1.
Uno strano tipo di militanza
1. Nonostante Giorgio Caproni non abbia mai voluto definirsi un critico letterario, scegliendo l’appellativo più prosaico di “recensore”, nell’arco della sua parabola autoriale è stato impegnato da una lunga produzione articolistica praticata a partire dalla prima metà degli anni Trenta, sviluppata in più direzioni e assimilabile secondo alcuni criteri di organicità. Dopo l’approfondimento filologico e interpretativo condotto sull’opera creativa, in versi e in prosa, negli ultimi anni si è cominciato a recuperare anche il corpus dei suoi scritti critici, da segnalare, innanzi tutto, per l’insospettabile vastità e per l’ampiezza dei riferimenti. Il primo dato su cui riflettere riguarda la peculiare articolazione di un lavoro letterario che, all’attività del poeta, del narratore e del traduttore, ha costantemente alternato l’onere del pezzo giornalistico.
Ricostruire lo scrittoio del letterato in relazione a quello del poeta significa innanzi tutto non lasciarsi suggestionare dall’opinione che il critico e recensore aveva di sé, o mostrava di avere. Caproni lamenta spesso le difficoltà di un ufficio in cui non si sente a proprio agio, vedendosi diviso fra l’opportunità e la necessità di prendere la parola e la tentazione del silenzio. Ne deriva uno speciale atteggiamento sollecitato sempre dalla parte di chi fa la poesia, anziché giudicarla. Questo moto idiosincratico non sembra tuttavia riguardare la critica o i critici – per i quali, al contrario, il poeta nutre un profondo rispetto – ma è diretto piuttosto ad alcune applicazioni aprioristiche del giudizio di valore, specialmente se degradato nel vizio insopportabile della stroncatura.
Il corpus del secondo mestiere caproniano può essere assunto come un documento. Esso è un valido itinerario di viaggio su cui mappare gli spostamenti del poeta, un’agenda delle conoscenze e dei rapporti intrecciati nel suo lungo cammino ma anche, in valore assoluto, una piccola storia della letteratura novecentesca, comprendente molti degli snodi letterari e culturali che hanno determinato il dibattito nazionale del secolo. In più, a fronte di una gran quantità di nomi citati in maniera occasionale, per alcuni autori e per alcuni specifici temi, si registrano un’attenzione e una costanza che costituiscono un solido palinsesto di interessi, il che sembra decisivo nella descrizione di un lettore apparentemente immune da ogni sistema. Quella del Caproni lettore e critico è insomma un’esperienza originale da connettere alla sua attività artistica e al panorama generale della storia letteraria del secolo scorso, per ricostruire i rapporti di forza che la animano e che, a sua volta, ha contribuito ad animare.
2. Come già accennato, Caproni oppone con cadenza regolare delle resistenze al proprio ruolo di critico. La parola conclusiva su tale argomento sembra essere pronunciata in un’intervista rilasciata a Gian Antonio Cibotto nel 1965, anno in cui il poeta ricopre ormai stabilmente la posizione di lettore e recensore per “La Nazione”, al posto dello scomparso Giuseppe De Robertis. Identificando la critica con un’opinione personale e negandole recisamente ogni parentela con le scienze esatte, chiaro riferimento ai modi dello strutturalismo che si stava attestando con forza anche in Italia, Caproni ammette in maniera definitiva di non sentirsi a proprio agio nella veste del giudice. Il fattore umano, afferma, è troppo più importante di quello estetico e quando si colpisce un libro si rischia di colpire impietosamente anche un uomo, il che appare inaccettabile.
Non si può fare a meno di notare come in questa affermazione emerga l’habitus del creatore che indossa momentaneamente i panni del lettore specializzato per presentare le ragioni di chi è innanzi tutto l’oggetto di una pubblica lettura, condotta magari secondo metodologie sulla cui attendibilità si nutre più di qualche dubbio. Caproni sa troppo bene quale delicata questione rappresenti la formulazione e la diffusione di una valutazione di valore perché, in quanto scrittore, continua ad esserne principalmente il destinatario. Nel suo ufficio di giudice, il poeta introduce così la lunga esperienza del giudicato. È qui che si crea il cortocircuito che l’autore si rifiuta di aggirare per un moto di onestà umana prima ancora che intellettuale. A questo punto, ridottosi volontariamente a uno scacco dal quale non sembra esserci via d’uscita, Caproni si domanda apertamente per quale motivo continui a scrivere recensioni. La risposta, come spesso accade anche nei modi del poeta, è affidata ad una sibillina parentesi che capovolge sul finale i termini della questione, connettendoli a una dimensione superiore, quella dell’esistenza e della necessaria presa di posizione che essa richiede, con implicito riferimento dantesco.
Il paradosso di una situazione assurda, arbitraria, eppure collegata con il senso più basilare della vita, sorta di centro speculativo su cui sempre di più si appunterà la fantasia del poeta, viene esperita anche nel più umile e controverso ruolo letterario, quello, appunto, del recensore:
La figura del giudice è una figura certamente necessaria e benemerita ma... non fa per me. Spesso la critica, magari involontariamente, diventa una cattiva azione, specie se esercitata sui vivi. Non bisogna mai dimenticare che quando si tocca un libro si tocca un uomo, spesso un bravo uomo anche se il libro è cattivo, o se tale ci sembra. Ora, a parte certi casi clamorosamente evidenti, sui quali del resto basta stendere il velo discreto del silenzio, si è proprio sicuri che la nostra opinione sia tanto giusta da... giustificare il cruccio che si procura a un uomo, censurando? La critica, checché se ne dica, non è ancora una scienza esatta, si fonda su un’opinione. [...] Perché allora insisto nello scrivere recensioni, e per giunta con crescente malumore? Me lo domando anch’io, senza trovare una risposta plausibile. Per il semplice gusto di ficcare il naso nelle cose altrui? Per non venir meno agli impegni presi? L’interrogativo rimane aperto (Forse perché un uomo veramente vivo non può esimersi del tutto dal giudicare, anche se il compito è sgradito? La vogliamo metter così?).
Allo stesso anno risale una presa di posizione simile a quella sopra riportata, ma più precisa nei riferimenti. Caproni coglie l’occasione di un’uscita poetica importante come Gli strumenti umani (1965) di Vittorio Sereni per rimarcare la piena adesione alle ragioni dei poeti, in opposizione ad ogni pseudo-sistemazione della poesia condotta dalla falange dei dannosi imitatori della critica vera. In questo caso, l’appartenenza alla classe dei creatori è rivendicata con orgoglio e la particolare postura critica del commentatore si rivela con forza. La lettura caproniana del terzo libro del coetaneo Sereni è tutta giocata sulla contrapposizione tra il fare dei poeti e il vago speculare degli pseudo-critici, che sofisticano la materia spirituale senza aggiungere nulla di nuovo o di utile al discorso comune.
Attenzione però: Caproni non imputa il vizio dell’“Orgoglio” e della “Dismisura intellettuale” ai maestri oggetto dell’imitazione. La sua reazione va piuttosto a scagliarsi contro una vera e propria falange di epigoni, che si adeguano alla moda del momento senza esercitare la prerogativa della propria intelligenza e della propria preparazione, ammesso che ne siano davvero provvisti. Questo crescente fastidio del poeta-lettore deve essere connesso con il “rumore di fondo” che, negli anni dell’entusiasmo critico, ha finito per colonizzare ogni discorso di carattere estetico, allontanando, ai suoi occhi, il fondamento di verità su cui si basa l’esercizio della scrittura. Alla semplicità della poesia viene così opposta l’astrusità delle esegesi che esibiscono un’inutile complessità tecnica. La dimensione dell’accusa raggiunge poi proporzioni apocalittiche quando si arriva all’idea, ass...