Capitolo 1
La struttura fondante:
Consapevolezza, Esperienza
trascendentale, Coscienza
1. La Consapevolezza
Un possibile punto di partenza, non necessitante perché sottoposto alla capacità di affidarvisi di chi la pratica, può essere l’esperienza tipica della meditazione. In essa, infatti, si esperimenta spesso l’inconsistenza del tempo e dello spazio secondo le accezioni volgari che questi due concetti hanno acquisito nella vulgata popolare. Tali accezioni sono state troppo ingenuamente ricondotte a una visione scientifica dei due concetti, sebbene la loro relatività collimi con una fattiva inesistenza che pone in una luce altrettanto relativa ogni esperienza considerata oggettiva da parte dell’Essere Umano. La meditazione permette di accedere alla dimensione eterna presente nella persona, ma più che essere detta e descritta, è un’esperienza che va vissuta personalmente. Come dicevo nell’introduzione, la meditazione è solo una porta d’accesso, che può essere sostituita, in una riflessione parallela alla presente, dalle medesime conclusioni sullo spazio-tempo che si possono raggiungere partendo dalla teoria della relatività di Einstein o ancora tramite la fisica quantistica e la teoria delle stringhe. Indipendentemente dalla porta d’accesso, la considerazione da cui mi preme far iniziare la riflessione del nuovo paradigma è la seguente:
non esiste univoca differenza tra un prima e un poi, tra un qui e un lì, tranne che nella parte della mente che potremmo chiamare, con un termine usuale alla filosofia e ad altri campi, sebbene in questo momento iniziale si faccia per lo più riferimento ancora una volta al senso comune che riflette sulla vita, “coscienza”.
È la coscienza a pensare un prima e un poi, un qui e un lì, creandoli e strutturandoli in maniera gestibile dalla persona; è proprio il senso comune che si risolve in una percezione generica di tali distinzioni a indicarci una prima conseguenza: parrebbe esserci un ambito irriducibile alla coscienza stessa, al quale si può attingere per strutturare dette differenze, per lo meno un ambito logico, logicamente e fattivamente precedente alla coscienza stessa, al tempo e allo spazio da essa concepiti e che, in qualche modo, li ingloba. La percezione di un qui è infatti legata alla supposizione di un lì o, detto in termini ancora più generici, di un “altrove”, così come la percezione di un prima è legata alla percezione di un dopo, che in riferimento al punto di vista del chi che stabilisce il prima si risolve in un luogo, in un “altrove”, in cui vi sarebbe il dopo. Questo “altrove”, a dispetto della sua reale esistenza (a questo punto iniziale della nostra riflessione non ci è dato affermare se tale altrove esista oppure no), assume l’aspetto di un’idea di riferimento che ha luogo nella nostra mente, un’idea che costituisce l’ambito di azione di quell’altrove che ci permette di dire che un dopo seguirà al prima nel quale ci riconosciamo (o viceversa) e che un lì è luogo differente rispetto al qui che siamo noi (o in cui ci troviamo). Tale idea delinea un ambito silente seppur presente, una distinzione logica che permette alla nostra mente di differenziarsi in posizioni alternative, di astrarre da se stessa e di ritrovarsi altrove, per l’appunto, così come avviene, per esempio, quando utilizziamo la fantasia per viaggiare in luoghi inesistenti o per metterci nei panni di chi non siamo. La funzione immaginativa della mente, a cui potremmo ricondurre questa capacità di essere “altrove”, è di per sé ambigua, perché se vogliamo dire qualcosa di chiaro sull’esistenza o meno di ciò che immaginiamo, dobbiamo far riferimento a delle regole implicite della percezione che danno all’essere umano la chiara cognizione di esperire qualcosa di reale, di esistente o, per lo meno, di possibile. Lungi da me il voler approfondire ulteriormente tale aspetto, ritengo tuttavia per lo meno necessario far riferimento a una fondamentale distinzione tra il Tutto, considerato come ciò che sappiamo di noi, ciò che sappiamo di quanto ci circonda e quel che sappiamo di ciò che ha originato tutto, e ciò che realmente è, dove realmente è un avverbio che contiene in sé una nuvola di significati che fanno riferimento alla “cosa” sempre differente da quanto ingenuamente percepito, cioè a quanto è intrinsecamente distinto da noi in quanto soggetti pensanti (ovvero in quanto menti). Tale “cosa” che percepiamo, non possiamo mai pensarla come cosa in sé, bensì sempre e soltanto come cosa-in-relazione-con-noi. Ogni riflessione si possa fare sulla cosa in sé (ciò che per Kant è il noumeno), tale cosa in sé non sarà mai raggiungibile nella sua cosalità distinta dal soggetto che potrebbe pensarla, perché non si dà pensiero sulla cosalità distinto dal soggetto pensante; d’altronde, è altresì chiaro che ipotizzare una cosalità nell’ipotesi di un totale scollegamento dal soggetto che potrebbe pensarla è pura fantasia, priva di ogni fondamento percettivo. La cosalità del reale ci è del tutto irraggiungibile, sebbene non ci sia del tutto estranea, poiché anche solo ipotizzando l’esistenza di un qualcosa che chiamiamo cosalità della cosa, cioè del reale che è alla base della percezione, stiamo ipotizzando un qualcosa che ha a che fare con il piano dell’esistenza così da potercene rapportare tramite la relazione che il soggetto pensante potrebbe instaurare con ciò che di detta cosa è esistente. A tale piano esistente della cosalità appartengono tutte le cosalità, ovvero tutte le irraggiungibilità che, pur non essendo mai raggiungibili come cosa in sé, è necessario ipotizzare nel momento in cui una mente pensa. In questo piano esistente della cosalità si trova quell’altrove che ci permette di distinguere tra un qui e un lì, tra un prima e un dopo o, per dirla tutta, tra un me e un te, tra un io e un noi, e via dicendo. L’ambito esistente di questa cosalità è tale per cui ci permette di definire sempre più la nostra particolare soggettività, creando in noi (qualunque cosa significhi questo in come spazializzazione interna al nostro essere, ulteriore riferimento a un ambito che ci permette di parlare di un altrove che permette di distinguere un luogo in cui qualcosa si crea, per l’appunto, dentro di noi) la convinzione di una distinzione: una distinzione tra me e te, una distinzione tra qui e lì, una tra prima e dopo, e via dicendo per tutto ciò che (ancora una volta ricorre questa necessaria facoltà umana, l’immaginazione) è immaginabile come differente. Potremmo perciò dire che tale ambito esistente della cosalità (distinto, come abbiamo detto da un ambito originario della cosalità noumenica) sia un ambito fondamentale per definire la differenza, la distinzione. In riferimento a tale ambito diveniamo consapevoli di noi stessi e di tutto ciò che ci riguarda. Se possiamo parlare di un ambito della cosalità dell’Essere, lo possiamo fare solo per quella parte che attiene l’esistente e non l’Origine.
Chiamiamo, allora, tale ambito originario della cosalità noumenica: Consapevolezza. Preciso fin d’ora che tale Consapevolezza ha ben poco a che spartire con il concetto ingenuo di quando diciamo che siamo “consapevoli” di qualcosa, come vedremo in seguito. Lo indico fin da ora con la maiuscola per sottolineare l’importanza di un termine che continuerà a tornare, acquisendo, via via che la riflessione procederà, nuova profondità e nuovo significato. Possiamo innanzitutto ricordare quanto abbiamo fin qui detto di tale Consapevolezza, e cioè che si tratta di un ambito escluso dalla dicibilità diretta, trattandosi dell’ambito della cosalità originaria, di quell’in-sé che non potremo mai dire direttamente, ma sempre e solo attraverso la percezione fondata sulla nostra relazionalità con la cosalità esistente. Non sto affermando che tale cosalità originaria esista, ma le leggi intrinseche della percezione ci portano comunque a dire che nel momento in cui percepiamo qualcosa, la stiamo ponendo, sia essa reale oppure no.
Solo una riflessione ulteriore può permetterci di oltrepassare il senso comune, che è quello che porta a completare la facile equazione “sento=esiste”. Un folle che sente le voci, percepisce qualcosa che esiste o che non esiste? Indubbiamente tali voci non esistono, nel senso di qualcosa che giunge dall’esterno della persona folle perché sia colta dal suo orecchio, tuttavia esistono per il folle stesso, che le udirà proprio come udirebbe la mia voce se gli parlassi. In cosa consiste la differenza tra i due casi (voci che sono solo nella sua mente o voci che giungono dall’esterno della sua mente), se non nella capacità che la mente ha di creare una percezione che al folle apparirà sensibile come la voce che giunge dall’esterno? La voce illusoria è creata direttamente dalla mente, la voce reale è compresa dalla mente, che tuttavia, in entrambi i casi, si troverà a dover eseguire un’operazione di sintesi che conduce alla voce percepita. Si potrebbe perciò ridurre il tutto a una questione di stimolo: nel caso della voce esterna c’è uno stimolo reale che nel caso della voce illusoria non c’è. Eppure, fino a che punto è possibile davvero affermare che non vi sia un qualche tipo di stimolo a determinare la sintesi della mente che porta a creare una voce illusoria? Non sarà affatto possibile, perché gli stimoli possono essere di molti tipi: stimoli fisici, stimoli emotivi, stimoli mnemonici, per dirne alcuni, laddove ciascuno di essi agisce come una causa per un effetto. Io parlo all’orecchio del folle e il folle sente la mia voce: uno stimolo fisico, meccanico, porta la sua mente a sintetizzare una voce tramite il nervo uditivo, dotata di un certo significato, che a sua volta creerà reazioni di un certo tipo sulla base di contenuti emotivi o di altro. La mente del folle, poniamo un altro caso, crea una sintesi vocale che non è motivata da stimolo esterno, bensì interno, che potrebbe essere comunque fisiologico o mnemonico. Oppure emotivo. Il vivere un’emozione particolare, intensamente vissuta già in passato, dà il via a una reazione della sua mente che la conduce a sintetizzare una voce che gli comunica qualcosa. Di che tipo sarà, allora, lo stimolo in questo caso? Non si potrà forse parlare di stimolo narrativo? Il ricordo non è che una narrazione di un evento passato (o anche, come spesso accade, di un evento che non è mai accaduto in quel modo preciso o non è accaduto affatto), ma è proprio questa narrazione, con il suo insito significato, a determinare la reazione della mente. Siamo ancora nell’ambito di una causa e di un effetto, sebben appaia qui già ben più sfumato il confine tra ciò che è causa e ciò che è motivazione: il rapporto causa-effetto, infatti, è un rapporto meccanico, che agisce per “contatto” (con tutto ciò che si può intendere tramite la parola “contatto”), mentre nella narrazione possiamo parlare di motivazione, che potremmo considerarla una causalità narrativa, sebbene causa non sia affatto. La motivazione che la narrazione è in grado di conferire a una mente è una sorta di occasione offerta per compiere un’azione: quali e quante occasioni ha la nostra mente (esattamente come la mente di un folle) di creare una reazione (che è un’azione condotta in risposta a una “cosa” che accade, res-azione) a eventi che consideriam...