loro giudizio su Adolf Eichmann apparve oltremodo chiara la distanza sul piano del riconoscimento della realtà tra la loro posizione e quella dell’imputato, che di essa restituiva una rappresentazione autoreferenziale e falsa.
Eichmann non disconosceva lo sterminio in quanto tale ma le responsabilità personalmente avute in esso, e di questa sua estraneità si mostrò convinto fino alla fine del processo: “[...] non ho avuto nulla a che fare con l’uccisione degli ebrei. Non ho mai ucciso un ebreo […]: non ho mai ucciso un uomo. Non ho nemmeno dato ordini di uccidere ebrei, né ordini di uccidere persone che non fossero ebrei”172. La corte sottolineò come la sua resa della realtà non aderisse ai fatti documentati e ritenne impossibile – come Arendt ricorda nel suo saggio – che Eichmann non fosse in grado di distinguere il bene dal male173. Ciononostante, proprio per essersi trovati di fronte a queste inflessibili e irriducibili negazioni della verità, ai giudici apparve strano e incongruente che comunque, durante gli interrogatori, Eichmann avesse però riconosciuto parte delle proprie colpe174. La sua negazione della realtà non era quindi granitica. In tale aspetto si manifestava, dunque, una delle numerose contraddizioni relative al suo comportamento e alle sue dichiarazioni nel corso dell’interrogatorio e del processo. Proprio questi aspetti, infatti, avrebbero portato alcuni studiosi a sottolineare la sua volubilità175, come se quest’uomo non fosse solidamente “integrato”, cioè coerente con sé stesso, apparendo piuttosto istrionico, non un mostro ma un “buffone”176. In tal senso, questa condizione potrebbe aver contribuito a creare e a fomentare confusione intorno all’interpretazione del caso.
Come evidenziato dalla sentenza, secondo i giudici in più occasioni Eichmann aveva mostrato di essere consapevole della natura illegittima dei suoi atti ma vi si era adattato, non rivelando un tormento particolare quanto piuttosto gioia e soddisfazione. Egli si dichiarò “non colpevole” dal punto di vista giuridico, ma colpevole dal punto di vista “umano”, e solo relativamente ad un ruolo di collaborazione177. Secondo Eichmann, la responsabilità dei crimini era da attribuirsi esclusivamente ai capi politici tedeschi che impartivano gli ordini, mentre sul piano etico egli esprimeva il suo rammarico per le attività di sterminio, sostenendo che a queste ultime non aveva potuto sottrarsi, dichiarandosi “sfortunato” per essere stato “uno strumento nelle mani di poteri più forti, di forze più potenti, e di un destino inesorabile”178. Dal suo punto di vista, le sue competenze cessavano “con la consegna delle tradotte alle stazioni di destinazione secondo gli orari prefissati”179, e nonostante i documenti ufficiali attestassero la centralità del suo ruolo nella “soluzione finale”, la sua tendenza durante l’interrogatorio e il processo fu quella di definirsi un semplice addetto all’organizzazione dei trasporti secondo gli orari definiti180, una sorta di fattorino181, un mero “esecutore di ordini”182.
Le sue dichiarazioni a proposito di inderogabilità degli ordini furono considerate da Arendt pretestuose (“quando un adulto dice di obbedire, egli in effetti sostiene l’organizzazione, l’autorità o la legge che reclama ‘ubbidienza’”183) e dunque rigettate. Tuttavia, come si vedrà nel corso della trattazione, è possibile che nella vita di Eichmann il principio di ubbidienza cui egli diceva di richiamarsi avesse acquisito un’importanza che t...

Indice dei contenuti

  1. Laura Boella
  2. Introduzione
  3. Teorie e testimonianze su Adolf Eichmann
  4. Crimini e distorsione della realtà
  5. Conclusioni
  6. Bibliografia generale