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Domanda posta ai fini di una storia dell'arte

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Domanda posta ai fini di una storia dell'arte

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Un'intima e accurata interrogazione sulle certezze che possediamo davanti alle immagini. Le stesse immagini che sono quotidianamente afferrate in virtù di precise categorie del pensiero. Qual è la genealogia che anima quelle categorie? Questa è la domanda posta da Didi-Huberman alla storia dell'arte, ai suoi padri fondatori e ai suoi maestri, alla disciplina in quanto tale e al suo sviluppo attuale. Da Vasari a Warburg, da Panofsky a Freud, passando per Kant, Hegel e Cassirer, Didi-Huberman scava in quella esperienza che ognuno di noi vive di fronte a un'immagine, facendone fiorire le articolazioni recondite, i movimenti sotterranei e i suoi fantasmi.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788857549736

DOMANDA POSTA

Spesso, mentre posiamo il nostro sguardo sopra un’immagine d’arte, siamo colpiti da un’irrecusabile sensazione di paradosso. Ciò che ci affligge immediatamente, e senza giri di parole, è il segno del turbamento, come se si trattasse di qualcosa di evidente che resta oscuro. Al contrario, ce ne accorgiamo subito, ciò che ci appariva chiaro e distinto è solo il risultato di una lunga deviazione – una mediazione, un uso di parole. Tutto è molto banale, alla fine, in questo paradosso. È il destino di ognuno di noi. Possiamo spingerlo via, o lasciarci trasportare da lui; possiamo anche provare un qualche tipo di gioia nel sentirci contemporaneamente avvinti e liberati in questo intreccio di sapere e non sapere, di universale e di singolare, di cose che richiedono una denominazione e di altre che ci lasciano a bocca aperta. Tutto ciò accade proprio sulla superficie di un quadro, di una scultura, dove nulla è stato nascosto o dove tutto davanti a noi sarà stato, semplicemente, presentato.
Ci si può, tuttavia, sentire insoddisfatti di un tale paradosso. Non si vorrà rimanere in quello stato, sapendone di più, ma si vorrà rappresentare, in modo più intelligibile possibile, quello che l’immagine davanti a noi sembra nascondere nonostante la sua presenza. Ci si potrà dirigere verso quel discorso che si autoproclama come sapere sull’arte, come archeologia di cose dimenticate o inosservate nelle opere dopo la loro creazione, antica o recente che sia. Questa disciplina, il cui statuto si riassume di proporre una conoscenza specifica dell’oggetto d’arte, com’è noto si chiama storia dell’arte. La sua invenzione è estremamente recente se la si compara a quella del proprio oggetto: si potrebbe dire, prendendo Lascaux come riferimento, che essa accusa un ritardo sull’arte di circa centosessantacinque secoli, di cui una decina colmi di un’intensa attività artistica nel solo contesto occidentale del mondo cristiano. Tuttavia la storia dell’arte sembra aver colmato oggi tutto il suo ritardo. Essa ha passato in rassegna, catalogato e interpretato miriadi di oggetti. Ha accumulato stupefacenti quantità d’informazioni, e si è resa capace di generare la conoscenza esaustiva di ciò che amiamo chiamare il nostro patrimonio.
La storia dell’arte si pone, in realtà, come un’impresa sempre più conquistatrice. Risponde a domande e diviene indispensabile. In quanto disciplina universitaria non smette di raffinarsi e di produrre sempre nuove informazioni: grazie a esse, gli uomini guadagnano sempre maggiore conoscenza. In quanto all’istanza organizzativa dei musei e dell’esposizioni d’arte, essa non smette di pensare in grande: mette in scena dei giganteschi raggruppamenti di oggetti, grazie a essi gli uomini guadagnano spettacolo. Infine, la storia diviene l’ingranaggio essenziale e la garanzia di un mercato dell’arte che non smette, anch’esso, di rilanciarsi: grazie a essa, gli uomini guadagnano, dunque, anche denaro. Ora, sembra che le tre seduzioni o i tre “guadagni” in questione siano divenuti preziosi alla borghesia contemporanea tanto quanto la salute stessa. Bisogna quindi meravigliarsi, allora, di vedere lo storico dell’arte assumere i tratti di un medico specialista che si rivolge al suo malato con l’autorità di diritto di un soggetto che crede di saper tutto in materia d’arte?
Sì, bisogna stupirsene. Questo libro vorrebbe semplicemente interrogare il tono di certezza che regna così spesso nella bella disciplina della storia dell’arte. Dovrebbe andar da sé che l’elemento della storia, la sua inerente fragilità rispetto a ogni procedura di verificazione, il suo carattere lacunoso, in particolare nel dominio degli oggetti figurativi fabbricati dall’uomo, dovrebbe incitare alla modestia più grande. Lo storico è, in tutti i sensi del termine, il fictor, ovvero il modellatore, l’artigiano, l’autore e l’inventore del passato che egli dà da leggere. E poiché è nell’elemento dell’arte che sviluppa la sua ricerca del tempo perduto, lo storico non si trova più dinanzi a un oggetto circoscritto, ma piuttosto a qualcosa come un’espansione liquida o aerea – una nuvola senza contorni che gli passa sopra cambiando costantemente forma. Ora, cosa si può conoscere di una nuvola, se non qualcosa da indovinare, senza mai coglierlo del tutto?
Nonostante ciò i libri di storia dell’arte sanno darci l’impressione di un oggetto veramente colto e riconosciuto sotto tutte le sue facce, come un passato delucidato senza residuo. Tutto è sempre visibile, discernito. Morte del principio d’incertezza. Tutto il visibile sembra letto, decifrato secondo la semiologia assicurata – apodittica – d’una diagnosi medica. E tutto ciò, come si è soliti dire, fa una scienza; una scienza fondata in ultima istanza sulla certezza che la rappresentazione funzioni in maniera unitaria, che essa sia uno specchio o un vetro trasparente, e che, al livello immediato («naturale») oppure trascendentale («simbolico») essa avrà saputo tradurre ogni concetto in immagine, ogni immagine in concetto. Che, infine, tutto s’incolli perfettamente e tutto coincida nel discorso del sapere. Porre lo sguardo su un’immagine d’arte diviene allora saper denominare tutto ciò che si vede – tradotto: tutto ciò che si legge nel visibile. Vi è qui un modello implicito della verità che sovrappone in maniera strana l’ædeguatio rei et intellectus della metafisica classica a un mito – positivista – dell’onnitraducibilità delle immagini.
La nostra domanda è dunque questa: quali oscure o trionfanti ragioni, quali angosce mortali o maniache esaltazioni hanno potuto così tanto condurre la storia dell’arte verso un tale tono, verso una tale retorica della certezza? Come ha potuto costituirsi – e con così tanta evidenza – una tale chiusura del visibile sul leggibile e di questi, a loro volta, sul sapere intelligibile? La risposta (non fatalmente impertinente) dell’ultimo arrivato o dell’uomo di buon senso sarà che la storia dell’arte, in quanto sapere universitario, non cerca nell’arte che la storia e il sapere universitario; e che per questo deve ridurre il suo oggetto, «l’arte», a qualcosa che evoca un museo o una stretta riserva di storie e di sapere. In breve, la cosiddetta «conoscenza specifica dell’arte» avrà, in modo molto semplice, finito per imporre al suo oggetto la propria forma specifica del discorso, libera di inventare frontiere artificiali per il suo oggetto – ormai spossessato del suo specifico dispiegamento o dilagarsi. Allora si comprenderà l’evidenza e il tono di certezza che questo sapere impone: quello di cercare nell’arte solo le risposte già date dalla sua problematica di discorso.
Una risposta estensiva alla domanda posta ritornerebbe, di fatto, a concentrarsi su una vera storia critica della storia dell’arte. Una storia che prende in considerazione la nascita e l’evoluzione della disciplina, i suoi annessi pratici e i suoi connessi istituzionali, i suoi fondamenti gnoseologici e i suoi fantasmi clandestini. In pratica, il nodo di ciò che essa dice, non dice, e nega. Il nodo di ciò che secondo essa è il pensiero, l’impensabile e l’impensato – evolvendo tutto questo, rivoltandosi, facendo ritorno nella propria storia. Ci siamo accontentati qui di fare un primo passo in questa direzione, interrogando in primo luogo qualche paradosso indotto dalla pratica nel momento in cui smette di domandarsi le proprie incertezze. Successivamente, interrogando una fase essenziale della sua storia, che è l’opera di Vasari del XVI secolo, e i fini impliciti che doveva assegnare per molto tempo a tutta la disciplina. Infine abbiamo tentato d’interrogare un altro momento significativo, quello in cui Erwin Panofsky, con un’autorità incontestata, tenta di fondare con ragione il sapere storico applicato alle opere d’arte.
Tale questione di «ragione», questa domanda metodologica, è essenziale, oggi che la storia utilizza sempre più le immagini d’arte come documenti, persino come monumenti o oggetti di studi specifici. La questione della «ragione» è essenziale, perché è grazie a essa che possiamo comprendere fino in fondo ciò che la storia dell’arte si aspetta dal suo oggetto di studio. Ogni momento importante della disciplina – da Vasari a Panofsky, dall’epoca delle Accademie a quella degli istituti scientifici – consisteva nel riproporre sempre il problema delle «ragioni», nel ridistribuire le carte o riformulare le regole del gioco, ogni volta in funzione di un’attesa, di un desiderio rinnovato, dei fini richiesti da questi sguardi mutevoli che si posavano sulle immagini.
Reinterrogarsi sulla «ragione» della storia dell’arte, è reinterrogarsi sul suo statuto di conoscenza. Perché stupirsi se Panofsky – che non temeva nulla, né d’impegnare il paziente lavoro dell’erudizione, né d’impegnarsi nella presa di posizione teorica – si sia diretto verso la filosofia kantiana per ridistribuire le carte della storia dell’arte, e attribuirle una configurazione metodologica che, in grossa parte, non ha smesso di ricorrere? Panofsky si è diretto verso Kant perché l’autore della Critica della ragion pura ha saputo aprire e riaprire il problema della conoscenza, definendo il gioco dei suoi limiti e delle sue condizioni soggettive. Tale è l’aspetto propriamente «critico» del kantismo; nel formare e informare, coscientemente o in maniera inconscia, intere generazioni d’intellettuali. Cogliendo la chiave di lettura kantiana o neokantiana – tramite Cassirer –, Panofsky spalancava dunque nuove porte alla sua disciplina. Ma queste porte appena aperte, si sono subito richiuse davanti a lui, non lasciando alla critica che un momento di breve passaggio: uno spiffero. È la stessa cosa che il kantismo aveva fatto a sua volta in filosofia: aprire per meglio richiudere, rimettere in questione il sapere, non per lasciar spazio al vortice radicale – quello dell’innegabile negatività del non sapere – ma per riunificare, ri-sintetizzare un sapere la cui chiusura era soddisfatta in virtù di un alto enunciato di trascendenza.
Si dirà che sono problemi troppo generali? Che non riguardano più la storia dell’arte e che devono essere trattati in un’altra sede del campus universitario, quella occupata, in lontananza, dalla facoltà di filosofia? Affermare tutto ciò (si sente spesso), è tapparsi occhi e orecchie, lasciando che la bocca parli da sola. Non ci vuole molto tempo – quello di una domanda realmente posta – per accorgersi che lo storico dell’arte, in ogni suo gesto, modesto o complesso, per quanto possa essere quotidiano, non cessi di operare delle scelte filosofiche. Queste lo guidano, lo aiutano silenziosamente a districarsi in un dilemma, formano astrattamente la sua eminenza grigia – anche e soprattutto quando non la sceglie affatto. Ora, nulla è più pericoloso che ignorare la propria eminenza grigia. Potrebbe condurre all’alienazione. Tant’è vero che fare delle scelte filosofiche senza saperlo ha come effetto quello di far scaturire la peggior filosofia possibile.
La nostra domanda, posta al tono di certezza adottato dallo storico d’arte, si è dunque trasformata, tramite la via traversa del ruolo decisivo preso dall’opera di Erwin Panofsky, in una domanda posta al tono kantiano che lo storico dell’arte adotta molto spesso senza rendersene conto. Non si tratta quindi – al di là dello stesso Panofsky – di un’applicazione rigorosa della filosofia kantiana all’interno del dominio dello studio storico sulle immagini d’arte. Si tratta, ed è peggio, di un tono. Di un’inflessione, di una «sindrome kantiana» in cui lo stesso Kant non è più veramente riconoscibile. Parlare di un tono kantiano della storia dell’arte è parlare di un genere inedito del neokantismo, di una filosofia spontanea, che orienta le scelte dello storico, e forma il sapere prodotto sull’arte. Ma cos’è in fondo una filosofia spontanea? Dove trova il suo motore, dove la conduce, su cosa si basa? Essa si basa solamente su parole, il cui particolare utilizzo consiste nel colmare le brecce, e le contraddizioni, nel risolvere senza un istante d’esitazione tutte le aporie che il mondo delle immagini propone al mondo del sapere. L’uso spontaneo, strumentale e non criticato di alcune nozioni filosofiche, conduce dunque la storia dell’arte a fabbricarsi, non filtri o pozioni d’oblio, ma parole magiche: concettualmente poco rigorose ma efficaci a risolvere tutto, vale a dire dissolvere, a sopprimere l’universo delle questioni a vantaggio della presenza, ottimista fino alla tirannia, di un battaglione di risposte.
Non abbiamo voluto opporre a risposte già fatte altre risposte già fatte. Abbiamo solamente voluto suggerire che in questo dominio le domande sopravvivono a qualsiasi risposta. Se il nome di Freud compare qui di fronte a quello di Kant, non è per stabilire che la disciplina storico-artistica sia sotto il giogo di una nuova concezione del mondo, di una nuova Weltanschauung. Il neofreudismo come il neokantismo – e come ogni teoria scaturita da un pen...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. INTRODUZIONE: PER UNA GENEALOGIA DEL VISUALE
  3. DOMANDA POSTA
  4. APPENDICE: QUESTIONE DI DETTAGLIO, QUESTIONE DI LEMBO
  5. INDICE