Alessandro Bortolotti*
Le “logiche” delle condotte motorie, tra incorporazione e habitus
“Entrare in gioco è entrare in società”
(Parlebas 2013b, p. 11)
Le diverse agenzie educative sono solite accordare all’attività motoria un ruolo importante in relazione allo sviluppo personale e sociale dei propri membri. Tale sostanziale univocità d’opinioni positive non proviene solo dall’ambito non-formale – come logico aspettarsi, essendo costituito in buona parte da club, federazioni ed enti sportivi – ma in genere anche da quello informale e formale, ovvero da famiglie e istituzioni scolastiche.
Ciononostante, ritengo che il campo di studi ed esperienze che attualmente in Italia viene chiamato “scienze motorie” soffra di un vulnus tutt’altro che secondario: mi riferisco a una debolezza epistemologica specifica, che si traduce in una ragguardevole difficoltà a cogliere in modo adeguato le caratteristiche peculiari della materia. Le ragioni di questa situazione sono molteplici, ma si può far riferimento ad alcuni punti indicativi: storicamente ritenuta poco degna di considerazione da parte della cultura “alta”, l’attività ludico-motoria risulta in realtà davvero complessa da analizzare e comprendere in modo approfondito (Arnold 1988; tr. it. 2002). Basti pensare alla problematicità nel definire i diversi fenomeni sportivi, sia popolari che istituzionali, anche a causa della tendenziale inafferrabilità della dimensione ludica (Bateson 1956; tr.it 1996). Al riguardo dello Sport stesso non c’è affatto uniformità di giudizio. A tale proposito riporto una definizione che si suppone autorevole, dal momento che è contenuta nella Carta europea dello sport, documento d’indirizzo di politica sportiva approvata dal Consiglio d’Europa, ma su cui appare arduo esimersi dal segnalare la sconcertante genericità:
Si intende per ’sport’ qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o non, abbia per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizioni di tutti i livelli (CDDS, 1992, p. 3).
Mi pare chiaro che l’intenzione di fondo degli estensori della carta sia il qualificare come Sport pressoché ogni pratica corporea, da quella informale (la “partecipazione non organizzata”), all’evento più o meno istituzionalizzato (competizioni di tutti i livelli), oltretutto con finalità eterogenee, nonché elencate alla rinfusa, quali l’espressione personale, lo sviluppo psicofisico e sociale, la performance. Sebbene il raccogliere all’interno dello stesso insieme elementi con senso molto diverso, a tratti perfino opposto, possa sembrare a prima vista una nobile iniziativa, se passata al vaglio di un’analisi approfondita risulta in realtà un’operazione omologante che rischia di causare dei veri e propri abusi educativi.
In sintesi, la tesi di fondo che intendo trattare col presente contributo è la seguente: al fine di comprendere l’enorme valore delle pratiche corporee risulta utile tenere presente una prospettiva epistemologica che appare in grado di fornire punti di riferimento chiari su cui confrontarsi, pur sapendo che non si tratta di verità oggettive. Sarà così più semplice ed efficace, scavando sotto la coltre di retorica che spesso le ricopre, studiare l’effettivo contributo che le attività ludico motorie e sportive possono fornire al riguardo dello sviluppo socioculturale.
A tale proposito ritengo fondamentale illustrare alcuni concetti-chiave di un Campo del sapere tutto sommato ancora poco noto nel nostro Paese, concepito relativamente di recente da Pierre Parlebas (1998): la Prasseologia Motoria (d’ora in poi PM). Teorico raffinato con riconosciute competenze in diverse discipline scientifiche e profondo conoscitore delle pratiche motorie, è proprio a partire da queste ultime che Parlebas elabora un insieme ampio e ben assortito di strumenti capaci di analizzarle e classificarle in modo coerente. Lo stesso termine Prasseologia, del resto, significa proprio studio della prassi. Non a caso si dichiara assertore convinto di quella che egli stesso definisce riflessione agente (Parlebas 1997, p. 17), ovvero la possibilità di costruire e rafforzare i concetti astratti a partire da riscontri che, se ben evidenziati da un approccio capace di renderli visibili, possono divenire passaggi importanti per esplorare la complessità del reale.
Il sociologo francese ha dunque contribuito ad elaborare un notevolissimo cambiamento epistemologico nel campo dell’Educazione Fisica, forgiando una disciplina originale che, pur avvalendosi di principi e strumenti suggeriti da diversi campi del sapere quali logica, matematica, sociologia, semiotica, mirano a ri-conoscere le caratteristiche specifiche delle pratiche corporee. La tenace ricerca di elementi peculiari lo specifico campo di studi è motivata dal fine della transdisciplinarietà; in altre parole, egli avverte il bisogno di non dover esclusivamente dipendere da saperi “altri” quali le discipline biomediche o umane, bensì di potersi confrontare con esse ma “ad armi pari”. Il tentativo esplicito consiste nello sviluppare una prospettiva teorico-pratica che, a partire da tratti pertinenti e intrinseci agli stessi fenomeni indagati, permettano di rafforzare la consapevolezza del valore delle pratiche corporee nei processi di soggettivazione.
La PM risulta dunque in grado di facilitare la comprensione del ruolo esercitato dall’incorporazione (Csordas 2003), un processo talmente potente, efficace e pervasivo da riuscire a produrre habitus, tendenze sociali a loro volta così profondamente radicate, reiterate e condivise da apparire “naturali”, perché a livello sia collettivo che personale è facile smarrirne l’origine culturale (Mauss 1936; tr. it. 2017). Tuttavia, non sempre gli habitus vengono accolti senza opposizione alcuna da parte di soggetti e gruppi, per cui si possono registrare processi di resistenza (Bourdieu 1980; tr. it. 2003), dal grande interesse epistemico...