La religione nell'epoca della morte di Dio
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Morte di Dio e trionfo della religione: tali le coordinate che inquadrano la riflessione di questo saggio. Le società secolarizzate, che hanno relegato il religioso alla mera sfera privata, ne stanno conoscendo l'inatteso revival nella sfera pubblica. È in un contesto emancipato dalle tradizioni, epurato dal riferimento a Dio e al divino, che la religione instaura il proprio incontrastato trionfo: non quale rapporto verticale con il trascendente, bensì come dispositivo di gestione sociale del desiderio, come amministrazione orizzontale degli uomini e delle collettività.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788857558233
Dio: un’idea necessaria.
Intervista a M. Marassi
Caro professore, lei è un grande studioso della metafisica e in generale del pensiero occidentale; per cominciare il nostro dialogo desideravo che ci soffermassimo in primo luogo sul dispositivo moderno di pensare a Dio e al divino. Indubbiamente, Kant costituisce a questo livello un imprescindibile punto di svolta: da un lato, infatti, il filosofo di Königsberg riconosce che la teologia e l’indagine speculativa del divino sono come inscritte nella natura profonda della ragione umana, la quale non può fare a meno di travalicare, di trascendere l’ambito dell’esperienza possibile, osservabile, e con ciò il perimetro della conoscenza scientifica; dall’altro, una volta ricondotta ai limiti della sola ragione, la religione viene a identificarsi con un’etica epurata dai residui mitici o dalle figure esemplari. È così?
Una prima parte della domanda riguarda la teologia, la seconda parte la religione. Questi due ambiti vanno tenuti distinti, altrimenti la proposta di Kant risulterebbe del tutto incomprensibile, se non addirittura contraddittoria.
Per quanto riguarda il primo aspetto occorre precisare che nella “Dialettica trascendentale” della Critica della ragion pura opera la facoltà della ragione le cui forme a priori sono le idee all’interno di sillogismi (quindi non i concetti e i giudizi come avviene per l’intelletto). Proprio per la sua struttura, la ragione tende all’incondizionato e alla totalità, cercando di prescindere dalle condizioni sensibili (KrV, B 349, 353, 359, 363, 364, 379, 380, 383, 391-392). La storia della metafisica testimonia ampiamente questo tentativo, destinato però secondo Kant all’insuccesso: noi infatti conosciamo un oggetto solo quando l’oggetto è dato in corrispondenza di un’intuizione sensibile. La dialettica genera dunque una logica della parvenza, non della verità. Tuttavia, si deve osservare che l’oggetto della teologia contiene “la condizione suprema della possibilità di tutto ciò che può essere pensato (l’ente di tutti gli enti)” (KrV, B 391-392). Da questo punto di vista, ben lungi dall’essere inutile o illusoria, la ragion pura fornisce l’idea per una dottrina trascendentale dell’anima, del mondo e anche una conoscenza trascendentale di Dio. E questo non mi pare un risultato di poco conto.
A proposito della teologia, è vero che Kant riprende le tre specie di prove possibili dell’esistenza di Dio (le altre sono ricondotte a queste tre e tutte dichiarate non valide), giungendo a dichiararle infondate. L’argomento ontologico è respinto perché l’esistenza (“Dio è”) non è un predicato reale (si pensi all’esempio dei cento talleri), l’argomento cosmologico perché salta indebitamente da una causa valida per il mondo fisico a una causa trascendente il mondo fisico e l’argomento fisico-teologico (ripreso da Leibniz) procede da un fine valido nel mondo fenomenico a un fine trascendente l’esperienza.
Tenendo conto di queste valutazioni rimane comunque il fatto che le idee della ragione non sono soltanto fonte di errore, ma possono dare ordine e unità ai concetti dell’intelletto, dato che non si riferiscono mai direttamente agli oggetti: “queste idee hanno un uso regolativo vantaggioso e assolutamente necessario, vale a dire quello di dirigere l’intelletto a un certo scopo, in vista del quale le linee direttive di tutte le sue regole concorrono verso un unico punto, il quale… serve a fornire a tali concetti la massima unità ed estensione” (KrV, B 672).
Quando le idee assumono questo ruolo regolativo risultano “positive”, ampliano cioè la conoscenza perché sono principi regolativi dell’unità sistematica del molteplice empirico (KrV, B 699): introducono infatti nella conoscenza un elemento sistematico e la conoscenza diventa pertanto un sistema connesso secondo leggi necessarie; in questo modo il sistema prende perciò il posto del mero aggregato.
Kant ipotizza così un “ordine sistematico e conforme a fini dell’universo” (KrV, B 726), che ci costringe ad ammettere e presupporre un “creatore unico sapiente e onnipotente del mondo”. Qui la nozione di finalità in relazione alla forza di giudizio è solo accennata, ma nella terza Critica diventerà il principio a priori in grado di potenziare questa stessa facoltà, rendendola capace di mediare intelletto e ragione.
Dunque, Kant non conclude che Dio non esiste, bensì che Dio è il perfetto ideale da completare con una teologia morale, come farà nella seconda Critica e nella Religione nei limiti della semplice ragione.
La seconda parte della domanda riguarda invece l’identificazione della religione con l’etica. Credo che questa sia un’assunzione del tutto estranea al pensiero di Kant e credo di poter precisare la mia convinzione in questo modo. Infatti, più che una riduzione della religione all’etica, vale forse il contrario, ossia sarebbe più corretto dire che, in Kant, si arriva alla religione solamente quando ci si è spinti ai margini estremi della dimensione morale: “In tal modo la legge morale, attraverso il concetto del sommo bene come oggetto e scopo finale della ragion pura pratica, conduce alla religione, cioè al riconoscimento di tutti i doveri come comandamenti divini, non come sanzioni, cioè comandi arbitrari e per se stessi fortuiti di una volontà estranea, ma come leggi essenziali di ogni volontà in se stessa libera, che tuttavia debbono esser viste come comandi dell’essere supremo, perché soltanto da una volontà moralmente perfetta (santa e buona) e nello stesso tempo onnipotente possiamo sperare quel sommo bene che la legge morale ci fa un dovere di proporci come oggetto dei nostri sforzi e che perciò possiamo sperare di raggiungere attraverso l’accordo con questa volontà” (KpV, A 233).
D’altra parte, proprio la Religione nei limiti della semplice ragione si apre con un’affermazione significativa rispetto ai rapporti religione-moralità: “La morale, essendo fondata sul concetto dell’uomo come essere libero, il quale, appunto perché tale, sottopone se stesso, mediante la propria ragione, a leggi incondizionate, non ha bisogno né dell’idea di un altro essere superiore all’uomo per conoscere il proprio dovere, né di un altro movente oltre la legge stessa per adempierlo”. Ciò che non proviene dalla “libertà non può valere come surrogato per ciò che manca alla moralità” (RGV, B III).
Se fosse ancora necessaria un’ulteriore precisazione in merito alla fede che Kant ripone nella religione, credo sia sufficiente ricordare un passo esemplare contenuto in un saggio del 1791: Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea. Qui Kant elogia la fede di Giobbe, tormentato nella carne e nello spirito, e tuttavia capace di dire “Finché non viene la mia fine, non voglio allontanarmi dalla mia pietà” (Gb 27, 5-6). Qui mi pare sinteticamente paradigmatico il modo in cui Kant concepisce il rapporto morale-religione, attestato dalla coerenza e dalla rettitudine di una vita esemplare: “Con questa disposizione d’animo egli dava prova di fondare non la sua moralità sulla fede, bensì la fede sulla moralità: nel qual caso la fede, per quanto debole possa essere, è però d’un genere più puro e più autentico; un genere di fede che fonda una religione della buona condotta, e non già interessata prioritariamente al favore divino” (ÜGTP, in Scritti sul criticismo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 143-144).
Soffermandoci su questa lettura di Kant, che differenza possiamo ricavare, a suo parere, da questa suddivisione di ambiti tra teologia e religione? Quale spazio rimane alla fede?
La fede in Kant è un concetto che non è necessariamente legato alla sfera religiosa, essendo di fatto polivoco. Kant parla ad esempio di “fede razionale”. Nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785), egli ritiene che ammettere un mondo intelligibile accanto al mondo sensibile “resta pur sempre un’idea utile e lecita a vantaggio di una fede razionale… Questo tipo di fede suscita nell’uomo un interesse per la legge morale e per un regno universale dei fini” (Ak IV: 462, trad. a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1997, p.163).
Sempre nella Religione nei limiti della semplice ragione emerge poi un concetto interessante circa i rapporti fra la ragione e ciò che, per definizione, la trascende, Kant parla in proposito di “fede riflettente”. Proprio perché la ragione non conosce, bensì desidera – si deve qui ricordare la distinzione posta da Kant nella sezione IX dell’introduzione alla Critica del giudizio, in cui, all’interno del conoscere, operativa è la facoltà dell’intelletto mentre la ragione è operativa all’interno del desiderio –, Kant ritiene che esista qualcosa d’altro oltre a ciò che la ragione è in grado di comprendere e questo qualcosa, “pur essendole ignoto, sarà di giovamento alla sua buona volontà”. L’atteggiamento della ragione verso questo quid, ulteriore rispetto alla sua comprensione, è quello di una “fede che potrebbe esser detta riflettente (sulla possibilità della cosa) perché la fede dogmatica, che pretende valere come scienza, appare alla ragione insincera e presuntuosa” (Ak VI: 52, trad. di A. Poggi (leggermente modificata), con Introduzione di M.M. Olivetti, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 57).
Ma non tutto si riduce a una fede razionale e a una fede riflettente. C’è anche una fede basata sulla relazione creaturale e sulla conoscenza pratica.
Tra queste, prioritaria rimane la fede morale, la quale riconosce l’esistenza di Dio, della sua onnipotenza, della sua bontà e santità. Questa rivelazione morale, e quindi interiore, è una conoscenza naturale di Dio, ossia la rivelazione di Dio colta mediante la ragione desiderante dell’uomo. In tal senso non si nega la divina rivelazione propria di Dio. Si afferma invece che la fede in questa divina rivelazione è preceduta dalla fede morale nell’esistenza di Dio. La possibilità della rivelazione – sia quella divina sia quella morale – si basa proprio sui limiti della ragione e sulla presenza negli uomini della norma morale. Chiediamoci il perché, tra le celebri domande kantiane, della presenza del “Che cosa posso sperare?”. Da dove viene la necessità di questa domanda? Qual è la fonte della sua legittimità? Essa sta a caratterizzare la differenza dell’aspetto conoscitivo e di quello morale, affermando la singolarità dell’atteggiamento religioso della coscienza dell’uomo, che si esprime in un’attesa ultraterrena e nell’affermazione di una eccedenza, appunto non conoscibile e tuttavia promessa e desiderata già nella coscienza della legge morale e della libertà. La religione evidenzia dunque due aspetti complementari: da una parte il fatto che la sua conoscenza è pratica e dall’altra che si struttura su una relazione creaturale. Quando la ragione riconosce i propri limiti, nel contempo accetta il mistero di Dio, di colui che assolutamente trascende il mondo. Se la ragione umana non può conoscere né intuire il soprasensibile, tuttavia non deve sottrarsi al bisogno naturale della ragione di pensare e aspirare all’assoluto incondizionato. Pertanto, se da una parte è impossibile pervenire alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, è altresì assolutamente necessario persuadersi dell’esistenza di Dio (L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio) tramite una conoscenza pratica che conduce al teismo, ossia all’affermazione dell’esistenza di Dio. La fede morale è quindi disponibilità a operare secondo i disegni di Dio.
Inoltre, si è detto, la religione è una relazione creaturale che consiste principalmente nel compiere il volere di Dio e che si esprime dinamicamente mediante la legge interiore e la disposizione al bene. In questa relazione creaturale e morale Dio non è primariamente il giudice del bene o del male, o il garante esterno di meriti acquisiti, ma è il creatore santo e buono che sostiene le creature come padre e le soccorre nella loro fragilità. Ciò non toglie che gli uomini debbano prima attuare quanto è in loro potere. Questa religione morale, pur fondandosi sulla legge morale e sulla relazione creaturale, non si identifica con la morale come tale. Questa, infatti, per la sua autonomia può essere esercitata anche da chi non professa una religione, la quale invece consiste nella conoscenza pratica degli obblighi verso Dio. Operare religiosamente significa infatti agire secondo il volere di Dio, seguendo i suoi comandamenti. La religione è perciò la conferma distintiva della morale. Ora, da una parte Kant può così sostenere, in forza della legge morale, che si può volere il bene prima e indipendentemente dalla conoscenza di Dio, ma d’altra parte egli nega espressamente che la virtù e la felicità possano attuarsi pienamente nell’indifferenza religiosa. La fede morale è perciò il riconoscimento e l’attuazione della volontà del creatore, una volontà presente nella coscienza morale. Per questo – e non si tratta soltanto di un infantile residuo della formazione pietistica di Kant – l’uomo si rivolge a Dio nel silenzio e nello spirito di preghiera, conformando l’interiorità della fede religiosa all’attuazione dei fini e della volontà di Dio.
Mi pare inoltre che la modernità abbia dovuto fare i conti con la tensione strutturale tra verità di ragione e verità di fatto, tra universale e particolare; penso infatti al dilemma di Lessing: come è possibile ammettere che, in un caso particolare come una rivelazione positiva, sia presente una verità universale e transstorica?
Il fatto che la verità abbia una storia o, detto in altri termini, che la verità sia vincolata alla storia può sembrare un paradosso. La questione poi si acuisce ancor di più in rapporto alla rivelazione. Infatti, come può la verità eterna della rivelazione declinarsi nel contingente? Oppure: come è possibile all’interno della fatticità dell’esistenza provare l’esistenza di verità razionali, necessarie ed eterne? D’altro canto, è innegabile che Dio si rivela come evento storico, si assegna alla contingenza, al mutamento, alla effimera precarietà di ogni fatto storico. E pur tuttavia la divina rivelazione esige di essere conside...

Indice dei contenuti

  1. Premessa Religio etsi Deus non daretur
  2. Ipotesi
  3. M. Bergamaschi Devotio postmoderna. Morte di Dio e trionfo della religione
  4. Teorie
  5. L’Uomo: una natura religiosa. Intervista a S. Petrosino
  6. Dio: un’idea necessaria. Intervista a M. Marassi
  7. Il Mondo: la magia dei media. Intervista a C. Giaccardi
  8. Fenomeni