La Femminilità trionfante:
il Surrealismo, Leonor Fini
e la Sfinge
Alyce Mahon
University of Cambridge
Non siamo forse da lungo tempo a conoscenza che l’enigma della sfinge riveli molto di più di quanto non sembri?
A. Breton, View, 1942
La mitologia può essere un testo il cui significato resta «arbitrario, senza senso, assurdo», aperto, come Claude Lévi-Strauss ha argomentato, a molteplici interpretazioni ideologiche e geografiche. Per i surrealisti tuttavia, la mitologia offriva una trattazione del fantastico volta alla difesa dell’irrazionale. Il mito della sfinge aveva un’attrattiva particolare in quanto offriva il meta-testo perfetto per giungere a un’esplorazione del desiderio proibito, rappresentava l’incarnazione stessa della femme fatale, come anche il luogo in cui si genera l’incontro col meraviglioso, e nello stesso tempo era un mezzo per l’analisi di sé dove logica ed enigma sono posti l’uno contro l’altro.
Una visione del desiderio legata al genere era certamente intrinseca alla posizione dei surrealisti e la sfinge ne è la rappresentazione poetica. Paradossalmente, la donna nel Surrealismo era idealizzata da un lato, quale sorgente di un particolare potere iniziatore e liberatore, dall’altro come seduttrice fatale. Il suo profilo a doppio taglio, che sottende sia vita che morte, permette all’uomo surrealista di apparire come un eroe poetico, che si incammina su sentieri sconosciuti alla ricerca dell’amore, fronteggiando il pericolo e il desiderio, siano essi nella città, nel castello, nella foresta o nei paesaggi desertici. Nel suo Discours sur le peu de réalité (1924), André Breton immagina armature e donne come fossero il sacro Graal, inscenando la sfida nel castello medievale:
Mi schiero nel vestibolo del castello, lanterna in mano, illumino, una dopo l’altra, le armature scintillanti […] una di queste sembra essere quasi della mia taglia. Se soltanto potessi indossarla in modo da catturare un accenno del sentimento proprio dell’uomo del quattordicesimo secolo».
Breton volta le spalle alla modernità in favore dell’araldica e del fascino romanzesco dell’ignoto. Accanto alla sua visione romanzesca dell’artista quale cavaliere medievale si delinea una frontiera non occidentale che appartiene al personaggio della sfinge. Breton implora:
Oriente! Vittorioso Oriente! Tu che hai soltanto un valore simbolico, liberati di me, Oriente d’ira e di perle! Nel fluire di una frase quant’anche nel misterioso vento del jazz, rivelami i tuoi piani per le rivoluzioni future. Tu che sei l’immagine fulgida delle mie espropriazioni, tu Oriente, bellissimo uccello innocente e predatore, io ti imploro dagli abissi del reame dell’ombra! Ispirami, cosicché io possa essere colui in cui non ci sono più ombre.
Sebbene nel Discours sur le peu de réalité la sfinge stessa non sia direttamente presente, lo sguardo orientalista dell’autore rafforza il fascino erotico della sfinge. L’evocazione di terre straniere completa, per Breton, la visione della donna ideale, alimentando la fantasia per l’esotico. Quattro anni più tardi è la protagonista stessa dagli occhi neri, in Nadja (1928), a parlare con la sfinge senza intermediari. Nel momento in cui la protagonista e la città, Parigi, diventano un’unica entità, e Breton, al contempo, desidera e teme Nadja, quest’ultima rivela molti tratti simili a quelli della sfinge. Mentre Breton e Nadja passano di fronte all’Hotel Sfinge a Parigi, Breton si interroga riguardo al rapporto musa-maestro che esiste fra loro e sul potere che tuttavia lei ha di bloccarlo:
Dal primo all’ultimo giorno, ho considerato Nadja un genio libero, qualcosa come uno di quegli spiriti dell’aria che certe pratiche di magia consentono di legare momentaneamente a sé ma che è impossibile sottomettere. Quanto a lei, so che le è accaduto nel pieno senso della parola di prendermi per un dio, di credere che fossi il sole. Mi ricordo anche […] di esserle apparso nero e freddo, come un uomo folgorato ai piedi della sfinge.
In L’Amour fou (1937) Breton trasporta la sfinge e la ricerca romantica al di fuori dalle strade parigine, ancora una volta verso l’Oriente. Scrive di una notte di maggio intrisa del desiderio e profumo «in un sussurro senza riposo, vertiginoso come il segnale, sopra la seta dei deserti, della sfinge che si sta avvicinando». E ancora una volta, la natura corporea della terra desertica, dalle curve ondulanti, le superfici di seta e gli aromi profumati, come le carni di una donna nubile, permettono a Breton di rappresentare l’uomo artista come un amante valoroso ed esploratore e la donna come perpetuamente elusiva. In questa rappresentazione dell’io, Breton ha seguito gli scritti di Eliphas Lévi (Alphonse Louis Constant, 1810-1875), l’alchimista del XIX secolo che il leader del Surrealismo prese come riferimento e a cui rese omaggio nella sua Histoire de la magie (1957). Nei suoi testi Lévi aveva adottato una posizione gnostica riguardo al desiderio, che si basava sulla fusione di elementi ebraici, cristiani, babilonesi e egiziani; elementi che contribuirono alla formazione di molte delle idee di Breton come è stato documentato da Anna Balakian nel testo André Breton, Magus of Surrealism (1971).
In particolare, Lévi concepiva il desiderio come capace di «superare le antinomie: la coincidentia oppositorum, la coesistenza degli opposti e l’inversione dell’uno nell’altro». Inoltre negli scritti di Lévi, alla donna era attribuito il ruolo di profeta e nella sostituzione del grido politico della Rivoluzione francese alla «libertà, uguaglianza e fratellanza» con la chiamata all’«umanità, giustizia e solidarietà» Lévi allinea la lotta per la difesa di questi concetti con «l’enigma della sfinge moderna, enigma che deve essere divinato o periremo». In virtù di queste idee, è la capacità della donna di cambiar forma, il suo travestimento allegorico quale sfinge, sirena, ragazza meravigliosa dalle gambe di serpente, l’iconica Melusina o Iris, che permette a Breton di vedere la figura femminile come una forza trasformatrice. La donna, nel sostenere la perdita dell’io nell’altro, ha la possibilità di guidare l’uomo nella “seta dei deserti”.
Come Breton si è rivolto alla sfinge quale tramite per rinforzare la sua fantasia del binomio cavaliere-musa, Max Ernst e Salvador Dalí la hanno interpellata come seducente intermediaria fra gli dei e l’uomo, fra la fantasia e la realtà, ponendo un’enfasi particolarmente freudiana sul racconto. Sigmund Freud associò la sfinge alla sessualità proibita: infatti la particolare interpretazione freudiana del ruolo della sfi...